Lipara: "Biometano, il Comune scelga se stare con i cittadini o cedere a spinte speculative"
Mi inserisco nel vivace dibattito scaturito dalla richiesta avanzata dalla multiutility A2A di realizzare un impianto per la produzione di biometano nel parco sovracomunale del Po e del Morbasco, all’interno del complesso industriale già occupato dalla discarica dismessa di San Rocco, dal termovalorizzatore e dal meno conosciuto impianto a biomasse legnose, a sua volta già realizzato e messo in funzione ad insaputa dei residenti nella zona. Trovo sia molto positiva la decisione, fino a pochi giorni fa tutt’altro che scontata nonostante le chiare indicazioni normative, di assoggettare l’opera all’iter di Valutazione di Impatto Ambientale. È evidente che le questioni sollevate in queste ultime settimane da chi si oppone alla realizzazione del nuovo impianto non erano peregrine e che chiunque avesse pensato di poter procedere speditamente alla sua realizzazione ne stava gravemente sottovalutando l’impatto. Seguiremo attentamente l’iter e misureremo sul campo l’effettiva volontà di approfondire con rigore ogni aspetto che possa arrecare pregiudizio per l’ambiente e le persone. Ma in questa sede non mi fermerò ai soli aspetti procedurali. Per meglio comprendere il contesto ambientale e sociale nel quale questo nuovo progetto va ad inserirsi, configurando quella che definirei la “terza area industriale a pezzettini”, è necessario ricordare che il quesito del referendum consuntivo del 1994 (il cui esito fu poi violato dalla scelta di costruire comunque l’inceneritore) riguardava precisamente la localizzazione dell’impianto in quel sito, ritenuto inidoneo anche sulla base di uno studio realizzato, ai tempi, dall’ENEA. Oggi come allora è nota la capacità delle aree industriali di generare automaticamente nuove trasformazioni perché nel tempo, a prescindere dalla loro compatibilità con il contesto di prossimità alla città, sono le logiche economiche e produttive, quando non quelle speculative, a spingere verso la colonizzazione dei siti sui quali esse insistono.Tant’è, che nella relazione di studio preliminare ambientale depositata da A2A, la scelta del sito in cui realizzare il nuovo impianto è motivata proprio dalla sua vicinanza “all’impianto a biomasse legnose di Linea Green S.p.A. e a poche centinaia di metri dal termovalorizzatore di Linea Ambiente Srl, in un contesto quindi già fortemente antropizzato, nel quale sono già presenti impianti tecnologici per la produzione di energia…”.
Non gli oppositori alla realizzazione dell’impianto, quindi, ma la stessa azienda proponente ammette che “negli ultimi decenni il contesto rurale tipico della pianura cremonese che caratterizza il sito è stato progressivamente affiancato da fasce sempre più ampie di antropizzazione che sono giunte a lambire l’area oggetto di intervento”. Il tempo è sempre galantuomo; il popolo del referendum aveva visto lontano: a prescindere dalle effimere garanzie fornite dagli amministratori del momento, la colonizzazione industriale del Parco del Po e del Morbasco procede inesorabile con tanto di varianti urbanistiche realizzate ad hoc. Le stesse compensazioni, nel lungo periodo, lasciano sempre il tempo che trovano, essendo ben altra cosa rispetto alle misure di riduzione delle emissioni e del consumo di suolo. Prova ne sia che sempre all’interno del progetto Cremona 20/30 sono presenti ulteriori insediamenti futuri ancora più estesi che progressivamente continueranno a divorare il Parco, accerchiando sempre più le abitazioni ed incrementando l’impronta ambientale di quel sistema industriale nel suo complesso.
Lasciando all’ufficio stampa dei proponenti la comunicazione edulcorata e rassicurante circa le meravigliose proprietà ambientali del mega digestore ed in attesa degli sviluppi della VIA, pare utile riflettere accuratamente sull’opportunità di portare in città una produzione che convoglierebbe a ridosso delle case senza adeguate infrastrutture viarie flussi ingenti di mezzi inquinanti con un carico di 94.000 tonnellate all’anno di reflui zootecnici, scarti alimentari e cereali (20.000 tonnellate all’anno coltivate in campo aperto esclusivamente per alimentare la fabbrica del gas!). Il tutto all’interno di un ciclo produttivo mostruosamente idrovoro che, come noto, genera emissioni nauseabonde percepibili stabilmente anche a distanze considerevoli, particolato sottile in quantità ingente (sia primario che secondario) e, come noto in letteratura, altre emissioni di sostanze e microorganismi pericolosi per l’ambiente e la salute sia umana che animale, disperse sul territorio attraverso le 70.000 tonnellate all’anno di digestato in uscita. Da queste considerazioni scaturisce un’ulteriore questione cruciale: l’utilizzo improprio e strumentale del concetto di economia circolare per giustificare una tecnologia estremamente impattante. Improprio perché questo processo industriale non è caratterizzato da sole catene chiuse; tant’è che, nei piani di finanziamento dell’UE questa tipologia di impianto è inserita nella missione energia (M2C2) e non in quella dell’economia circolare (M2C1). Strumentale, perché frutto di una comunicazione che, lasciando trapelare solo messaggi rassicuranti per l’opinione pubblica, pretenderebbe di far atterrare a 2,5 km dal Torrazzo, in una città collocata nel cuore profondo di uno dei territori più inquinati al mondo un impianto che con gli obiettivi di decarbonizzazione ha poco da spartire, in quanto estrae carbonio dalla materia organica per destinarlo a finire in atmosfera sotto forma di CO2 a seguito della combustione del metano ricavato. Il tutto in barba agli obiettivi internazionali sulla riduzione delle emissioni climalteranti che richiederebbero all’agricoltura di sequestrare nel terreno quanto più carbonio possibile. Ebbene, se da residenti nella zona dubitiamo che eventuali opere compensative possano risarcire i proprietari delle civili abitazioni della zona dalle conseguenze sulla propria salute derivanti dalle emissioni dell’impianto e dalla inesorabile svalutazione del valore di mercato del proprio patrimonio immobiliare, alla luce di queste considerazioni non possiamo consentire che la resistenza montante alla realizzazione di questo impianto venga derubricata a fenomeno di “fisiologica” riottosità ad accettare la presenza di impianti in prossimità del proprio ambiente di vita. In primis perché, obtorto collo, la presenza trentennale di mostri “nel nostro giardino” già ci è stata imposta; in secondo luogo perché non possono essere tralasciate la cultura e l’esperienza politica ed amministrativa che contraddistinguono, oltre che il sottoscritto, anche molti altri firmatari delle petizioni in opposizione all’impianto. Ed è proprio da ex amministratore di questa città che introduco la considerazione conclusiva di questo mio contributo al dibattito, in quanto fu proprio nella veste di consigliere comunale di maggioranza che durante il primo mandato Galimberti votai a favore degli atti di indirizzo politico che consentirono ad AEM di procedere, con atti successivi, alla ratifica della partnership tra LGH ed A2A, nel contesto del rafforzamento della cosiddetta Multiutility dei territori. Oggi come allora resto convinto che quell’indirizzo fosse necessario per aprire la strada al risanamento della grave posizione debitoria della patrimoniale del Comune e per la tutela dei numerosi posti di lavoro in gioco nelle aziende del gruppo LGH, sempre meno competitive in un mercato molto aggressivo. Oggi come allora condivido con il Sindaco la soddisfazione per l’esito di quelle scelte che, ispirate alla difesa del patrimonio cittadino, hanno consentito di ripianare in brevissimo tempo i conti di AEM che è tornata a distribuire dividendi indispensabili per gli equilibri del bilancio comunale. Oggi come allora sono fiero di aver tutelato famiglie, aziende costruite con investimenti del territorio nei decenni precedenti, servizi essenziali di qualità. Ma è con quello stesso spirito che oggi faccio appello alla politica affinché ascolti e raccolga il forte grido di una comunità che continua a pagare a carissimo prezzo le conseguenze di modelli di sviluppo incompatibili con le caratteristiche climatiche e geografiche della Pianura Padana, se si considera che nella sola provincia di Cremona sono già attivi circa 170 impianti per la produzione di biogas. A mio avviso, quindi, la politica cremonese si trova oggi a un bivio: può provare a richiudere la ferita democratica aperta in città dallo strappo di trent’anni fa dando un segnale di prossimità al sentimento profondo dei cittadini che chiedono di non portare in città questa tecnologia così impattante o arroccarsi sulla linea dell’autoreferenzialità e cedere alle spinte speculative di operatori che si propongono di far fronte alla crisi energetica contingente, incuranti delle conseguenze ambientali a breve, medio e lungo periodo e delle lacerazioni sociali che questo modello di sviluppo industriale continua a generare, anche nelle comunità locali.
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