15 marzo 2021

Angelo Motta, il metallizzatore di corpi

Scienziato pazzo, genio della chimica, o impostore? Sul cremonese Angelo Motta pesa il giudizio del direttore del manicomio provinciale Giuseppe Amadei che, nel 1889, dopo la sua morte, lo definì un “mattoide”. In realtà il professor Angelo Motta apparteneva a quella schiera di scienziati positivisti che, dalla metà dell'Ottocento, inseguiva il miraggio di preservare i corpi dalla decomposizione. Una schiera che, tra gli altri, annovera illustri personalità come il pavese Paolo Gorini, Girolamo Segato, Efisio Marini, Raimondo di Sangro. Personaggi eccentrici e misteriosi che hanno in comune il fatto di aver portato il loro segreto nella tomba. Visti con diffidenza, osteggiati in quanto appartenenti, come quasi tutti gli scienziati del tempo, alla massoneria, bollati come stregoni. Famoso resta il caso di Paolo Gorini, nei cui confronti a Lodi si era diffusa la voce che, bussando alla porta del suo laboratorio, si poteva venire accolti da una delle sue mummie. L'orrore per la putrefazione e, di conseguenza, il desiderio di conservare i corpi umani, nasceva da diverse esigenze di tipo igienico, sanitario e scientifico, in un periodo storico in cui l'assenza di norme igieniche era all'origine del susseguirsi di epidemie coleriche e di febbre tifoide e la difficoltà di conservazione dei reperti anatomici impediva l'approfondimento degli studi in materia. Ma come conservare i corpi? Se Gorini e Segato avevano sperimentato tecniche di pietrificazione, il nostro Motta, esperto di oreficeria e galvanoplastica, era noto come il “metallizzatore”: prima di morire in miseria nel 1888, a Torino aveva trasformato in rame la testa di una bambina cremonese, Fanny Podestà, avvelenata per errore con acido solforico dalla inserviente. 

Angelo Motta, nato a Cremona nel 1826, affermava di poter trasformare in metallo, tramite l’utilizzo della corrente elettrica, qualsiasi corpo immerso in una soluzione, in maniera che di questo rimanesse la struttura fino al livello molecolare, ma la sostanza non sarebbe stata altro che metallo. Osteggiato a Cremona, ma difeso da giornali come “Il Corriere cremonese”, Motta aveva trovato ferventi sostenitori in Paolo Gorini, in Giuseppe Frisi, direttore del “Corriere cremonese”, Guglielmo Calderoni, nello stesso medico onorario della real Casa Gioachino Stampacchia, ed aveva reso partecipe delle sue difficoltà e dei suoi segreti, un professore cremonese, un certo Pizzi, che in un manoscritto conservato all'Archivio di Stato (Comune di Cremona, manoscritti, n. 205) racconta la serie di incontri avuti con lo scienziato dal 23 agosto al 3 settembre 1868. Come avviene anche nel caso di Gorini, le scoperte di Motta sarebbero state del tutto casuali: “E in quanto ai suoi studi narrò – racconta Pizzi – che egli stesso deve in gran parte alle fortuite combinazioni le sue scoperte. Un giorno attendeva ad ottenere su un gesso per altre vie i risultati della galvanoplastica. Quando gli viene a cadere di mano entro un vaso contenente un fortissimo acido un altro gesso. E osservò con meraviglia che invece di decomporsi quel gesso anneriva, ed era veramente nero. Meravigliato, lo tocchò e lo raccolse con una verghetta di vetro. Allora riflettendo alla natura della composizione degli acidi ch'era nel vaso, trovò che per quella via si trovava ossia si giungeva subito alla carbonizzazione, vale a dire a rendere positivo il corpo a ricevere l'azione dell'elettricità e dell'immissione del solfato di rame, ossia alla già nota metallizzazione. Pensò e provò tosto a metallizzare quel gesso, vale a dire a sostituire nel corpo carbonato la mollecola metallica. Da quella scoperta -aggiunge Pizzi – passò all'idea della metallizzazione della carne”. 

L'anno prima, d'altronde, Motta aveva dato corpo ai suoi progetti andando a San Fiorano, nel Lodigiano, per riprodurre la mano destra di Garibaldi oggi conservata al museo civico di Cremona. In realtà il nostro professore, prima di ricorrere all'eroe dei due mondi, aveva fatto un tentativo con l'Ospedale maggiore di Cremona per ottenere una mano da metallizzare. Ma il Prefetto aveva declinato l'invito, suggerendogli, in una lettera del 6 settembre 1864, di rivolgersi altrove.

Ma Motta non si era dato per vinto, forte della celebrità conquistata sui giornali e dell'amicizia riservatagli da Paolo Gorini. Lo stesso Fulvio Cazzaniga scrive il 17 luglio 1865 un articolo entusiasta sul “Corriere cremonese” dopo aver visitato il suo laboratorio. E si capisce che ormai Motta ha valicato il confine e fatto il salto di qualità, senza attendere l'Ospedale Maggiore. Nel suo studio non vi sono, infatti, solamente “mazzi di fiori, animaletti, gambi di melgone, frutta, penne d'oca, cigari, canestri, e perfino merletti riprodotti tali quali in rame, essendo che questo metallo si è surrogato alle molecole organiche e ne riproduce esattamente tutte le forme e le foggie più minute e delicate”. E Cazzaniga sottolinea che “i suoi processi sono tali che si può ottenere la metallizzazione completa di un oggetto, per modo che la sostanza di questo scompaja affatto per essere sostituita integralmente dal rame in tutte le parti sue; ovvero si riesce ad una semplice rivestitura esterna che lasciando intatta la sostanza ne porge le forme estere mascherate completamente di rame”. Ma c'è ben altro: “Abbiamo visto nel suo studio un cranio umano, non più osseo, ma tutto di rame, colla riproduzione la più esatta e squisita delle più piccole forme, delle più delicate particelle che lo costituiscono. E' una vera meraviglia. V'ha di più ancora; questa metallizzazione il Motta l'ha ottenuta non solo delle parti ossee dello scheletro, ma delle molli eziandio, e con pari fortuna; poich'egli riproduce in rame nientemeno che tutto un cadavere, il quale si rifa di metallo senza perdere menomamente della sua identità quasi diremmo fotografica, e senza per nulla scemare nella freschezza che possedea prima dell'operazione. Esso infatti possiede la testa di una bambina, di cui gli inconsolabili genitori vollero conservare una immagine fedele. Essa è tal quale, è un maschera metallica stupenda, quasi fosse di raso, di un rame finissimo e splendido, che non si potrebbe desiderare né più somigliante né più vera. Così abbiamo visto una piccola mano d'un altra bambina, e un pezzo di cuore di majale”.

Ma Motta, per proseguire le sue ricerche, ha bisogno di risollevarsi dalla crisi finanziaria in cui è caduto. Divulgare il suo segreto non avrebbe senso, è l'unico asso nella manica che possiede per aspirare ad ottenere quella pensione che gli potrebbe consentire di vivere serenamente. Pressato dalle insistenze di Pizzi, Angelo Motta qualcosa aveva, in realtà, già rivelato all'amico: “Ma come ridurre a carbonato la carne, volendone pure conservarne l'anatomia, le forme, l'identità, siccome anche gli è riuscito in molti esperimenti? - si chiedeva Pizzi – Coll'isolamento dall'aria. Egli chiude ermeticamente il corpo in un suo apparecchio. Poi vi lavora con gli acidi a carbonarlo, ossia, forse, ridottolo colle temperature ad uno stato momentaneo di pietrificazione, lo circonda cogli acidi, lo isola dall'aria, preparatevi attorno le punte dei conduttori elettrici, poi lo riscalda e da luogo consecutivamente alle due operazioni, carbonare e metallizzare la quale seconda è anche lenta e lunghissima”:

Con questo sistema, al momento dell'incontro con Pizzi, il 23 agosto 1868, Motta aveva già metallizzato un cranio coi denti e la mascella, la mano di una bambina, “ma – aggiunge Pizzi - temo non la mano reale, sibbene per tipologia”; otto mani umane “ben naturali, vantaggiando sempre nella semplicità e nella precisione”; una testa di uomo “che gli riescì con un difetto nelle orecchie che s'erano molto ristrette, ed un buco li presso per bruciatura d'una corrente elettrica apertasi ivi”, ed una di una ragazzina dodicenne. Ma poi accade un fatto destinato a pesanti conseguenze. “Ei temeva – racconta Pizzi – però che nell'interno i cervelli non fossero ridotti a perfezione e però aperti, avessero a tradire il segreto dei suoi apparecchii”. E' un periodo di grave crisi finanziaria, il creditori bussano alla porta, ed uno di essi, un certo Donati per una cambiale scaduta spedisce nell'appartamento del Motta ammalato due giovinastri, certi Barbarina e Furini, che sequestrano tutto quello che riescono a recuperare. E' in quel momento che Motta, seppur sofferente, temendo che possano scoprire il suo segreto, in piena notte si alza dal letto e scioglie nell'acido tutti gli oggetti metallizzati che in quel momento si trovano nel suo laboratorio.

Fabrizio Loffi


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