Quel violino dell'economista Federico Caffè
Alle 5:30 di mercoledì 15 aprile del 1987 Federico Caffè, economista ed accademico, usciva dalla sua casa sulla Balduina, a Monte Mario a Roma, e spariva nel nulla. Non è stato più ritrovato. Alla Facoltà di Economia dell’Università La Sapienza di Roma si conservano ancora la sua libreria e la sua scrivania ad imperitura memoria di colui che, ancora oggi, è ritenuto tra i pensatori italiani più influenti e brillanti della sua generazione, maestro, tra gli altri, dell’ex Presidente della Banca Centrale Europea ed attuale Presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi.
Federico Caffè era nato a Castellammare Adriatico (Pescara) il 6 gennaio 1914, figlio di una famiglia di modeste condizioni economiche: il padre Vincenzo era impiegato nelle ferrovie, la madre Erminia era ricamatrice. Si era laureato con lode alla Sapienza in Scienze Economiche e Commerciali. Allievo di Guglielmo Masci e Gustavo Del Vecchio, studiò alla London School of Economics e lavorò alla Banca d’Italia, prima di insegnare all’Università. Fu anche attivo nell’editoria e nel giornalismo, soprattutto per Il Messaggero e Il Manifesto. Da sempre attento al tema del welfare, era un divulgatore del pensiero degli economisti svedesi e profondo conoscitore delle politiche di John Maynard Keynes: fu definito “il più keynesiano degli economisti italiani”. Oltre all’economia Caffè coltivò, fin da piccolo, lo studio della musica che entrò nella sua formazione promuovendo la sua creatività e l’affermazione della personalità. La musica rappresentò per Caffè uno degli elementi di forte integrazione sociale, a dispetto dell’umile provenienza familiare: la madre Erminia dovette vendere un podere di famiglia per consentire al giovane Federico di studiare alla Sapienza di Roma e questi, una volta terminati gli studi ed ottenuto il primo incarico, lo volle riacquistare in segno di profonda gratitudine e riconoscenza familiare.
Nel volume di Ermanno Rea (L’ultima lezione. La solitudine di Federico Caffè scomparso e mai più ritrovato, Einaudi, Torino 1992 p. 103) si legge: “Caffè amava il bel canto tanto quanto amava la grande orchestra con i suoi fragori e la musica da camera con le sue piccole trame, i suoi dialoghi e battibecchi tra gli strumenti. Viveva la musica come vocazione, più che come cultura: era modo di essere, temperamento”.
Chissà quanto le sue riflessioni in campo economico siano debitrici del mondo musicale? E quanto del suo spirito profondo si sia modellato tra le note? La sua celebre frase “Al posto degli uomini abbiamo sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili” cela, forse, significati ancor più profondi – che si ritrovano in molte opere musicali – quali la lotta tra bene e male, il trionfo degli ideali di libertà-tolleranza-fratellanza universale, l’obbligo universale di alleviare la sofferenza dell’altro ed assicurare uguale dignità e rispetto dei diritti di tutti gli esseri umani. A tal proposito ci fornisce ancora qualche spunto di riflessione Ermanno Rea che, nel citato volume, parlando di Federico Caffè afferma: “Generalmente poco incline alla divagazione e alle parole superflue, faceva una qualche eccezione se era in argomento la musica; quando poi l’interlocutore era all’altezza del compito, poteva anche succedere che si lasciasse andare a una lunga disquisizione sul modo in cui era stata interpretata una certa sinfonia. Né si intendeva soltanto di musica colta. La musica era per lui o bella o brutta. I Beatles, per esempio, avevano scritto bella musica: era in grado di fischiettarla, così come era in grado di fischiettare Il Flauto Magico, da cima a fondo.”
Molti, forse, non sanno che Federico Caffè iniziò giovanissimo a studiare il violino che gli aveva regalato lo zio Antonio che gestiva un cinematografo, l’Excelsior di Pescara, nel quale il giovane Federico lavorava vendendo i biglietti e curandone la contabilità. Le incertezze economiche non consentirono a Federico Caffè di proseguire gli studi musicali e fu avviato alla più sicura carriera di economista avendo tuttavia assimilato il rispetto e l’amore per la cultura letteraria e musicale. Piegato dalla contingenza, abbandonerà lo studio del violino ma non quello della musica che ascoltava durante la correzione delle tesi, che fischiettava quando era di buon umore e che proponeva, per gioco, sotto forma di quiz musicali agli amici e ai familiari (DO-LA-FA-FA-MI è la traduzione moderna di C A F F E in notazione alfabetica alla quale si fanno corrispondere i suoni della scala A=LA; B= SI; C=DO; D=RE F=FA ecc.). Caffè fu certamente sostenuto dalla musica più di quanto si pensi e, forse, in un certo qual modo, da essa fu anche ispirato quando districava e riannodava con grande perizia le reti tessute dal suo pensiero economico. Purtroppo tanto del violino quanto dell’illustre possessore, musicofilo ed economista, si sono perse le tracce trentaquattro anni fa…
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