23 dicembre 2022

Gianni Molesini, "Un Portoricano nato per caso a Cremona". Il ricordo di Cesare Castellani

L'ultima grande epoca della boxe cremonese, quella degli Anni Settanta, è legata a nomi come quello di Gianni Molesini: insieme ad un Penna che si era incredibilmente reinventato ad alto livello ad oltre dieci anni di distanza dalle sue migliori stagioni, tennero alta ancora, e per un lustro almeno, una grandissima tradizione.

Riuscirono a nascondere, con una quasi ininterrotta teoria di vittorie, una situazione completamente deficitaria per quanto concerneva il vivaio dei dilettanti praticamente ridotto a zero nella palestra di Cremona.

Non fosse stato che per Massimo Boccelli, solo ormai a tener alto il vessillo dell'A.B.C. a dispetto dei problemi che il progressivo inarrestabile aumento di peso e i conseguenti cambi di categoria gli imponevano, il dilettantismo cremonese avrebbe vissuto il suo peggior momento fortunatamente mascherato dalla florida situazione della palestra di Crema ove i gemelli Bonizzoni, Fossati, Riboli, Sangaletti e tanti altri, crescevano all'ombra di Vailati, Facchetti, Valdameri e Cipriani passati al professionismo insieme agli stessi Molesini e Faciocchi.

Molesini tenne per oltre un anno il titolo italiano e avrebbe potuto agguantare l'europeo; Faciocchi, per mera sfortuna, e Penna probabilmente per mancanza di convinzione, fallirono d'un niente la cintura tricolore; poi si ritirarono tutti, quasi contemporaneamente, lasciando l'impressione di non aver raccolto, in termini di risultati, quanto avrebbero potuto.

Giovanni Molesini, ultimo esponente di una scuola che era stata di livello eccezionale, fu l'estremo regalo di Paolo Colombo alla boxe cremonese che per cinquant'anni è vissuta sugli insegnamenti della sua profonda perizia e incommensurabile passione.

Fu il suo ultimo allievo, espressione di quel modo di stare sul ring pulito, essenziale, fatto di colpi diritti e di tempismo che aveva avuto in Gianluppi il suo primo e migliore interprete. Molesini gli somigliava nell'impostazione, era forse meno veloce di braccia, meno agile sul tronco, ma aveva il vantaggio di un fisico nettamente più solido, di maggior potenza e tenuta alla distanza, soprattutto di un temperamento da vero campione.

“Un portoricano nato per caso a Cremona” lo aveva chiamato con una definizione azzeccata un giornale campano in occasione della presentazione del match con Seta a Salerno.

Giovanni era arrivato alla boxe, al Gruppo Sportivo Goodyear che teneva palestra in Via Pescatori, per pura curiosità, insieme ad un paio di amici, come lui, di Brancere:

Paolo Colombo li trattenne in palestra anche se in quel periodo vi si allenavano solo i professionisti della nostra scuderia, il Team Goodyear e nemmeno si pensava ad iniziare un'attività coi dilettanti.

Alto, filiforme quasi, ma dotato di una complessione fisica di prim'ordine e di un carattere estroso e difficile da domare (Colombo se lo vide persino scappare dalla finestra dopo un rimprovero) era però anche dotato di un coraggio che rasentava l'incoscienza, caparbietà e determinazione fuori dal comune.

Ai campionati regionali novizi creò la prima sorpresa della sua carriera quando arrivò alla finale avendo disputato due soli combattimenti a differenza di tutti gli avversari che apparivano già molto più esperti di lui.

Un incidente stradale lo aveva tenuto al palo per oltre sei mesi. Arrivò in finale e se la vide con Frasca "un ragazzo che spara colpi come fumasse una sigaretta’’ (scriveva su ..La Gazzetta dello Sport" Giuliano Orlando, il più valido conoscitore del dilettantismo italiano) il quale parti con la convinzione di farla finita in poche battute. I suoi corti ganci si abbatterono su Giovanni piegandolo come un fuscello. Mi sfiorò l'idea, durante la prima ripresa, di lanciare la spugna, ma intravidi uno sprazzo di reazione e rimandai la decisione al secondo round, dopo avergli parlato. Qui le cose mutarono perché Molesini cambiò marcia improvvisamente mettendo dentro destri e sinistri a ripetizione recuperando totalmente lo svantaggio iniziale. Il terzo round, dunque decisivo, fu durissimo, ma solo per il tarchiato e possente Frasca che riuscì a stento a salvarsi, subissato da una gragnola di colpi che gli arrivavano diritti in volto come stantuffi. Subì anche l'onta di un paio di conteggi e terminò nettamente battuto.

Gianni Scuri, factotum della Spartacus che allestiva i campionati, consegnò con una smorfia la coppa a Molesini non presagendo che di lì a qualche anno Giovanni sarebbe diventato uno degli uomini di punta delle sue organizzazioni e sarebbe maturata un'amicizia profonda e fattiva con la boxe cremonese di cui fu uno dei più accesi sostenitori.

Un mese dopo, in Ancona, i campionati italiani novizi: Molesini ebbe la sventura di incocciare nell'unico pugile che mai avrebbe potuto perdere in quel torneo: l'anconetano Paparella gli soffiò un titolo certamente alla sua portata grazie ad un verdetto non del tutto imparziale subito al primo turno. Paparella divenne campione italiano, ma la sua carriera finì a quel punto mentre per Molesini iniziò un periodo di apprendistato costellato di convincenti vittorie.

Da dilettante, infatti, i risultati furono subito buoni, non eccezionali. Un infortunio in un incidente stradale, il matrimonio a soli diciott'anni, il servizio militare in aeronautica piuttosto che alla Scuola Militare di Educazione Fisica di Orvieto, non lo misero mai in condizione di rendere al massimo, anche se evidenti erano le sue doti: faticava però a carburare e le tre riprese, per un fisico come il suo, che aveva le caratteristiche di un motore diesel, erano sempre troppo poche.

Non mancarono comunque vittorie importanti come quella sul danese Andersen, uno dei migliori superleggeri d'Europa, in Copenaghen, nell'unica occasione in cui vesti la maglia azzurra della nazionale o le tre consecutive riportate in Cecoslovacchia, in tournee con l'A.B.C., tutte per k.o., il pareggio col campione d'Italia Chiodoni, e ancora i successi su Sguazza, Borghi, Pedrinelli, atleti che andavano per la maggiore, e tanti altri.

A ventuno anni appena compiuti e con un bagaglio d'esperienza di una settantina di incontri (con sessanta vittorie) era pronto per il gran salto che avvenne nel novembre del '72 a Piacenza.

L'avvio non fu dei più agevoli. A parte il successo iniziale sul vogherese Fortuna, portato alle sei riprese solo per provarsi alla distanza, faticò parecchio, a Santo Stefano e sempre a Piacenza, contro il ghanese Vasco Armstrong, un nero segaligno dalle braccia spropositate e le gambe da zitellona sgangherata, che di mestiere faceva il disegnatore in uno studio tecnico romano ed anche coi guantoni ci sapeva fare perché quelle braccia lunghe e pesanti sapevano creare notevoli insidie permettendogli di uscire indenne da incontri contro uomini di prestigioo come il campione europeo Marco Scano, Di Jorio, Eddie Blay, il campione di Sopagna Domingo Barrera. Aveva già una ventina di incontri all’attivo gli procurò infatti parecchi problemi approfittando anche di una sua contusione alla mano destra che provocava lancinanti dolori e gli impediva di picchiare con forza.

E ancora, a Fidenza, nella primavera successiva, gli rese vita difficile il trevigliese Guerrini, un tipo dalla scorza dura cui andò a segno un bel destro nel secondo round e fu uno dei momenti più bui della carriera di Giovanni.

Buon per lui che Guerrini, nella foga di farla finita, tante ne combinò da farsi squalificare in meno di una ripresa. Rotto il ghiaccio, comunque, le vittorie cominciarono a piovere una dietro l'altro, a partire dalla rivincita su Armstrong, strabattuto a Reggio Emilia. Mise sotto in rapida sequenza il francese Delgove, il nigeriano Oke, il ghanese Celestino Utehfinito in ospedale con la mascella in briciole a causa di un destro di precisione e potenza inaudita, poi ancora un transalpino, Giraudon, il marocchino Salah Arafa, il coriaceo bresciano Pedrinelli (due volte) nonostante una brutta ferita all'arcata sopraccigliare nel primo incontro, e, a fine anno, gli esperti Gasparri e Duranti.

Finì per chiudere il '73 con undici vittorie all'attivo (otto prima del limite) e già la qualifica di prima serie in tasca.

Nell'aprile del '74 il debutto non troppo felice con Nardillo a Palalido. L'avversario non era certamente dei più facili (aveva tenuto testa a Bruno Facchetti poche settimane prima alla Spettacolo) perché, subiti i primi colpi efficaci, badò solo a difendersi e fare ostruzione.

Giovanni ne usci con una vittoria nettissima, ma con il cruccio di non essere riuscito a dare quello spettacolo che da lui ci si attendeva in quello che era il tempio della boxe milanese.

Si rifece poco dopo offrendo emozioni a non finire in una pregevole esibizione contro il napoletano Sassanelli, un combattente di razza che, veniva da un ottimo momento avendo superato di recente gente come Lauri, Borraccia, Laffranchi a Milano. Molesini lo aveva giò battuto a Cremona pochi mesi prima, ma stavolta la sua superiorità fu netta e costante per tutto il match

Lievitava il suo rendimento, cresceva il valore degli avversari e aumentava il pubblico alla Spettacolo: la sua boxe generosa e spettacolare, gli incontri spesso emozionanti, le vittorie indiscutibili contro avversari di sempre maggior levatura, gli consentivano di innestare la marcia adatta per iniziare la scalata al tricolore dei pesi welter che stava nelle saldissime mani del napoletano Di Jorio.

Nell' estate del '74, il primo impegno di una certa consistenza: Torsello era un bresciano trapiantato in Svizzera: mancino, indomito colpitore, strutturalmente portato alla battaglia. Un duro, insomma, capace di vedersela coi migliori a dispetto di una classe non troppo cristallina; ma era un tipo tetragono ai colpi, resistente, difficile da decifrare: pugile da spettacolo proprio per quelle caratteristiche di combattente che lo rendevano pericoloso per chiunque.

Per un Molesini in condizione non sarebbe stato un grosso problema superarlo, ma quando si trovarono di fronte, in una calda notte di settembre nello stadio di Colomo, Giovanni rischiò di compromettere l'intera carriera.

Nonostante il match fosse programmato da parecchie settimane, aveva passato tutto il mese di agosto quasi senza allenarsi: non era pronto, evidentemente, ma quella fu la lampante dimostrazione del suo valore e della sua classe innata. Ero rientrato dalle ferie e lo aveva trovato assolutamente fuori forma, in sovrappeso di qualche chilo.

Rinviare il match, ormai fissato da tempo, non era possibile. Provammo ad affrettare i tempi della preparazione, ma i risultati, con una sola settimana a disposizione, furono tutt'altro che apprezzabili, giunse anzi ad affrontare il match con un carico di stanchezza superiore al normale. Torsello, come del resto ci si aspettava, attaccò a fondo sin dal primo round e Molesini, trascinato dal suo indomabile carattere, anziché smorzare i toni del combattimento, fu pronto a rispondergli per le rime.

Fu subito battaglia senza esclusione di colpi, a viso aperto e senza una pausa. Piazzati a centro ring, i due si scambiarono tonnellate di pugni decisivi. Giovanni capì che, a quel ritmo, non sarebbe andato alla fine, ma osò l'impossibile perché mai il suo carattere gli avrebbe permesso di fare un passo indietro.

Al terzo round uscì da uno scambio furioso con un sopracciglio lacerato. Neanche il tempo di rendersi conto della ferita e Torsello gli fu addosso, come una furia. Un suo gancio sinistro andò a segno di sorpresa ed una successiva forse involontaria testata in pieno volto lo scaraventò contro le corde: non riuscì a sottrarsi, con l'ultimo barlume di lucidità che gli rimaneva ad un'altra letale testata perché Torsello, continuando a colpire, gli teneva un piede saldamente sopra il suo: l'arbitro non se ne avvide.

Fu a questo punto che Giovanni fu costretto a ricorrere a tutte le sue ricorse di campione per non essere travolto. Venne il gong, finalmente, e parve al lumicino.

AlI'angolo mi urlò di guardargli in bocca: quella terribile testata gli aveva letteralmente piegato in dentro gli incisivi; ora perdeva sangue da entrambe le arcate.

L'arbitro Poletti, il migliore in Italia in quei tempi, si avvicinò: "chiamiamo il medico- mi disse - una sconfitta per ferita non conta niente" .

Ero furibondo con Giovanni che in quel modo stava gettando via stupidamente una imbattibilità che durava da quasi tre anni, ma fortunatamente il medico di riunione che era il medico condotto e probabilmente non aveva mai assistito ad un incontro di pugilato dal vivo, tardò almeno un paio minuti ad arrivare sul quadrato (era dall'altra parte dello stadio, al bar anziché a bordo ring).

Tanto mi bastò per tamponare velocemente le ferite agli occhi, rimettergli in sesto i denti e intuire che Molesini poteva continuare. "Almeno una ripresa - chiesi a Poletti e al medico - poi vediamo...." e a Giovanni: "Stai in mezzo al ring, aspettalo col destro, quello solo, se attacca ancora, viene lui a prenderlo."

Quando tornò a centro quadrato, si piazzò sulle gambe col solo proposito di mettere quel destro d'incontro che era il suo colpo preferito e che del resto è sempre l’arma migliore contro i mancini. Sbagliò il primo, ma indovinò il tempo giusto quando Torsello rinnovò l'attacco e, senza capire come, si trovò con la schiena inchiodata al tavolato.

Poletti gli fu vicino con un balzo ed iniziò il conteggio, velocissimo. Se tanti "long count" hanno fatto la storia del pugilato, quello meriterebbe la stessa fama per il contrario.

Poletti, lo stesso che aveva negato qualche anno prima il titolo italiano a Lucini contro Scarponi a Salsomaggiore, si ricordò forse che doveva qualcosa alla boxe cremonese, dichiaro l'out per l'italo-svizzero, poi venne verso l'angolo mentre ancora, con Crespo, stavo sgridando Molesini anziché gioire per quella grossa vittoria acciuffata in extremis, ma con la perentoria sicurezza che e solo nel bagaglio di pochi campioni. "Solo un matto come te poteva farlo continuare!"

"Forse, ma lo conosco troppo bene. Queste cose gliele ho già viste fare."

Ed era vero perché già altre volte, da dilettante, lo avevo visto ribaltare l'esito di un match proprio nel momento in cui pareva spacciato grazie alla innata capacita di gettare nella battaglia anche l'ultima stilla di energìa.

Ed è questa una delle doti che fanno la differenza tra un buon pugile ed un campione di razza.

Un'ora più tardi, al ristorante, Monsieur Charles Conen, il procuratore ginevrino di Torsello, imprecava ancora contro quel conteggio troppo breve che, secondo lui, non aveva lasciato spazio al suo protetto proprio mentre questi entrava barcollando, ando a sbattere la testa contro lo stipite della porta e fini di nuovo k.o.

Da solo, stavolta.

Al manager svizzero non restò che soccorrerlo e convincersi che, dopo quel destro, non ci sa- rebbe stata più storia sul ring.

Poletti avrebbe potuto contare fino a cinquanta e Torsello non si sarebbe rialzato.

Giovanni si rimise comunque presto in carreggiata con buona lena e voglia di allenarsi (del resto qualche defaillance nel suo comportamento al di fuori del quadrato era sempre stata una sua incorreggibile caratteristica negativa, ma se non altro durava abbastanza poco) nonostante cominciassero a farsi sentire i primi sintomi di quel fastidio al gomito che senza dubbio fu la prima causa di una carriera purtroppo incompiuta.

Qualche mese di pausa inframmezzato da vittorie complicate dal dolore incessante "quando vedo arrivare i colpi dell'avversario confesso più di una volta preferisco abbassare la mano. Mi fa meno male prenderlo in faccia che sul guantone". Poi venne finalmente la designazione a challenger ufficiale del campione d'Italia.

Non era il momento migliore per affrontare Di Jorio. Il problema al braccio condizionava ormai troppo il suo rendimento tanto che i propositi di ritiro si erano fatti sempre più consistenti, ma dinanzi all'occasione,decidemmo che valeva comunque la pena di tentare.

La preparazione fu buona e senza intoppi anche se non poteva sempre caricare il destro come avrebbe voluto. Venne il giorno del match in quel Palalido che era divenuto il vero tempio della boxe italiana deglianni Settanta e lo vidi turbato per la prima volta in carriera nei minuti che precedevano l'incontro.

Solitamente era freddo e concentrato in attesa del match, ma quella notte notai una certa emozione mentre gli preparavo le mani. Sentiva match e responsabilità: non paura, solo quel filo di preoccupazione che a volte si insinua nell'animo di chi si appresta a combattere e che può esser deleterio per chi non sia assuefatto a provarlo esuperarlo: quel migliaio e passa di cremonesi saliti al Palalido solo per lui gli fecero intuire improvvisamente l'importanza del match.

Eppure i presagi, secondo lui, erano buoni: in un paio di occasioni, la sera prima di incontri importanti che aveva vinto, gli era capitato di vedere una lepre con l'auto mentre tornava a casa. La notte prima del match con Di Jorio gli era invece finita sotto le ruote una pecora.

Il racconto dell'avventura notturna, i primi passi verso il ring, i lunghi preliminari contribuirono fortunatamente a toglierlo da quel torpore che lo aveva assalito e dopo un primo round piuttosto tranquillo già alla seconda provò ad attaccare. Di Jorio era buon contrista: gli fu facile controbattere, ma avevamo previsto che sino al giro di boa di meta incontro si sarebbe dovuto soffrire.

Ad aggravare le cose, però, venne una brutta ferita alla radice del naso provocata da un colpo di striscio nel corso del terzo tempo. Giovanni capi che quel taglio non gli avrebbe consentito di andare alla fine: fu costretto ad accelerare il ritmo del match anche esponendosi ai colpi d'incontro di Di Jorio che seppe approfittare, da campione qual'era, dell'occasione che gli si offriva.

La difesa di Molesini, a causa di quel braccio sinistro con cui non poteva parare i colpi, faceva acqua, non poteva essere efficace. Finì tutto al sesto tempo con l'intervento del medico e le molte critiche di chi ritenne Molesini troppo acerbo per il match con Di Jorio.

Io però rimango convinto che se si fosse andati alla fine il verdetto sarebbe stato diverso: lo dimostra il fatto che tre mesi più tardi il campione d'ltalia cedette lo scettro a quel Borraccia, suo conterraneo trapiantato a Brescia, che Molesini a sua volta avrebbe poi strabattuto ponendo addirittura la parola “fine” alla sua carriera.

A quella sconfitta, giunta forse inattesa dopo ventiquattro vit- torie consecutive, segui un lungo periodo di stasi durato quasi un anno, ma che servi, dopo molte peregrinazioni presso i più famosi ortopedici in circolazione, a rimediare al dolore al gomito destro. Bastarono un paio di infiltrazioni praticategli dal professor Fasoli a Cremona e tutto si sistemò anche se Giovanni, lo confessò molto più tardi, durante il periodo di stasi, aveva perduto quella voglia di combattere che lo aveva sostenuto sino ad allora.

Tecnicamente dotato di tutti i colpi, col solo difetto di una lenta carburazione e di una certa rigidità sul tronco, Molesini ha sempre patito gli uomini più alti di lui, portati a boxare sul tempo, a sparare colpi dall'alto verso il basso: fortunatamente, data la sua altezza notevole, ne trovò pochissimi. Già da dilettante aveva abbassato bandiera, soffrendo parecchio, davanti al campione di Francia Dupuis in una sfida durissima a Digione, ma contro un altro transalpino, Jean Van Mellaert tempista eccezionale e dal pugno pesante con un fardello d'esperienza di prim'ordine sul groppone, disputò il suo incontro migliore, il più duro, il più sofferto.

Van Mellaert era stato campione di Francia, aveva poi perduto il suo titolo perché se ne era andato peregrinando per mezzo mondo, soprattutto in Australia combattendo con chiunque gli capitasse a tiro e un paio di mesi prima di tornare in Europa aveva tenuto testa, in Nuova Caledonia, ad un Rocky Mattioli che si stava avvicinando al mondiale dei superwelter ed oltre tutto pesava qualche chilo in più di Giovanni.

Contro di lui, avversario che probabilmente non avrei accettato in quel momento particolare se non me lo fossi trovato all'ultimo istante in sostituzione di un altro, Giovanni fu costretto a stringere i denti come mai gli era capitato.

Veniva da un periodo abbastanza intenso: quindici giorni prima s'era conquistato il pubblico del Palalido battendo nettamente per la seconda volta un eccellente Sassanelli, ma facendo una faticaccia.

Certamente era un po' stanco e la preparazione, in quei quindici giorni di intervallo non poteva essere eccellente. Van Mellaert si presentò subito con un secco uno-due da tagliar le gambe a un toro. Sparava raffiche devastanti, destri diritti come spade che perforavano dall'alto la guardia di Molesini. Impassibile come una sfinge, svolgeva il suo metodico lavoro di sbarramento e di distruzione delle difese avversarie con la precisione di un automa.

Jean Bretonnel, uno dei monumenti della boxe francese e mondiale, il manager che dava del lei ai suoi pugili, lo guidava con altrettante imperturbabile freddezza. All'angolo non si scambiavano una sillaba: bastava uno sguardo all’anziano manager, per dare le giuste indicazioni al suo uomo.

Dall'altra parte io li studiavo. Li sbirciavo con un briciolo di invidia. Al terzo round Giovanni fu in affanno, costretto a pressare costantemente l’avversario per non farsi a sua volta travolgere.

Incappò, oltre tutto, in un arbitraggio che, nonostante volesse probabilmente essergli favorevole, con due richiami ufficiali per scorrettezze a suo favore che alla fine solo in parte determinarono il verdetto, gli fu tatticamente contrario.

Il milanese Rizzi gli interrompeva sistematicamente tutte le azioni: ogni volta che, dopo aver subito un paio di terribili colpi d.’incontro riusciva finalmente a portarsi a corta distanza ove far valere la sua maggior possanza nel corpo a corpo, l'arbitro lo stoppava chiamando il break e ammonendo l’avversario che in tal modo tirava il fiato.

Fu un calvario per almeno sei riprese, poi Molesini, gettando il cuore in mezzo il ring, impegnò una durissima battaglia: rischiò l'impossibile, scaricò valanghe di pugni cattivi e disperati. Finì stremato, col volto tumefatto, ma con uno verdetto giustamente a favore e quel po' d'esperienza in più che non guasta mai: il match più duro in dieci anni di carriera.

Jean Bretonnel accettò il verdetto: ma era un signore, aveva intascato una buona borsa e, in fondo. sapeva di aver perduto, seppure di poco, ma sapendo fare il suo gioco, abbozzò una leggera protesta.

Lo ammise più tardi, a quattr’occhi al ristorante dicendosi convinto che Molesini avrebbe fatto una grossa carriera, che quella sera lo aveva veramente sorpreso battendo un campione.

Non certo per farmi un complimento. anche se aveva una spiccata simpatia per me in quanto gli ricordavo i suoi inizi di carriera (già a vent’anni era stato, insieme al coetaneo Branchini, uno dei grandi manager della boxe europea).

Un altro pugile campano, dopo Di Jorio, incrociò la strada di Giovanni: Borraccia, dopo aver detronizzato proprio il concittadino Di Jorio privandolo del titolo italiano, aveva inopinatamente sprecato l’occasione continentale perdendo, in una serata in cui il rendimento non era stato pari al suo effettivo valore, da un Marco Scano quasi in disarmo, sul ring di Cagliari.

Era uno dei pugili più apprezzati dal pubblico milanese per il suo modo generoso e spregiudicato di battersi. Quando incrociò Molesini, al Palalido, il match valeva, anche se non ufficialmente, la semifinale a quel titolo che lo stesso Borraccia aveva dovuto lasciare, senza mai difenderlo, per tentare l'europeo.

La cintura tricolore, lasciata da Di Iorio, era nel frattempo finita nelle mani del laziale Tommaso Marocco che se l'era giocata con il tarchiato pistoiese Conte.

Penultimo rampollo (anche il figlio ha combattuto coi colori della Boxe Brescia) di una lunga dinastia di campioni. Borraccia, da professionista, era approdato a Brescia alla corte di Gianni Gatti, uno dei migliori maestri italiani e già amministrato da mio padre quando aveva iniziato, nel '58 la carriera professionistica insieme a Borra, Pallavera, Fanfoni. Galmozzi, Possessi, Ravasi.

Borraccia era un duro: soprattutto un formidabile incassatore, tatticamente capace: possedeva tutti i colpi e le malizie del mestiere, sapeva esprimersi a ritmi elevatissimi e dare vivacità al match. Aveva anche avuto la fortuna di poter approfittare dell’infortunio di Molesini e del ritiro di Di Jorio per arruvare a disputare il titolo europeo.

Purtroppo, gli era mancata la convinzione di potercela fare, nel momento topico, contro Marco Scano, ma restava sempre un brutto cliente.

Atmosfera elettrizzante al Palalido: tutti si aspettavano un grande scontro. Borraccia sparò le sue cartucce, ma Molesini quella notte gli fu troppo superiore: tatticamente il suo match più azzeccato, senza una sbavatura, senza un colpo fuori misura. Borraccia le tentò tutte, trasse dal suo repertorio i ganci migliori. Mise a segno anche qualche buon colpo perché negli scambi a distanza ravvicinata ci sapeva fare parecchio, ma Molesini lo anticipò ogni volta centrando destri pesantissimi. Fu uno splendido scontro, corretto e combattuto nonostante la mancanza di pathos per la troppo evidente superiorità di Molesini che ebbe la sua definitiva consacrazione dinanzi al pubblico milanese e la consapevolezza d’essere ormai in grado di puntare al titolo. stavolta con successo. Borraccia. dopo quella pesante sconfitta lasciò il pugilato e fu un peccato perché probabilmente. a soli ventotto anni, qualcosa di buono avrebbe ancora potuto combinare.

Quando ci si batte per un titolo. e per di più fuori casa, ciò che conta e solo vincere, anche a scapito dello spettacolo.

A Terracina, in una scura domenica di fine settembre, Molesini diede l'assalto al tricolore incontrando Tommaso Marocco che da poco l'aveva intascato nella sfida con Conte. Buon pubblico: nessun cremonese, anche perché la Cremonese giocava, quel giorno, la sua prima partita da neo promossa in serie B allo Zini e nessuno, quindi, ci seguì a Terracina.

Tommaso Marocco da pugile intelligente ed esperto qual’era, fu il primo a capire. già alla meta del primo round, che non avrebbe mai vinto: aveva attaccato per primo, per mettere in soggezione il più giovane avversario ma un montante secco e preciso al plesso solare lo sollevò quasi da terra. Incassò con una smorfia fingendo indifferenza, gli si piegarono gambe e caviglie, s'attorcigliò su se stesso, ma tenne duro: da quel momento non azzardò più un solo passo avanti. Bloccò, anzi, ogni iniziativa dello sfidante badando solo a tamponarne gli attacchi.

Tra un abbraccio e uno spintone, una schivata irregolare e qualche colpo troppo basso, il match si trascinò per quattro riprese.

L’unico rischio era quello di perder la testa, sarebbe bastato per un solo attimo il venir meno della concentrazione e del solito sangue freddo di fronte alle scorrettezze del campione per cadere nel suo gioco sporco. Molesini. invece, fu attentissimo: piazzava i suoi colpi non appena uno spiraglio accessibile si apriva nella guardia del campione, lo controllava da lontano, non ebbe una sola reazione alle scorrettezze del campione sinché alla fine l’arbitro, esasperato come del resto il pubblico, decise di sollevargli il braccio togliendo il titolo a Marocco che da quel giorno abbandonò addirittura il pugilato.

Non fu una vittoria esaltante, ma quel che contava, dopo due anni di attesa, era il tricolore da portare a Cremona.

Il titolo europeo dei welter era nel frattempo passato dalle mani di Marco Scano a quelle, non certo di bronzo, del danese Jorgen Hansen, buon combattente, ma abbordabile da un Molesini in condizione. Gianni Scuri, da Milano, iniziò le trattative per agganciarlo anche se competere, almeno in termini di ingaggi, con Mogens palle che a Copenaghen fungeva da manager, promoter e in sostanza da padrone di tutta la boxe scandinava, non era facile nonostante una certa amicizia maturata una decina d'anni prima quando avevo portato a Copenaghen Joe Africa per fungere da sparring partner, e da maestro, a Borge Krog in vista del suo vittorioso match europeo contro il francese Maurice Tavant che Africa aveva strapazzato a Villeurbanne, e quindi rinsaldata da molti altri ingaggi di Fiordelmondo, Facchetti e Mingardi in Danimarca. Avevo da poco rinnovato il contratto di procura con Giovanni dopo i primi cinque anni di attività Una domenica pomeriggio capito improvvisamente a casa mia. Era andato a pranzo con Angelo Galli ed altri amici che gli avevano proposto il passaggio ad una altra scuderia (non ho mai voluto sapere quale) ove gli si prometteva un lauto ingaggio e la possibilità di una più rapida carriera (non era la prima volta che proprio dall'interno si cercava di...farmi le scarpe, più o meno da parte delle stesse per sone).

E siccome non ho mai voluto tener legato un pugile che volesse andarsene dando peso più ad una stretta di mano che alla firma sui contratti, Molesini, se voleva, poteva ritenersi libero sin da quel giorno.

L'unico problema riguardava Gianni Scuri che stava trattando coi danesi. Per correttezza, lo avvertii di quanto stava accadendo. Non ritenne, giustamente, di doversi impegnare per un pugile

che ci stava lasciando e giro l'affare a Umberto Branchini che aveva nella sua scuderia il riminese Pierangelo Pira. Questi venne immediatamente ingaggiato per l'europeo a Copenaghen (difesa volontaria da parte del danese), incasso una buona borsa ed una onorevole sconfitta ai punti. Molesini perse l'autobus anche se nel giro di una settimana i nostri rapporti tornarono quelli di un tempo senza neppure bisogno di una spiegazione. Giovanni aveva un carattere piuttosto fa- cile ad entusiasmarsi salvo poi rivedere presto le sue decisioni: quella volta pero gli fu fatale.

Tutto tornò come prima, firmammo un nuovo contratto quinquennale, ma l'occasione europea non si presentò più. II suo destino e la sua strada si sarebbero più tardi incrociati ancora una volta, ma sul ring, con quelli del sardo di Rimini e stavolta lo scontro gli sarebbe andato di traverso.

Un mese dopo la conquista del titolo, al Palalido, la prima difesa contro il veneto Zanusso, pugile spregiudicato e intraprendente, dotato di un destro pungente, di buona tecnica pugilistica e di una fenomenale resistenza ai ritmi più serrati.

Gettò in quel match tutte le sue risorse di guerriero dotato di coraggio da vendere. Ne uscì un bel match: lo sfidante subì, ma trovò ogni volta la forza di reagire e solo all'ultimo round dovette abbassare bandiera costretto anche a sperimentare con le natiche la durezza della stuoia, ma fu in grado di chiudere al limite e veramente aveva meritato di perdere con l'onore delle armi.

Più tardi fu la volta di Mario Conte a Pistoia. Aveva perduto qualche me se prima da Tommaso Marocco ma nel ring, tra la sua gente, si dimostro nettamente migliore di questi.

Teatro del campionato, la splendida piazza di Pistoia in una notte estiva bollente di tifo e di agonismo. Conte, un tracagnotto muscolarmente attrezzato e capace di sparare corti ganci pericolosi, era anche buon incassatore, un inossidabile combattente. Aveva dalla sua un pubblico acceso ed era in forma splendida.

Non sbagliò nulla, a differenza di Giovanni che invece opto, stranamente, per una tattica di rimessa, da campione che difendeva il suo titolo. Non era la sua boxe e quando capì verso la meta del match, di dover cambiare registro, si ritrovo fuori misura, coi colpi che non gli uscivano e l'incapacità di azzeccare il tempo per i colpi d'incontro. Alla fine della quinta ripresa il pistoiese presentava due pro- fonde ferite alle arcate sopraccigliari, ma l'arbitro si guardo bene dal chiamare il medico.

Lo fece, invece, alla fine dell'ottava quando Molesini, colpito da una testata presentò un evidente gonfiore sopra lo zigomo destro: era il segno palese di come l'arbitro stesse conducendo il mach: a senso unico!

Conte era un pugilatore che soprattutto a corta distanza sapeva farsi valere ed era abbastanza pericoloso: basso, veloce di braccia, giostrava completamente a suo agio nel corpo a corpo, sapeva sottrarsi agli attacchi di Giovanni portati da lontano sgusciando abilmente di lato.

Alla decima ripresa il combattimento era ancora in bilico, ma bisognava vincere nettamente per strappare il verdetto sul quel ring infuocato, con quel tifo da stadio calcistico, con un direttore di gara che non sembrava proprio imparziale.

L'undicesima ripresa fu tutto uno scambio cruento: Conte dava segni evidenti di cedimento, ma seppe trarre le più riposte energie dal suo fisico e resistere in piedi abbracciandosi più volte a Molesini.

Non ci riuscì più nel round finale quando, sfinito, rotolò al tappeto su un destro al mento subito doppiato. Fu evidente che entro i dieci rituali secondi, mai si sarebbe rialzato. Scoppiò allora il finimondo: il tifo dell'acceso pubblico pistoiese divenne un tifone.

Volarono oggetti d'ogni genere. Fu un minuto terribile e interminabile: una sedia mi sibilò sopra la testa e fini a schiantarsi ad un passo da Conte che si stava faticosamente aggrappando ad una corda mentre l'arbitro lo contava; un'altra planò nei pressi di un giudice insieme ad una scarpa di cuoio; bicchieri di carta, bottigliette mignon e qualche migliaio di lire in monetine fendevano l'aria in direzione del ring.

Alcuni spettatori corsero a ripararsi sotto il ring, l'arbitro si rifugiò nell'angolo del pugile pistoiese che riteneva più sicuro, dopo aver fermato il conteggio all'otto pensando che, almeno da quella parte, la pioggia di oggetti sarebbe stata meno fitta.

Ci vollero almeno tre minuti perché l'incontro riprendesse dopo che gli addetti ebbero ripulito il quadrato e Conte, ormai rimessosi in sesto, riuscisse a concludere in piedi pur sbatacchiato da una parte all'altra del ring.

Sarebbe stato almeno apprezzabile un verdetto di no contest, visto che era mancato il coraggio all'arbitro di decretare il k.o. ai danni del pugile di casa, ma questi non osò inasprire la folla fermando il combattimento anche se poi ebbe almeno il buon senso di non privare Molesini del suo titolo.

Trasformò in un pareggio la sconfitta per k.o. di Conte acquisita sul campo. Ciro Seta era un amico. Salernitano di nascita e di scuola pugilistica, s'era trasferito ancor dilettante a Piacenza ove aveva vestito per un paio d'anni la canottiera della Salus et Virtus sotto la guida di Gino Franzone e s'era anche qualche volta allenato insieme a Molesini. Il fratello gestiva la Pizzeria del Foppone in città. A Santo Stefano del '70 era ancora imbattuto e s'era trovato nel ring con Molesini alla Spettacolo. Era uno dei peggiori momenti nella carriera di Giovanni. Il dolore al braccio lo menomava, altri interessi lo distraevano dal pugilato. S'era allenato poco e male. Quando si presentò alle operazioni di pesatura, alle dieci del mattino, mi confermò di aver passato la notte in discoteca. Ingollò un paio di panini e s'addormentò sulla panca degli spogliatoi. Affrontare Seta in quelle condizioni era un suici- dio, ma ormai aveva praticamente deciso di chiudere con la boxe: "Faccio un paio di riprese a tutta birra e se non lo stendo, abbandono. Tanto, ho deciso di smettere con la boxe"

Sul ring le cose andarono diversamente. Seta, che qualche timore lo aveva, partì con tutta tranquillità: il suo sinistro pizzicava, ma il ritmo non era tale da impedire a Molesini di tenere il centro del ring e tentare qualche sortita.

Non trovava il tempo, però; non vedeva i colpi e le mani si muovevano lente e imprecise con traiettorie facilmente intuibili. Alla quinta ripresa la fatica cominciò a farsi sentire, le braccia divennero pesanti mentre il rendimento di Seta andava crescendo.

Giovanni, col poco fiato che gli restava, tentò un'azione pesante: il salernitano si salvò sciorinando buona parte del suo repertorio di scorrettezze e subendo un richiamo ufficiale. Durante l'intervallo Giovanni parve deciso ad abbandonare, ma riuscimmo a convincerlo a provare ancora per un round. Fu battaglia, perché anche a Seta cominciava a venir meno la lucidità e mostrava di sentire la fatica: il combattimento degenerò in rissa.

Il salernitano piazzava qualche colpo in più e stava infatti in leggero vantaggio, ma Molesini inviperito per le scorrettezze subite decise di non mollare: il carattere venne a galla.

Subirono un richiamo contemporaneo nell'ottava ripresa e al suono del gong della decima le sorti pendevano ancora leggermente dalla parte del salernitano, ma Giovanni si produsse nell'ennesimo attacco, disordinato, ma efficace riuscendo a piazzare un paio di larghe sventolacce. Seta lo avvinghiò ancora in un abbraccio e finirono per rotolare insieme al tappeto.

Nuovo richiamo ufficiale per scorrettezze di entrambi e quando l'arbitro ordinò la ripresa delle ostilità, balzai in mezzo al ring brandendo l'asciugamano. Se per Molesini era il secondo richiamo ufficiale, per Seta era il terzo: squalifica automatica!

L'arbitro non se ne era accorto, gli altri due giudici nemmeno: breve consultazione col tavolo della giuria e venne finalmente il verdetto. Mancavano quindici secondi alla fine del match: lo avevamo recuperato con un colpo di fortuna.

Quando i due si ritrovarono, un paio d'anni più tardi nella bolgia del Palazzetto dello Sport di Salerno (circa tremila persone capaci di un tifo indiavolato con trombe, tamburi, cartelli inneggianti) Seta si sentiva sicuro di guadagnare il titolo, di poter vendicare quella sconfitta che ancora gli bruciava per il modo in cui era venuta.

Si riteneva nettamente superiore. Era preparatissimo e molto migliorato rispetto a Cremona. Aveva all'angolo Bruno Amaduzzi che lo aveva accolto da qualche tempo nella sua prestigiosa scuderia da poco orfana di Benvenuti e tutta una città che lo spingeva alla conquista del campionato, ma non aveva fatto i conti con il recupero di Molesini, " un portoricano nato per caso a Cremona" come lo aveva definito Franco Esposito nella presentazione del match su "Il Mattino".

Esposito in effetti, era stato l'unico, nel clan di Seta, a nutrire dubbi sul suo successo. Conosceva bene Molesini e il ring gli diede ragione: la pittoresca definizione del giornalista napoletano è la migliore che sia stata data di Giovanni, riferita al suo comportamento dentro e fuori il ring.

Ciro commise l'errore di dar battaglia sin dalla prima ripresa e Giovanni andò a nozze. Tre riprese mozzafiato, allo spasimo: Seta guadagnò forse qualcosa (era più svelto e tecnicamente assai bravo) ma ossidò tutto il suo smalto.

Quando, durante la quarta tornata andò in riserva avvertendo la necessità di rallentare il ritmo, Molesini, ormai carburato, era invece pronto a premere il piede sull'acceleratore.

Lo serrò decisamente alle corde e al termine di un'azione pressante un gancio destro alla mascella mise Seta in ginocchio. In piedi al conto di otto, venne salvato dal gong. Ebbi l'impressione che la ripresa fosse finita con qualche secondo di anticipo e lo comunicai all'arbitro mentre un paio di facinorosi appostati dietro l'angolo cercavano di impedirmi di parlare trascinandomi giù.

Quinto round: stessa fisionomia del precedente. Seta tenne il ritmo per mezza ripresa, ma appena la fatica si fece sentire si ritrovò con le gambe molli e le braccia che tendevano ad abbassarsi lungo il tronco. Rotolò ancora sulla stuoia su due ganci destri perfettamente uguali.

Suonò la campana, stavolta con una quarantina secondi di anticipo. Riuscii a mostrare il mio cronometro all'arbitro mentre un graduato dei carabinieri minacciava di allontanarmi dall'angolo e dalla sala perché secondo lui, così facendo, esacerbavo gli animi degli spettatori e si rischiava uno sfracello.

L'arbitro capì, mi disse di stare tranquillo. Alla successiva tornata il jab sinistro di Molesini aprì la strada definitivamente ad un destro sempre più preciso: due, tre, quattro stilettate colpirono Seta in pieno volto, poi lo sfidante andò ad infilarsi su una combinazione violentissima e fu ancora al tappeto.

Il cronometrista afferrò il martelletto pronto a suonare il gong, ma l'arbitro lo vide e fu più svelto di lui: invece di iniziare il conteggio, decretò il k.o. tecnico. Lasciammo il Palasport subissati dai fischi di un pubblico acceso che non accettava la pesante sconfitta del suo pupillo, col titolo saldamente in tasca ed il proposito di inoltrare un reclamo che forse sarebbe stato l'unico, nella storia della nostra boxe, prodotto da un pugile che aveva vinto per k.o.: il cronometrista di quel match andava punito o almeno segnalato.

Ciro Seta, da quanto mi risulta, non salì più su un ring. Non riuscì a capacitarsi di quella sconfitta che non aveva messo in preventivo e può darsi che sul suo fisico abbiano pesato quelle due, tre riprese di troppo che fu costretto a sostenere davanti al suo pubblico.

Il tracollo di Molesini avvenne più tardi, la notte del 29 luglio 1979, nell'infuocato Palazzetto dello Sport di Rimini, alla quarta difesa. Già in palestra lo avevo visto parecchio appannato: faticava a fare il peso, saltava qualche seduta, era spesso stanco e svogliato, ma mi ero illuso perché altre volte lo avevo visto capace di recuperi insperati e Pira, nonostante già avesse tentato la carta europea, non era certo il più temibile degli sfidanti sino ad allora affrontati. Basso di statura e corto di braccia, abituato a venire avanti a piccoli passi ea battersi da vicino, era l'ideale avversario per un Molesini in palla.

Era anche un fortunato: già lo avevano portato all'Olimpiade di Montreal, ove il cremonese Angelo Galli aveva svolto le funzioni di accompagnatore ufficiale degli azzurri e dove era stato battuto al primo turno, soprattutto perché il Comune di Rimini gli aveva promesso un posto di lavoro in caso di partecipazione; aveva poi potuto giocare la carta continentale al posto di Molesini. Quando si trovò tra le corde per il tricolore, incoccio in un avversario al trenta per cento delle sue possibilità.

Giovanni era vuoto d'energie, soprattutto psichiche, aveva faticato a fare il peso, mostro su- bito poca voglia di battersi. Già nello spogliatoio mentre gli preparavo i bendaggi, nel momento in cui tutto viene a galla, avevo notato che qualcosa non andava. Non c'era la solita tranquilla sicurezza che solo in occasione con lo scontro con Di Jorio era sembrata venir meno, ma allora era stata l'emozione di vedersi per la prima volta al centro dell'attenzione, di sapere che tanti cremonesi erano saliti a Milano per lui.

Qui era la sottile consapevolezza di non sentirsi al massimo, di non aver fatto quanto si poteva per giungere in forma all'appuntamento previsto. Si insinuò il tarlo dell'incertezza nel suo animo e fu la fine.

Si piazzò subito al centro del ring, ma non seppe tenerlo: non vide, e lo accusò, il primo destro al corpo che lo fece inginocchiare come non gli era mai accaduto in dieci anni di carriera e non abbozzò reazione alcuna. Vuoto di energie e spento nel morale, si trascinò ancora per qualche round finché l'arbitro lo rispedì a casa nel corso del quinto tempo.

Quel giorno si accumularono tutti i guai di un anno trascorso senza guardare al proprio fisico e alla propria carriera nonostante quattro positive trasferte col titolo in palio. Il vero Molesini, probabilmente, era sfumato ancor prima di diventare campione italiano, poi avevacontinuato sull'onda del tricolore, anche per sfruttare il momento economico favorevole, ma le sue energie soprattutto psicologiche erano andate lentamente svanendo.

Lo aveva tenuto a galla solo uno smisurato orgoglio che purtroppo si manifestava solo sul ring e un fisico capace di sopportare qualsiasi sforzo, ma a lungo andare pagò la scarsa applicazione ad una vita da atleta, soprattutto al di fuori del quadrato, degli ultimi tempi. Sei mesi più tardi, nella tradizionale riunione di S. Stefano, ci riprovò, a Piacenza, contro il fratello minore di Bepi Ros. Fu un deprecabile pareggio decretato dall'arbitro Urbani di Modena che tanti anni prima era stato pugile amministrato dallo stesso manager di Ros, Rebecchi, e volle fare un grosso regalo di Natale agli amici suoi, ma un Molesini appena in condizione avrebbe vinto in poche riprese. Nel frattempo però si era lasciato invischiare da amicizie che lo tenevano lontano dalla palestra e dal ring e la sua carriera, dunque, fini, dove era cominciata, sul ring del Palazzetto di Via Alberici a Piacenza. In sette anni di professionismo aveva accusato due sole sconfitte e due pareggi (peraltro due

furti ai suoi danni) in una cinquantina di incontri. L'arbitro modenese che contribui a por fine alla carriera di Molesini era e resta comunque un amico.

Ci eravamo conosciuti nell'estate del '62 a Francavilla al mare. Combatteva da peso welter ed affrontò sul ring di casa sua (in effetti era di Pescara) il cremonese Giorgio Gioffre. Buon pugile, questi: tecnicamente dotatissimo, non era purtroppo un "cuor di leone".

Da dilettante, però, aveva comunque affrontato da pari a pari gente come l'argento olimpico Carmelo Bossi, i campioni d'italia Nervino e Breschi, poi Orsi, Simonazzi, e tanti altri di valore internazionale.

Aveva deciso che quello sarebbe stato il suo ultimo combattimento e quando lo vidi ruzzolare sul primo destro di Urbani, mentre l'arbitro iniziava il conteggio, gli mostrai l'asciugamano con l'intenzione di fermare il combattimento. Mi fece segno di no scuotendo la testa ed infatti si rialzò tornando a combattere. Non me ne preoccupai anche perché, conoscendolo bene, sapevo che alla prima vera difficoltà non ci avrebbe pensato due volte a lasciar perdere.

Col trascorrere delle riprese,Gioffre si batte invece con coraggio e determinazione, attaccando come mai aveva fatto in vita sua e dando vita ad un incontro spettacolare perduto d'un soffio proprio a causa di quell'atterramento al secondo round; ma il fatto strano si verificò quando, all'annuncio del verdetto che lo dava sconfitto ai punti, cominciò a dirmi che i giudici s'erano sbagliati, che lui aveva perso per k.o. alla prima ripresa.

Allora capii il suo straordinario comportamento sul ring: il destro che lo aveva atterrato gli aveva fatto perdere completamente la memoria: non ricordava più nulla di quanto fosse accaduto prima di quel momento. neppure il suo nome. Fortunatamente si sentiva bene, fisicamente non accusava alcun disturbo.

Lo stesso Urbani, al ristorante dopo il combattimento, si adoperò per farlo parlare, aiutarlo a ricordare, ma non ci fu nulla da fare. Il viaggio di ritorno verso Cremona. in treno.

Fu un continuo dialogo: avrei dovuto fermarmi a Rimini ove a sera combattevano alcuni dilettanti, ma non potevo lasciarlo solo dal momento che neppure sapeva dove si doveva andare. Alla stazione di Fidenza il mira- colo: incontrò un amico che scendeva dalla littorina di Cremona, lo riconobbe e quel piccolo shock d'un tratto gli fece recuperare completamente la memoria.

Quello con Urbani non fu comunque il suo ultimo incontro. Tornò sul quadrato qualche mese più tardi, ma non era più lui.

Cesare Castellani


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