31 maggio 2021

Il Giro d'Italia ha scalato lo Spluga, il primo a farlo in bici fu nel 1898 il cremonese Italo Galmozzi. Ecco la sua storia

Il Giro d’Italia ha scalato la sua ultima montagna, il Passo dello Spluga. l’antico Passo dell’Orso, come lo si chiamava nel Medio Evo quando costituiva uno dei passaggi verso le terre del Nord, già conosciuto al tempo dei romani. Era la seconda volta nella sua storia che il Giro affrontava il passo. A tentarne la scalata in bicicletta fu, probabilmente per primo un ciclista cremonese, Italo Galmozzi. Era il 1898!
Era il campione del “Cantone dei Digiuni”.  Proprio nella località posta sulla via Mantova, poco fuori Porta Venezia, Italo Galmozzi guadagnò i primi successi di una carriera ciclistica breve, quanto intensa, appassionata e destinata a produrre un seguito di adepti che diedero poi vita a quella scuola ciclistica cremonese che era destinata a durare per oltre un secolo nel mondo delle due ruote. 
Italo Galmozzi s’era avvicinato al velocipede giovanissimo ed erano subito venute le prime vittorie, contese ai Monti, ai Maglia, ai Bonezzi, sia sull’anello di Piazza d’Armi, quanto sul quel rettifilo ghiaioso della Postumia che fu la palestra dei velocipedisti di fine secolo. 
Il bicicletto, come ancora si chiamava, era appena nato, nel 1888: il medico inglese Dunlop aveva sperimentato lo pneumatico che, perfezionato l’anno successivo da Michelin, avrebbe sconvolto il mondo intero dei trasporti, non solo del ciclismo. 
Il nostro usava un mezzo di fabbricazione inglese (sei costruttori già lavoravano in Inghilterra, uno in Francia ed in Belgio,, mentre a Milano Edoardo Bianchi doveva ancora mettere in cantiere i suoi prototipi) con le ruote ancora di dimensioni diverse, la più piccola all’anteriore. 
Italo Galmozzi non rimase a lungo nel mondo delle corse: impegni di studio e di lavoro (divenne ingegnere, si perfezionò in Svizzera prima di tornare a Cremona dove, nel 1922, avrebbe progettato l’impianto di illuminazione elettrica della città) lo allontanarono presto da quel mondo allora avventuroso al quale sarebbe tornato solo dopo il conflitto mondiale quale presidente, attivissimo, del Club Ciclistico Cremonese 1891. Ne era stato uno dei fondatori trent’anni prima e l’impronta lasciata sia come atleta quanto come dirigente fu indelebile.
Per tracciarne la figura di atleta e di sportivo, la cosa migliore è riportare integralmente la relazione che, ventenne appena, lasciò al Veloce Club Cremona, al rientro da un allenamento un po’ particolare sostenuto proprio in vista del campionato cremonese di resistenza che si sarebbe disputato qualche giorno più tardi sul tracciato Cremona ‐ Piadena ‐ Cremona. 
La relazione è comunque uno splendido documento di vita, non solo di etica sportiva, che ci spalanca un mondo ormai quasi dimenticato, il mondo contadino di un se‐colo fa, attraverso il quale il giovane Galmozzi passava cavalcioni al suo bicicletto. 
Pedalando, ma guardandosi attorno, annotando ogni particolare di quella avventurosa passeggiata, da buon turista, oltre che corridore. ha fotografato personaggi e luoghi con acutissimo spirito d’osservazione. Quanti cicloturisti, oggi, ci saprebbero confessare di aver caricato la bici su un carro e di aver proseguito a piedi sulla salita dello Stelvio o del Gavia? 
Galmozzi pedalava nel 1889, usando un “biciclo” pesante una trentina di chili, con gomme ancora piene, scatto fisso, freno a bacchetta solo sulla ruota anteriore e bagaglio a presso sufficiente per una settimana. Quanti di noi sarebbero capaci fare altrettanto, sulle strade lisce ed asfaltate di oggi anziché sulla ghiaia e lo sterrato di un secolo fa? 
Forse nessuno!
Ecco, integralmente riportato, il racconto del futuro ingegnere.
“Da qualche tempo mi frullava in mente l’idea di fare un bel viaggetto col mio biciclo sentendo il bisogno per alcuni giorni di cambiare il tenore di vita e respirare aria diversa dalla nostra: e, dopodiché il Veloce Club Cremona ebbe bandito il Campionato di resistenza, mi decisi a partire per allenarmi meglio a questa corsa. Pertanto la sera di giovedì 29 agosto feci il mio bagaglio ponendovi quanto poteva occorrermi per quattro o cinque giorni d’assenza e alle 7 partii per Soresina (km. 23) giungendovi alle 8,30. Avevo scelto la meta del mio viaggio. le Alpi, non avendo però deciso dove precisamente mi sarei recato. A Soresina pernottai e il giorno dopo, venerdì 30 agosto, alle 5 e un quarto partii per Bergamo. Passai per Soncino, Antegnate e Romano, grossa borgata già vicina ai monti. 
Dopo Romano la strada comincia a salire e le Alpi si scorgono distintamente: ai miei occhi si scopre un bel panorama, tale vista mi dà coraggio e proseguo di buona lena. Tocco Martinengo e Malpaga, dove ammiro le pittoresche rovine d’un vecchio castello, e ad una svolta della via mi si presenta sulle colline a sinistra il panorama di Bergamo, dove arrivo alle 8,30 (Km 55 da Soresina). Non avendo ancora appetito, continuo il viaggio: percorro la circonvallazione da Porta S. Antonio a Porta Osio su una strada piena di fango e di buche e poi infilo la via che per Ponte San Pietro e Caprino conduce a Lecco. Bisogna attraversare la catena di monti che divide la Valle Brembana da quella che costituisce il bacino dell’Adda. La salita è continua, ma la varietà dei panorami mi fa dimenticare la fatica. Attraverso ponte San Pietro, passo il Brembo e arrivo a Pontida, paese assai noto nella storia. Qui faccio colazione poi vo’ a vedere il paese. Nella piazza havvi una colonna, ormai rovinata dal tempo, che ricorda la gloriosa lega lombarda. Alle 11 parto e dopo una forte salita raggiungo il punto più culminante della strada che da qui discende continua‐ mente a Lecco. 
Dopo mezz’ora vedo l’Adda e più in su Brivio e il lago omonimo. Ormai non duro più alcuna fatica, non ho che da guidare il biciclo che fugge veloce per la discesa. Così, sempre costeggiando il lago di Brivio, beandomi nell’ammirare quei luoghi incantevoli, passo per Calolzio, Verenzago e Maggianico, luogo favorito dai signori milanesi che vi costruirono splendidi palazzi e ville. Giungo a Lecco alle 12,30 (km. 34 da Bergamo).
Mentre bevo una birra al Caffè del Commercio, fo conoscenza con un mio collega di velocipedismo, il signor Gaspari che gentilmente si offerse a farmi compagnia sino a Bellano, meta del mio viaggio per quel giorno. Si va a fare una passeggiata per la città e alle 2,30 si parte prendendo la strada stupenda che da Milano conduce in Valtellina. 
Il paesaggio è magnifico: a destra ho i due monti scoscesi Resegone e San Martino, a sinistra il lago e più in là le Corna di Canzo e il monte Baro. La via è a continue salite e discese e corre tortuosamente seguendo la linea capricciosa delle gallerie aperte nel fianco della montagna. 
Passo Abbadia e Olcio e veggo da lontano la punta di Bellagio: dopo Lierna comincia una serie di gallerie di cui l’ultima è piuttosto lunga: uscito all’aperto rimango incantato, davanti a me vedo Varenna e il braccio del lago che fa c po a Colico, a sinistra Bellagio, Tremezzo e il lago di Como; alle spalle Limonta e il lago di Lecco. 
Traversiamo Varenna e proseguiamo per Bellano che di lì a poco, ad una svolta della strada ci si presenta agli occhi, in pochi minuti ci siamo: ore 3,30 (km. 26 da Lecco). Avevamo così percorso km. 26 in un’ora e un quarto. Io ero a km. 140 da Cremona e in quella giornata avevo percorso km. 117.
La mattina successiva, sabato 31 agosto alle 5 e un quarto partivo per Colico. Il lago comincia a cambiare aspetto: i monti si fanno dirupati e rocciosi e le rive meno popolate da case e paesi. Passo sotto un lungo tunnel dove l’acqua che filtra dalla volta mi bagna da capo a piedi. Tocco Dervio e Coreno e giungo in vicinanza di Colico.
Qui la strada si allontana dal lago per superare un piccolo promontorio che allungandosi a nord forma un piccolo golfo amenissimo dove vedo molti pescatori.
Affronto una lunga e faticosa sa‐ lita e sono in vista di Colico. Segue una lunga discesa d’un chilometro e mezzo ed io, ponendo le gambe a cavalcioni sul manubrio, abbandono il biciclo alla corsa ed arrivo rapidamente a Colico (km. 14 da Bellano).
Al Ristorante Stazione fò uno spuntino onde mettermi in forze per affrontare la salita dello Spluga.
Esco dal paese su strada quasi piatta e giungo al così detto trivio di Colico, lasciando a destra la strada che per Morbegno e Sondrio conduce allo Spluga e prendo quella che va al passo dello Spluga, e di lì attraverso l’Adda su un magnifico ponte.La via che percorro è tutta piana e fiancheggiata di pioppi: si ritorna a costeggiare il lago. Non sonvi più rive ridenti e s minate di ville e paesi, ne per questo le cerchi con lo sguardo. Riesco a vedere una sola barca che fende le onde: le rive sono paludose e piene di giunchi e di altre piante palustri, e un silenzio mortale regna su quei luoghi tristi e desolati.
La malinconia mi prende e io affretto il passo per arrivare presto in siti più allegri. Così oltrepasso Vercela, Novate Riva, villaggio posto all’estremità settentrionale del lago.
A questo punto la valle si fa più stretta e selvaggia e la strada sale sensibilmente. Sono le otto ma il sole è ancora nascosto dietro le alte rupi che ho alla mia destra.
Odo continuamente l’allegro scroscio del torrente Mora che discende spumoso dalla Val Bragaglia e presso Riva si getta nel lago. Passo per la Malaguardia e Prata e finalmente scorgo lontano in una stretta gola la cupola dorata del campanile di Chiavenna.
Vi giungo dopo aver superato una forte salita (km. 27 da Colico). 
Vo’ alla birrreria Pedretti a bere dell’ottima birra a due soldi la tazza e cent. 40 al litro: valga questo d’esempio ai birrai di Cremona, che spacciano birra innaffiata a cent. 25 la tazza! Una vera enormità!
Di lì a poco salto in sella e via per lo Spluga. Da principio la strada sale, ma leggermente, sicché ho tempo a destra di ammirare la Val di S. Giacomo, chiusa all’estremità dai monti Cardano, Spluga e Hemsi: questa è appunto la valle che intendo percorrere in tutta la sua lunghezza. E’ molto angusta e tortuosa. Sinché dal luogo in cui mi trovo non vedo che le cime nevose del monte Cardano. Continuo, sempre montato sul biciclo, sino ad un paesuncolo chiamato Botto: “ora incomincian le dolenti note”.
A un tratto la strada svolta a destra e, affrontando direttamente la montagna, acquista una pendenza fortissima che mi sembrò variasse dal 60 al 70 per mille. Io percorro ancora qualche centinaio di metri lentissimamente, ma poi sono costretto a scendere grondante di sudore, giacché le gambe si rifiutavano a sostenere più oltre tale fatica.
Intanto il sole aveva superato le alte vette che prima lo celavano e mi dardeggiava addosso i suoi dardi cocenti. Nonostante, proseguo la via spingendo a mano il biciclo su per l’erta, con la ferma intenzione di giungere, magari sempre a piedi, alla meta prefissa.
La strada sale a zig zag, sinché alzando gli occhi ne vedo le numerose volute inerpicantesi per il monte: da una parte la nuda roccia, dall’altra la muraglia posta a riparo del profondo burrone che discende fino nel letto del torrente Siro. 
Ho fame e faccio una fatica enorme, specialmente per la resistenza grandissima che oppone il biciclo alla salita. Finalmente giungo a San Giacomo.
Come mi fui rifocillato, decisi di rinunciare alla salita dello Spluga per portarmi soltanto alle falde di esso, cioè a Campodolcino, a 4 km. dalla meta. Qui, mentre sto dissetandomi, passa un carro: ottengo da chi lo conduce di salirvi e con tal mezzo di trasporto arrivo, io e il mio biciclo, a Campodolcino (km. 13 da Chiavenna e a km. 17 dalla sommità dello Spluga). Era la una e un quarto ed erano occorse quasi quattro ore compresa la fermata di San Giacomo a pe correre i 13 km.
Mi trovavo a 200 km. da Cremona. Su una lapide che stava infissa nel muro di una casa, lessi che stavo a m. 1000 sul livello del mare. Distante una ventina di chilometri a me, nell’altro versante, scorreva il Reno e si parlava la lingua tedesca. Ero giunto proprio in mezzo alle Alpi nella regione degli abeti e degli edelweiss. Era tardi e mi disposi al ritorno: scrissi una cartolina a questo Veloce Club e una a casa mia, presi un po’ di nutrimento e partii, i 13 km. che mi dividevano da Chiavenna li percorsi in biciclo, con un piede sul predellino vicino alla ruota piccola e il ginocchio appoggiato alla sella: colla mano de‐ stra tenevo chiuso il freno a tutta forza e nondimeno correvo a grande velocità. 
Come Dio volle giunsi a Chiavenna in poco più di mezz’ora, tutto indolenzito, contento però d’aver passato incolume un brutto rischio, per la stessa via percorsa la mattina, giunsi a Bella alle 6 e tre quarti della sera: ivi pranzai e dormii. In quel giorno avevo percorso 116 km. dei quali quattro su un carro e sei a piedi.
Il giorno dopo, domenica 2 settembre a mezzogiorno partii per Lecco. Ad un certo punto della via incontrai due velocipedisti montati su bicicletti, i signori Morganti e Pescò della Pro Patria di Milano: con loro giunsi a Lecco da dove ripartii alle tre per Paderno sull’Adda, onde visitare il nuovo ponte.
 Dovetti percorrere strade bruttissime toccando Olginate, Airuno, Brivio Imbernago ed altri paesi prettamente brianzoli.
 Mi passarono sottocchio di frequente i facsimili del tipo della Lucia dei Promessi Sposi: contadine sempliciotte con un’aureola di spilloni d’argento puntati nei capelli bisunti e appiccicati sulla fronte.  Tra Brivio e Paderno le strade erano selciate di grossi sassi e in forte pendenza, sinché dovetti farle a piedi: giunsi al ponte alle 5,30(km. 25 da Lecco). 
Non lo descriverò perchè i giornali ne hanno parlato anche troppo: solo dirò che la sua grandiosità unita a tanta leggerezza, mi ha sbalordito. Rimasi ben un’ora ad ammirarlo e poi partii per Bergamo giungendovi alle 7, 171 (km. 15 da Paderno). Il giorno dopo, lunedì 2 settembre, partii alle sette del mattino e giunsi a Soresina alle 10 e un quarto.
 Feci colazione e poi andai a riposare: alle 3,30 ripartivo giungendo alle cinque a Cremona. Avevo così percorso, dal giovedì al lunedì successivo 400 chilometri e mi son persuaso di questo: che il velocipedismo finisce dove comincia l’alpinismo, due rami di sport che possono darsi la mano. 
Ho scritto la relazione di questo mio viaggio per dimostrare che il velocipede non deve considerarsi come un giocattolo puerile, ma come un mezzo di trasporto assai rapido ed economico che dovrebbe essere meglio apprezzato non meritando affatto le ire e le ostilità che incontra nella maggior parte della nostra cittadinanza”. 
 
Superfluo ricordare che Italo Galmozzi, con quei quattrocento chilometri di allenamento nelle gambe (per quei tempi assolutamente fuori dell’ordinario), non ebbe avversari in grado di tenere il suo passo nella gara di campionato provinciale di fondo e rifilò a tutti gli avversari qualche minuto di distacco.

 

Cesare Castellani


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commenti


Antonio

31 maggio 2021 08:21

Scusatemi il titolo è fuorviante, da quanto si legge al Passo dello Spluga non è mai arrivato in quanto si è fermato a Campodolcino ( e' scritto che infatti secondo il racconto mancano 17 km) tra l'altro anche l'ultimo tratto lo ha fatto su di un carretto.