31 agosto 2024

17 febbraio 1921, al Tribunale di Crema la prima condanna in Italia per occupazione di terre. Condannati 90 contadini di Cumignano sul Naviglio a 150 anni totali di reclusione. Una ricerca storica

Si può definire un precedente giurisprudenziale la sentenza pronunciata dal Tribunale di Crema, nei confronti dei 90 contadini di Cumignano sul Naviglio, accusati di occupazione della terra. Primo in Italia, il Tribunale di Crema appellandosi all’art. 9 del decreto-legge 22 aprile1920  n. 515, condannava i 90 contadini cumignanesi (per la precisione due furono assolti per aver agito senza discernimento, essendo inferiori ai 14 anni) a circa 150 anni totali di reclusione e alle relative ammende di carattere pecuniario. Il Tribunale cittadino, mentre sanciva definitivamente l’illegalità dell’occupazione della terra, stigmatizzava l’accesa contrapposizione di classe tra padronato e bracciantato, con i relativi differenti interessi economici e morali. La vertenza costituiva l’ultimo atto dell’annosa “questione agraria”, che ormai da mezzo secolo animava il territorio locale. Sin dall’ultimo tratto dell’ ʿ800 infatti, il contesto rurale ormai investito da un processo innovativo di chiara impronta capitalista, vedeva l’inasprimento dei rapporti sociali. Le nuove tecniche di conduzione aziendale unitamente all’applicazione della tassa sul macinato varata alcuni anni prima (1869), allo scopo di risollevare il bilancio del recente Stato unitario e la crisi agraria che dilagava nella seconda metà del secolo, contribuivano al peggioramento delle condizioni di vita del proletariato rurale. I grandi proprietari terrieri, residenti in città, non avvertivano la necessità di introdurre innovazioni finalizzate ad alleviare il miserevole stato dei lavoratori. Inoltre, l’eccedenza di manodopera consentiva il rapido avvicendamento del capitale umano e la sensibilità morale dell’epoca non avanzava eccezioni nella valutazione delle consuetudinarie relazioni fra classi, pregiudicate dalle rilevanti disparità economiche. La scelta migratoria (che in alcuni paesi del nostro territorio assumeva le proporzioni di un esodo) in direzione dell’Argentina, del Brasile o dell’Uruguay, costituiva di conseguenza, una delle soluzioni adottate dai contadini locali. Per coloro che decidevano di rimanere, l’alternativa era rappresentata dall’astensione dal lavoro, quale atto di protesta. Sin dal 1873, nella zona compresa tra Cumignano sul Naviglio, Genivolta e Casalmorano si “accendevano” i primi scioperi, che in realtà si configuravano come “rimostranze da parte dei contadini sulla esiguità dei salari e della corresponsione giornaliera” ormai insufficienti a far fronte al rincaro dei prezzi. I contadini, a cui erano ancora assenti i concetti di giustizia sociale e di coscienza di classe, miravano ad ottenere pur modesti miglioramenti economici e patti colonici unificati, ossia non differenziati tra cascina e cascina. Il malcontento, che assumeva piuttosto la connotazione di un’espressione disperata, trovava la risposta repressiva della truppa e degli squadroni di cavalleria. La reazione tuttavia, non sedava completamente le istanze dettate dalla più cupa indigenza, che a più riprese infatti, si riaccendevano periodicamente in tutta la  plaga provinciale, per conformarsi nelle cosiddette “boje”. Persino la stampa locale (La Provincia) in un pertinente ritratto, non mancava di tradurre le pressanti motivazioni degli scioperanti, i quali “condotti alla disperazione per una paga non solo inadeguata, ma vile, stanchi di patti inumani, stanchi di alloggiare in stamberghe ove sarebbero a disagio e si ammalerebbero persino i porci, stanchi di essere nutriti della sola polenta ed anco questa di grano avariato e mal cotta per mancanza di legna, un bel giorno si rifiutarono di lavorare e fecero sciopero! Non l’avessero mai fatto!”. L’autorità governativa, che non ammetteva tumulti, interveniva con modalità repressive. Trovava in tal senso, l’unanime approvazione dei cosiddetti benpensanti “filantropi in deliquio d’amore per il popolo, progressisti lesti a sollecitare a gran voce, carabinieri, guardie, truppe, ceppi e catene, onde reprimere quei contadini che azzardaron ribellarsi e far sciopero, piuttosto che morir di fame e di fatiche per facilitare vita comoda ai gaudenti loro padroni”.

L’estrema condizione di indigenza, unitamente alle abitazioni fatiscenti, al soverchiante orario di lavoro, all’esclusione da ogni diritto, all’alimentazione insufficiente e alle numerose patologie debilitanti (pellagra, malaria, colera ecc.) non poteva assicurare un’esistenza dignitosa. Persino l’avvocato Enrico Ferri impegnato a perorare la causa degli scioperanti arrestati nel 1885, attraverso un’emozionante arringa, avanzava la richiesta del rispetto almeno “delle prime necessità della vita” per uomini supinamente asserviti ridotti alla condizione di animali. Nel contempo, le istanze del proletariato rurale venivano accolte dal nascente movimento socialista, che sapeva strutturare una fitta rete di rappresentanza. Anche la Chiesa non restava in disparte, e attraverso i suoi parroci di campagna, che vivendo a contatto con i contadini ne conoscevano gli animi e le aspettative, si attivava attraverso l’organizzazione delle “Leghe cattoliche del lavoro”. Finalizzate a regolare le istanze popolari e ad assicurare il miglioramento economico dei lavoratori, le Leghe cattoliche tentavano altresì di mantenere la pubblica quiete. Le Leghe cattoliche del lavoro, destinate più tardi ad appellarsi “bianche” - per distinguersi da quelle rosse di stampo socialista - trovavano all’alba del nuovo secolo, un’importante figura di riferimento nell’avvocato Guido Miglioli, al quale premeva assicurare un rilevante ruolo politico al movimento (sindacale) cattolico. Mentre i salariati delle estese aziende agricole cremonesi si riconoscevano maggiormente nelle organizzazioni socialiste e maturavano una più salda coscienza di classe, i contadini del soresinese (feudo del Miglioli) e della campagna cremasca (piccoli “masagnei” che il periodico socialista Libera Parola definiva pecore docili, incapaci persino di concepire una benché minima possibilità di riscatto) trovavano affinità con gli ideali propugnati dalle Leghe bianche, sorte all’ombra dei campanili. Tuttavia, la differente impostazione ideologica delle Leghe, favoriva una completa incomprensione fra le stesse, a tutto svantaggio dei lavoratori. Mentre il proletariato progrediva con fatica nel cammino della propria emancipazione e la classe padronale si spendeva preferibilmente nell’istituzione di Enti morali od Opere Pie ma tardava a riconoscere i più elementari diritti dei lavoratori, anche sul mondo rurale andava profilandosi una nuova incommensurabile sciagura: la guerra (1915-1918). Estranei alle idealità belliche, i cosiddetti fanti-contadini destinati a tramutarsi nel tragico emblema dell’aborrito conflitto, erano allora costretti ad accantonare le proprie istanze e rivendicazioni, per conformarsi a obblighi superiori. Il proletariato socialista nell’esprimere la propria contrarietà alla guerra, la definiva “guerra di classe” borghese e capitalista, finalizzata all’acquisizione di nuovi mercati, per l’arricchimento dei potentati economici e pertanto, in grado di precludere “l’elevamento materiale, morale e culturale” delle  classi meno abbienti. Non così dissimile il giudizio del Miglioli, che attestato sulla neutralità ad oltranza, a difesa del proletariato cattolico, presagiva -  al termine del conflitto - l’affermazione dello Stato borghese, con il rafforzamento degli elementi conservatori e nazionalisti, a tutto svantaggio dei lavoratori. Un’intuizione profetica e alquanto veritiera, tanto che persino il sociologo Vilfredo Pareto si diceva sorpreso che la borghesia, già negli anni precedenti, non avesse pensato alla guerra, per restaurare coattivamente la disciplina nelle masse. Nel tentativo di motivare la partecipazione dei fanti-contadini, si spendevano allora promesse politiche, circa la futura distribuzione delle terre ai lavoratori. Fra le inquietudini che animavano il primo dopoguerra, alimentate dalla spirale inflazionistica, dall’elevata disoccupazione e dalla percezione di una vittoria mutilata, si ergevano le richieste del proletariato rurale intenzionato a richiedere il credito sospeso a ricompensa del sangue versato. Se il proletariato socialista aspirava ad un’utopica rivoluzione, sul modello bolscevico e all’abolizione della proprietà privata, quello cattolico riponeva fiducia nella riforma agraria migliolina, nella quale riecheggiava il concetto di “compartecipazione”, affinché i contadini fossero chiamati a “partecipare alla direzione, agli utili e alla proprietà delle rispettive aziende, per un nuovo riconoscimento giuridico sociale del lavoratore”. Il cosiddetto biennio rosso (1919-20) si doveva connotare allora per le numerose agitazioni proletarie, protese a un radicale mutamento della società. Nel nostro territorio si enumeravano per il 1920, circa 100 scioperi, a dimostrazione che lo scontro ingaggiato con gli agrari si rivelava particolarmente intenso, tanto da assurgere all’interesse nazionale. La riforma migliolina, sebbene escludesse la rivoluzione, preoccupava oltremodo gli agrari, che ne intravedevano tutta la valenza eversiva. Le agitazione nel frattempo si propagavano su larga scala. Ai primi di maggio del 1920, entravano in sciopero i mungitori di Fiesco, Trigolo, Castelleone, Gombito, forzando la mano ai conduttori costringendoli ad addivenire ad un accordo (Patto di Castelleone) immediatamente sconfessato dalla Federazione Agricola Provinciale. L’Unione del Lavoro allora, organizzava uno sciopero bianco, che non prevedeva unicamente l’astensione dal lavoro, ma la disobbedienza agli ordini del conduttore sostituito dal capo-lega e la costituzione dei Consigli di Cascina. Gli agrari non disposti a farsi condizionare, si giovavano della manodopera dei cosiddetti liberi lavoratori o krumiri, che inasprivano l’animo degli scioperanti. Il 9 giugno, la Federazione Provinciale Contadini dell’Ufficio del Lavoro proclamava lo sciopero generale, al quale aderivano 34 Comuni e 6 frazioni. Nel soresinese la tensione lievitava ulteriormente, a causa dell’uccisione del capo-lega Giuseppe Paulli e del plateale arresto del Miglioli. Alfine di sedare la vertenza, si perveniva alla necessità  di un incontro fra le parti in causa, da tenersi in campo neutro, presso la Prefettura di Parma. Così, il 19 giugno 1920, si concordava l’omonimo Patto (Patto di Parma), mediante il quale gli agrari si impegnavano a studiare e a sancire con le Leghe bianche, l’introduzione della riforma agraria a base associativa e la conseguente abolizione del salariato. La riforma agraria avrebbe avuto decorso sin dalla seguente giornata di San Martino. Il successo del proletariato bianco veniva evidenziato a caratteri cubitali da L’Era Novella il settimanale cattolico locale, che già sembrava assaporare una “futura era di pace”. Alla soddisfazione del proletariato, faceva da contraltare il disappunto degli agrari, che nella giornata di San Martino non si dimostrarono disposti a rispettare il concordato. Le aspettative dei lavoratori si esprimevano allora, in oltre 60 paesi del cremasco e del soresinese, attraverso l’occupazione delle aziende agricole, sulle quali veniva issata la bandiera bianca, mentre i Consigli di Cascina ne assumevano la conduzione. Un tripudio esultante e pacifico - secondo la stampa cattolica - animava la nuova forma di  protesta popolare. “Un movimento originale e nuovo - sottolineava L’Era Novella -  ... alla conquista della terra promessa. Mai forse, apparve un fatto più strano e, nello stesso tempo, più contenuto e dignitoso. Mentre tutto si rinnova, tutto è calmo, pacifico, ridente”. Di diverso avviso era l’interpretazione degli agrari, per i quali “contadini sobillati dal Miglioli e dai suoi accoliti, [avevano] invaso i cascinali scacciandone i conduttori”. A sminuire la plateale occupazione delle aziende agricole, contribuiva la stampa socialista attraverso il periodico Libera Parola, che affermava d’assistere ad una vera e propria parodia, a imitazione dell’occupazione delle fabbriche. Rimarcava in tal modo la distanza intercorrente tra il proletariato rurale e quello industriale e l’inconciliabilità delle differenti concezioni ideologiche. Era in tale contesto di rivendicazioni - festose o pugnaci - secondo le discordanti interpretazioni, che anche i contadini di Cumignano sul Naviglio procedevano all’occupazione della terra. È lecito chiedersi dunque, le motivazioni per le quali, all’interno di agitazioni così estese, che investivano ben oltre 60 paesi, solamente i contadini di Cumignano venissero denunciati e in seguito condannati. Forse le modalità di occupazione si rivelavano particolarmente truculente? O forse perché i diritti padronali, in Cumignano, da tempo erano già stati posti in discussione, dal momento che sin dal 1911 ad esempio, si era applicata la formula della compartecipazione nel vasto podere del Castelletto. Inoltre, il paese di Cumignano aveva dato i natali a Giuseppe Moretti, di famiglia possidente e futuro comandante della legione Costantissima. Il Moretti destinato a diventare un importante esponente fascista,“si opponeva con tenacia alla invadente agitazione agraria, che minacciava la divisione delle terre fra i contadini”. Gli agricoltori di Cumignano, Carlo Pizzamiglio, Ambrogio Monfrini, Agostino Fiora, Leonardo Premi, Enrico Corbari e Libero Arrigoni, anche per motivi di principio, ormai esausti dei continui disordini, nella condivisione dello spirito morettiano, procedevano a denunciare i 90 contadini protagonisti dell’occupazione delle cascine. Secondo il capo d’accusa, i lavoratori rurali venivano giudicati “per avere in Cumignano insieme e riuniti, il 15 novembre scorso, allo scopo di appropriarsi le altrui cose immobili e per trarne profitto, occupate le cascine” degli agricoltori già menzionati, che si vedevano patrocinati dall’avvocato Enrico Cavallini di Pavia. Gli imputati erano invece affidati alla difesa degli avvocati Ubaldo Ferrari di Cremona e Agostino Zambellini di Crema. Il processo richiamava l’interesse di giuristi, giornalisti, agricoltori, sindacalisti provenienti da tutta Italia. La sentenza avrebbe deciso la legalità del nuovo diritto migliolino. L’assenza degli imputati  - probabilmente concordata -  (sarebbero stati condannati in contumacia) come dell’avvocato Ferrari per motivi di salute, nella normale strategia di difesa, conduceva il difensore (d’ufficio) Zambellini a chiedere il rinvio. Intanto, il Miglioli attraverso una personale lettera al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Brescia, avocava a sé la responsabilità di istigazione dei contadini per i reati contemplati dall’atto di accusa. Un’azione generosa quanto altrettanto ingenua, nel tentativo di sospendere il procedimento. Il Tribunale di Crema infatti, che riteneva bastante la presenza dell’avvocato Zambellini e ne rimarcava la competenza, giudicava la lettera del Miglioli utile a formulare un capo d’accusa nei confronti del leader cattolico, ma insufficiente a far annullare il procedimento a carico dei contadini. La sentenza pronunciata in tempi rapidissimi, il 17 febbraio 1921, faceva riferimento all’art.9 del decreto-legge 22 aprile 1920 n. 515, che così recitava “Chiunque, anche senza violenza e senza rimuovere od alterare i termini e per trarre profitto, sia pure temporaneo, si immette arbitrariamente nel possesso di terreni o di fabbricati rustici di altrui proprietà, pubblica o privata, oppure essendone in tal modo entrato in possesso, rifiuta di abbandonare gli immobili stessi, è punito ecc...”. Inoltre, per completare la ricostruzione veniva richiamato l’art. 11 della Convenzione di Parma, secondo il quale agrari e contadini bianchi si  impegnavano solamente a nominare una commissione per lo studio di contratti a struttura associativa. In totale dissenso il Miglioli asseriva invece che “in applicazione di un patto (Patto di Parma) stipulato tra l’organizzazione degli agricoltori e quella dei contadini… i contadini avevano il pieno ed indiscutibile diritto di cessare coll’11 novembre, il loro rapporto giuridico di salariato nei riguardi dell’agricoltore padrone e di diventare senz’altro dei consoci in un nuovo sistema di conduzione agricola”. Ai contadini di Cumignano comunque, venivano comminate le seguenti pene: gli imputati maggiorenni erano condannati a 14 mesi di reclusione e al pagamento di Lire 2000 di multa. Gli imputati minorenni (superiori ai 14 anni) erano invece condannati  a pene varianti da 5 a 7 mesi di reclusione e a Lire 600 di multa. La stampa liberale cremasca (Il Paese) salutava con entusiasmo la sentenza che, decretando l’illegalità dell’occupazione, poneva in salvo le istituzioni della Patria e il diritto di proprietà cardine di ogni vivere civile. Attribuiva alla malafede del Miglioli l’errato convincimento inculcato ai contadini, che ritenevano di potersi associare agli agricoltori non solo nella compartecipazione degli utili ma anche nell’esercizio del diritto di proprietà, base giuridica della costituzione sociale e dello Stato. Non nascondeva inoltre una punta d’orgoglio derivante dal fatto che al Tribunale di Crema, per primo, fosse toccato l’onore di affermare le istituzioni dello Stato. Intanto, da tutta Italia - a dimostrazione delle numerose aspettative che si erano venute a creare intorno al processo - giungevano le congratulazioni vivissime al Procuratore del Re Ettore Salvi e al Presidente del Tribunale di Crema avv. Gabriele Ardoino, per  aver operato per il bene della Patria, onde assicurale “maggiori destini”. Il risultato del processo che nel Paese, seppur in modalità differenti, si era atteso con apprensione, diveniva oggetto del dibattito politico fra i banchi del Governo. Il Miglioli allora ricordava come anche lo sciopero, a suo tempo, fosse stato considerato un reato comune o suis generis, senza attenuanti, in grado di minare le norme che regolavano la vita civile. Eppure, nel moderno contesto sociale come in quello giuridico, nessuno avrebbe ormai posto in discussione il diritto di sciopero. Tuttavia, la trasformazione dei tempi e l’evoluzione delle sensibilità avevano portato ad abbandonare lo sciopero come arma di lotta, poiché giudicato “non più mezzo efficiente per le rivendicazioni avvenire”. Lo sciopero, con l’astensione dal lavoro che implicava, finiva con l’essere avvertito come anti patriottico. Il desiderio di un nuovo riconoscimento giuridico relativo alla figura del contadino, alimentato dalle promesse spese durante la guerra, non poteva che condurre i lavoratori a “fermarsi” su quella terra per cui avevano combattuto e che avevano reso feconda col proprio lavoro. Il corso naturale della storia - secondo il Miglioli - doveva condurre al riconoscimento della nuova forma di lotta. E come ieri “l’imbecillità reazionaria lanciava la mitraglia omicida” contro gli scioperanti, in quei giorni invece, si stentava a riconoscere che l’occupazione delle terre risultasse essere“ un diritto dei contadini”. Nella sua appassionata perorazione il Miglioli accennava a quei Tribunali  - con evidente riferimento a quello di Crema, pur senza mai menzionarlo - che con troppa celerità istauravano processi con citazione direttissima,“sovvertendo perfino le norme della procedura penale”. Tanto più che il reato di attualità non era neppure previsto dalle vecchie norme del codice penale, ma veniva “contemplato di straforo” da uno dei tanti decreti che avevano visto la luce in quel tempestoso e torbido dopoguerra. La questione dell’occupazione delle terre dunque, andava ben oltre una discutibile violazione del codice penale; abbisogna invece di una rinnovata coscienza sociale e giuridica, senza la quale sarebbe venuto meno il diritto alla giustizia. 

Nelle foto un gruppo di salariati agricoli negli anni Venti e l'abitazione padronale che si affaccia sul Naviglio Grande Pallavicino inclusa nella Cascina Rossa

Elena Benzi


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