Acqua, fuoco e tenebre: i riti della Settimana Santa nel racconto del vescovo Sicardo, nelle tradizioni contadine e nel più antico brano in dialetto
I riti della Settimana Santa sono all’origine della drammaturgia moderna: in essi si fondono forti emozioni religiose ad antichi riti arcaici precristiani legati al culto della fertilità. Questo è particolarmente evidente nelle tradizioni popolari, più legate ai cicli stagionali, ma anche nelle particolari forme liturgiche che fanno di questa settimana la più intensa dell’anno.
La Pasqua cominciava con la Quaresima, scandita da sei domeniche alle quali la gente ha dato un nome: Anna, Rebanna, Rebecca, Susanna, Lazzara, Palme. Arrivati, poi, alla Settimana Santa, fervevano i preparativi: in chiesa e fuori. Protagonisti sono, per sette giorni, i ragazzi e i poveri, i lumi e le acque. Si partiva con la benedizione dell’olivo, la domenica delle Palme. Portato solennemente in processione o distribuito dai sacrestani che ne ricavavano ramoscelli, ambitissimi perché proteggevano dal potere del diavolo e dai fulmini. In alcuni paesi i contadini ne mettevano agli angoli dei campi per salvare i raccolti da grandine e saette. Fatto questo, ci si preparava al triduo: le donne occupatissime in casa nei “mestieri di pasqua”; gli uomini, nei campi, a terminare le semine. I ragazzi, oltre che essere preposti alla pulizia delle catene del focolare, si affrettavano a preparare le pertiche da usare per “battere i mattutini”. Questi erano giorni di confessioni di massa in tutte le parrocchie e di adorazione del Santissimo. E finalmente, la sera del mercoledì, si entrava nel vivo dei riti. Era “il mattutino delle tenebre” che consisteva nel canto di un robusto numero di salmi con relative antifone e, dopo ogni salmo, si spegneva una candela: quindici in tutto, a rappresentare i dodici apostoli e le tre Marie. Spento l’ultimo cero al canto del Benedictus, nella chiesa buia, o sul sagrato, entravano in scena i ragazzi, incaricati di far fracasso con i loro legni, o con delle raganelle fabbricate con scatolame vuoto. Era il cosiddetto “fragore”, variamente inteso: come congedo a Gesù che stava per lasciare la terra, o come ricordo del terremoto avvenuto alla sua morte. O, ancora, per scacciare gli spiriti maligni in previsione della nuova stagione. Terminata la funzione, la gente si portava a casa le smoccolature delle candele per farne piccoli talismani da tenere con sé. Curiosa l’usanza, testimoniata ad Annicco, di recarsi al cimitero, la sera dopo cena, per ornare di fiori e lumi tutte le tombe. Il giorno dopo si dava inizio al triduo pasquale.
Legate le campane al Gloria, per tre giorni la chiesa osservava il silenzio del lutto; nemmeno il campanello alla elevazione si poteva suonare. A tanto silenzio rimediavano i ragazzi che, con strumenti a percussione improvvisati, se ne andavano in giro annunciando a più riprese l’inizio delle funzioni. Affidandosi anche, come è naturale, alla propria creatività: “Na vòolta ‘I matutìin, na bòta in sol cupìin...” E giù una botta. Al secondo richiamo, circa un quarto d’ora dopo: “Dò vòolti ‘I matutìin, dò bòti in sol cupìin”. Nella prima metà del Seicento il momento liturgico più importante era riservato al Giovedì Santo: secondo quanto racconta il Bresciani, più di quindici confraternite andavano “circa un’ora di notte con suoi lumi accesi vistando li santi sepolcri, parte con musica, e parte con dimostrazioni della santissima Passione di Nostro Signore”. Il Venerdì Santo nella Cattedrale dopo il Mattutino delle tenebre si teneva “la processione del Santissimo Sacramento con tutte le sopradette confraternite, ed infine sopra la porta maggiore si benedice il popolo, il simile fa la collegiata di S. Agata (Diario curioso, Cremona 1638). Nel 1793, cioè circa un secolo e mezzo dopo, in un altro opuscolo (Diario curioso antico e moderno di quello che un tempo si osservava, Feraboli 1793) sono già scomparse le confraternite, sia per quanto riguarda il Giovedì Santo, sia per il Venerdì: “Nella cattedrale è solito farsi la processione del Santissimo Sacramento velato con l’intervento del clero secolare, e regolare, e nobiltà, ed in fine alla porta maggiore del duomo viene benedetto il popolo. Nella collegiata di Sant’Agata in questo giorno si suole fare un discorso sopra la santa croce, colla reliquia della quale si benedicono i concorrenti”. Il Diario del 1793 segnala altre consuetudini che nel frattempo sono scomparse: “Il lunedì, il martedì ed il mercoledì santo si faceva in duomo un triduo, ove si esponeva il Santissimo Sacramento. Vi concorrevano tutte le parrocchie, e confraternite a far orazione, ciascheduno alla sua ora assegnata, e vi si facevano discorsi morali sopra l’eucarestia, e precisamente sul tema, o testo della sacra scrittura proposto ogn’anno dal reverendissimo canonico teologo della cattedrale da giovani chierici, o sacerdoti, e conchiudevano colla recita, o canto delle litanie de’ santi”. Il Sabato Santo “anticamente dagl’ospitali, collegi, università, e parrocchie si distribuiva pane, farina, e denari a’ poveri secondo gl’obblighi loro, li quali sono stati addossati al Pio Instituto de’ Poveri, a cui sono state aggregate le rendite”.
Sempre il Bresciani ricorda per il lunedì di Pasqua i pellegrini che si radunavano alla mattina in cattedrale per assistere alla messa, si recavano poi “unitamente in piscaria” (la piazza antistante il palazzo vescovile) e là ricevevano la benedizione del vescovo e poi accompagnati dalla Confraternita di San Rocco “con trombe e musica” arrivavano fino al Po dove si imbarcavano.
Il giorno più intenso e quello più suggestivo per la fantasia popolare era il Giovedì Santo. I riti che più affascinavano i fedeli erano sostanzialmente due: la lavanda dei piedi e l’Ufficio delle tenebre. Documentata già dal vescovo Sicardo nel XII secolo, ma certamente di origini più antiche, la lavanda dei piedi è rimasta in uso, pressoché identica, fino alla riforma del 1952. Era, allora, prerogativa del vescovo, ma già, nel pomeriggio, era stato lavato anche il pavimento della chiesa, simbolo della lavanda dei piedi che, a sua volta, è segno della remissione dei peccati.
“Dopo la S. Messa ‐ racconta il Bresciani ‐ l’Eminentissimo Sig. Card. Vescovo va apparato Pontificalmente nel Battistero, e là lava li piedi à dodeci poveri vestiti di sarza bianca, e in fine li dona denari à ciascuno, essendovi presente li SS. Canonici, e molti nobili che s’adoprano in quella Santa attione, e poi sono condotti a pranso nel Vescovato”. Con una eccezione, se si sta al Merula, il quale racconta che nella parrocchia di S. Nicolò, “L’Arciprete lavava i piedi à settanta due poveri, dando a ciascuno di essi certa quantità di moneta”. Terminato il rito, c’era la visita ai Sepolcri, fatta processionalmente. Racconta Sicardo: “Come fece Giona, che rimase nel ventre della balena per tre giorni e tre notti, così la chiesa si presenta in grande tristezza per tre giorni”: durante i quali “né le ore della notte né quelle del giorno devono iniziare come di consueto”. E, interessante, è l’indicazione per intonare le letture del Mattutino: “da leggere più in tono di lamentazione che di lettura”; mentre, ad ogni salmo, si spegneva una candela che, in tutto, potevano essere dodici, ventiquattro o settantadue.
“Una volta spente, al Benedictus le voci emettono un suono quasi morente, quindi per il Kyrie eleison si cantano lamenti più lugubri”. Nella chiesa semibuia, queste invocazioni, già di per sé drammatiche, venivano cantate con emissioni vocali che a malapena riusciamo a immaginare, ma che non potremo mai più riprodurre. Infatti noi, cresciuti in un mondo sonoro fatto di toni e semitoni ben definiti, non siamo più in grado di sapere come fossero intonati quei canti, a una sola voce e senza sostegno di strumento alcuno, con quale emissione, con quali oscillazioni o scivolamenti di voce. L’emozione era sicuramente fortissima, accentuata da una forte drammatizzazione della stessa liturgia, tesa all’evocazione e alla riproposizione del mistero che ci si appresta a celebrare.
Ma lasciamoci di nuovo accompagnare da Sicardo: “Alla fine del quinto giorno, verso il vespro, fanno seguito segni di maggior tristezza, poiché vengono spogliati gli altari, [che] vengono lavati col vino, tacciono le campane, si battono le tavole; prima di ogni veglia notturna, un triste silenzio ricopre le ore canoniche”. E’ l’ufficio delle tenebre, durante il quale canonici e monaci dovevano recitare nove letture, comprese le Lamentazioni, che andavano declamate in tono di pianto. Ma il giovedì santo era, oltre che il giorno della benedizione degli oli santi, anche il giorno del perdono per i penitenti.
“La Chiesa ha istituito l’assoluzione dei penitenti il quinto giorno, sia perché oggi il Signore fu preso e legato, così in questo giorno coloro che sono legati [dal peccato] verranno sciolti”. Inoltre “oggi il Signore lava i piedi degli Apostoli, perciò oggi si assolvono i penitenti, perché la lavanda dei piedi rappresenta la remissione dei peccati”. E segue la descrizione del rito.
Scrive Sicardo: “La forma della riconciliazione è questa: esce il vescovo dalle porte aperte della chiesa, dove i penitenti giacciono a terra prostrati, e il Vicario di Cristo li richiama al timore di Dio dicendo: Venite, venite, venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio. Quindi prega per loro, si inginocchia, li ammonisce e, riconciliandoli, li introduce nella chiesa”. Una volta entrati, si tagliavano loro i capelli e le barbe, lasciati crescere in segno di penitenza, e gli si faceva indossare una veste bianca per poter accedere al banchetto eucaristico.
Era questo, come detto, il momento in cui entravano in scena le confraternite. Ma anche i Mendicanti, scrive il Bresciani, “vanno cerca un hora di notte con suoi lumi accesi visitando li Santi Sepulcri, parte con musica, e parte con dimostrationi della Santissima Passione di Nostro Signore”. Che cosa fosse diventato, nel tempo, questo incrociarsi di processioni illuminate da torce fumiganti nelle strade buie della città, ce ne dà un quadro vivissimo il Conte Biffi, sul finire del ‘700:”... La notte [...] iluminata, le finestre ornate di tapeti, e di belle signore; le strade ceppe di popolo; trombe, sacre imagini, sordine, confraternite, sacchi, piedi scalzi, battuti, liti per la mano tra que’ che visitavano le chiese, qualche omicidio e molte incarnazioni...”. Ma era anche, questo, il tempo della carità. Sempre il Conte Biffi: “A queste feste o devozioni congiungevansi offerte di cera e denaro alle chiese e ai santi, elemosine e soccorsi al popolo affamato. Il vescovo, il municipio, gli ospitali, le parrocchie, le confraternite, le famiglie de’ nobili e de’ ricchi dispensavano pane, vino, farina, denaro i poveri infermi e bisognosi della città e dell’arte loro, maritavano con doti donzelle, liberavano carcerati per debiti. La confraternita della SS. Annunciata mandava un vitello cotto insieme con pane, ova, vino e altre cose ai mendicanti di S. Alessio. A san Carlo dispensavasi pane benedetto pe’ febbricitanti”.
E siamo giunti al venerdì. La morte di Gesù, preceduta dal racconto dei suoi patimenti quali emergono in parte dai Vangeli canonici, ma soprattutto dagli Apocrifi mediati da secoli di predicazioni minuziosamente descrittive, nell’immaginario collettivo diventa, prima ancora che un evento salvifico, un modello al quale rapportare le proprie sofferenze. In tutta la cristianità mediterranea non si contano le processioni, variamente drammatizzate, nelle quali gli elementi coreografici, poetici, musicali, si fondono in un unico sentimento: la compassione per il dolore umano riassunto nella persona del Figlio di Dio e della sua madre Addolorata.
Nelle campagne la processione era caratterizzata dalle luminarie e dai quadri viventi. Per i lumi, in assenza di energia elettrica, tutto era lasciato alla fantasia delle donne. In alcuni paesi, i paioli di rame ben lucidati con dentro una candela accesa, venivano appesi sui rami degli alberi con la bocca rivolta verso la strada. Il loro luccichio, nella notte, doveva essere di grande suggestione. Più frequentemente, le luminarie erano costituite da centinaia di gusci di lumache, quelle mangiate la vigilia di Natale, riempiti di olio. A Crema la processione è stata riportata in vita negli anni Ottanta del secolo scorso dalla parrocchia di San Benedetto e nel 1987 a Calvatone, ma senza la rappresentazione di scene bibliche. Negli stessi anni la Pro loco di Castelleone e San Bassano, dopo la fine della processione, organizzavano un concorso per le migliori vetrine. Anche ad Annicco, la mostra delle vetrine avveniva nel triduo della Settimana Santa. Altre processione sono ricordate a Formigara, Gombito, Trigolo e Stagno Lombardo. La ripresa delle sacre rappresentazioni all’aperto ha interessato negli anni Novanta anche Romanengo e Bagnolo Cremasco.
Al 1876 risale invece un curioso episodio avvenuto a Soncino: nella stanza mortuaria allestita presso la chiesa, dove era rappresentato il sepolcro, era collocato in costume adamitico un uomo magrissimo, che doveva rappresentare il Cristo morto. Mentre donne e bambini visitavano il sepolcro, accidentalmente un candelabro aveva urtato il velo che copriva il malcapitato, incendiandolo, che si alzò urlando, dandosela a gambe.
Ma il documento più antico, e certamente il più suggestivo, è quello pervenuto fino a noi dalla Confraternita dei Battuti che recitavano questo Lamento nel XIII‐XIV secolo. E’, forse, la più antica testimonianza scritta in dialetto cremonese: “Com fo trahit el nos Signor/ E vel dirò cunt grant dolor./ Al temp de quei malvas zudé/ Un grand consey de Crist se fe/ Chel fos trahit et ingannath/ E su la cros crucificath./ Inter lo corp de quey malvas/ Denter gintrava el Setenas./ Zosin fu Yuta Scariot/ Che Crist trahiva dì e not. Quel Yuta fals e renegath/ Ay sovra princep fo andath/ E si ye dis, quem volef dà/ Se vel tradis illy vosy ma? Respos illora quey zudè,/ Trenta diner tinì de accè/ Stul po trady et ingannà/ Deraz de no a presentà... Et quant ey laf sflagelath/ Mul tosto ey laf incoronath/ De spini grossi et ponzent/ Per che el so volt fos sanguanent./ Da poi chey laf xy fort befath,/ A Pilat fo apresentath/ E falsament ay lacusà/ la sua faza poyligà. Po tug crithava cum remor,/ Crucifia el malefactor,/ E su lo vis tug ye sputhava/ E dolzament ye perdonava. Stagant in crus el nos Signor/ Dis a la Mater cum dolor:/ Zovan te do per to fiol,/ Che teg se plura cum gran dol... Dem doncha tug volè servì/ A quel che vos per no morì,/ Azo che quant sem trapasath/ Chel gne conduga al regn beath”.
In città la processione era più sobria. “Nella chiesa Cathedrale racconta il Bresciani dopo il mattutino si fa la processione del Santissimo Sacramento con tutte le sopradette Confraternite, e in fine sopra la porta magiore si benedice il Popolo”. E “nella Collegiata di S. Agata aggiunge il Feraboli un secolo dopo in questo giorno si suole fare un Discorso sopra la Santa Croce, colla Reliquia della quale si benedicono i Concorrenti”. Sicardo ricorda anche il rito del “Quaem quaeritis” che si svolgeva all’alba della domenica di Pasqua in cattedrale, al termine del Mattutino: una vera e propria rappresentazione drammatica con protagonisti alcuni chierici travestiti da donne, che si recavano al luogo individuato come il sepolcro di Cristo, con due giovinetti che impersonificavano Giovanni e Pietro, ed altri gli angeli, e da qui ritornavano al coro dove annunciavano la resurrezione. Allora il coro intonava: “Te, Deum, laudamus”. Dopo questa sorta di catarsi, il sentimento popolare sembra rientrare nel severo alveo della liturgia, con alcuni codicilli il sabato mattina, sempre in chiave misticomagica. I ragazzi, di buonora, erano mandati in chiesa a prendere l’acqua santa nuova da mettere nei “Santaróoi”, le piccole acquasantiere immancabili a fianco di ogni letto. Prima, però, se ne spruzzavano i pavimenti delle case in segno di buon augurio. Stesso significato scaramantico avevano i tizzoni prelevati dal fuoco sacro. In città, la benedizione del fonte e del fuoco erano prerogativa del vescovo e, a parteciparvi, era il clero. Ma il culmine della mattina si raggiungeva verso le undici, quando in chiesa si cantava il Gloria e i chierichetti sbatacchiavano a più non posso tutti i campanelli disponibili, mentre il sacrestano si attaccava alle campane. Il suono a distesa si spandeva a lungo nell’aria primaverile, e la gente accorreva a bagnarsi gli occhi con la prima acqua a portata di mano, tanto in quella mattina e in quel momento era considerata tutta quanta benedetta. In alcuni paesi racconta Luciano Dacquati “le mamme che avevano neonati uscivano con essi in strada, li prendevano per le manine e li facevano camminare al sole, convinte che così le gambe del piccolo si sarebbero rinforzate”. Così il Merula racconta ciò che nel ‘600 avveniva la domenica di Pasqua presso l’Oratorio a fianco della chiesa di S. Luca: “Contiguo alla Chiesa vi è un devoto Oratorio di Christo Signor nostro risorgente eretto nell’anno 1524 e è frequentato dalla moltitudine Cremonese per le molte gratie ricevute. Vi è in esso una fabrica ricca, che nella Natività, e Resurrettione di nostro Signore suole distribuire particolarmente abondanti elemosine à poveri di questo vicinato”.
Nelle foto: la pulizia del rosone della Cattedrale prima della Settima Santa in una foto di Ernesto Fazioli, la Crocifissione e la Deposizione del Pordenone e la Resurrezione di Bernardino Gatti in Cattedrale
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti