13 novembre 2025

Dopo l'Estate di San Martino, tradizioni e saperi dei santi dell'Inverno e dei Mercanti della neve

E’ passata l’Estate di San Martino, una delle ricorrenze più popolari tra le gente della campagna e del Po. L’autunno avanza a passi spediti e mentre la terra riposa in attesa di nuovi raccolti, l’aria profuma di funghi e di mosto, di castagne e di polenta, di arrosti e di sfoglie impastate e modellate da mani sapienti. Ancora, pur in tempi che cambiano, resistono, anche se a fatica, gli antichi saperi dei nostri nonni, di cui sono impregnati i muri delle vecchie cascine, delle case coloniche, dei fienili e delle stalle: oggi, purtroppo, in larga parte abbandonati e perduti. Quelle stalle in cui un tempo, come in un presepe, mentre fuori gelava e gli alberi venivano abbracciati dalla galaverna, la gente si radunava la sera per quattro chiacchiere o una partita di briscola, con un bicchiere di rosso dei vecchi filari in mano, raccontando una filastrocca o una vecchia fiaba, o intonando un canto popolare. Non esistevano i rotocalchi e gli architettati battibecchi televisivi, men che meno quelle facezie che oggi, con le immancabili ingelassigini da quattro soldi, vengono definiti reality show (ohibò). Era un tempo in cui c’era più solidarietà tra la gente, in cui amori e amicizie erano considerati sacri e la gente, nella più genuina semplicità, non aveva bisogno di indossare maschere né di farsi “dipingere” il corpo con quelle svariate “illustrazioni” che oggi sembrano essere irrinunciabili. Un tempo ormai andato, con valori e capisaldi che oggi dovrebbero costituire un patrimonio prezioso e indissolubile. Da conservare e tramandare, tenendo vive anche quelle tradizioni legate alle ricorrenze dei santi che si susseguono tra l’autunno e l’inverno. Una di queste è appunto quella di San Martino alla quale, di fatto, si fa corrispondere la fine dell’anno agricolo, quindi la conclusione del duro lavoro nei campi. La terra, accarezzata dalla nebbia, rinforzata dal gelo, si prepara  “riposare”, a vivere una nuova stagione, custodita, cullata e curata da coloro che, nei campi, ci passano la vita e le giornate. Sono, quelli di metà novembre, a ormai due passi dall’Avvento, i giorni in cui i contadini, dopo i mesi più caldi, per tradizione si preparano ad affrontare l’inverno, stappando magari in compagnia le prime bottiglie di vino novello (del resto un antico proverbio recita che “per San Martino ogni mosto diventa vino"), riempiendosi la pancia anche di castagne e carne alla brace. Per gli agricoltori la festa di san Martino ha sempre avuto  un’importanza del tutto notevole, trattandosi del tempo in cui venivano rinnovati i contratti agricoli annuali e da qui nasce il detto molto diffuso di “fare San Martino”, cioè di traslocare. L’anno lavorativo degli agricoltori termina tradizionalmente agli inizi di novembre, dopo la semina. Se il proprietario dei terreni, però, non rinnova il contratto per l’anno successivo, il contadino è costretto a trovare un nuovo impiego altrove, presso un’altra cascina. Indimenticabili restano i ricordi di faticosi traslochi di intere famiglie che caricavano “armi e bagagli” sui carretti spostandosi da un podere all’altro. 

La ricorrenza di San Martino, di fatto, “apre le porte” ad una serie di festività molto sentite e tradizionali tra la gente delle nostre campagne. Infatti, mentre il sonno della fertile terra, di qua e di là dal fiume, si fa largo e, dopo l’Estate di San Martino, il freddo dà vita, di anno in anno, ad un bianco incantesimo, per le terre di pianura si aprono tempi in cui rivivono tradizioni e folclore, misteri e leggende, che immergono le loro radici nella sapienza popolare. Tra le leggende, una delle più antiche, è quella dei cosiddetti “Santi mercanti della neve”; definizione, questa, che deriva dal fatto che le ricorrenze cadrebbero nei giorni più nevosi dell’anno, ma anche in quelli che aprono le porte ad un primissimo e leggero spiraglio di primavera. Tra i “Mercanti della neve” (anche se la neve non la si vede da un po’, ma un tempo era frequente e talvolta abbondante), Santa Caterina (col detto “Per Santa Caterina le vacche in stalla”), che cade il 22 novembre, ed è uno dei primi che di fatto segnano l’inizio dell’Avvento”. Addentrandosi verso l’inverno i mercanti della neve sono Sant’Andrea (30 novembre), Sant’Ambrogio (7 dicembre), l’Immacolata (8 dicembre). Passato poi il tempo delle festività natalizie, ecco Sant’Ilario (13 gennaio); San Mauro (15 gennaio) col detto “San Màur, un frad dal diaul”; Sant’Antonio Abate (17 gennaio), col motto “Sant Antoni, un frad dal demòni” e San Sebastiano (20 gennaio) con i detti “San Sebastian, un frad da can” e “San Sebastian, un’ura in man””. Quest’ultimo, secondo la tradizione popolare ha “la viola in mano”, come a voler indicare l’intravedersi dei primissimi segni della primavera (con uno dei fiori che maggiormente la simboleggiano). Stando sempre alle tradizioni dei nostri vecchi, si dice che per San Sebastiano le galline ricomincino a deporre le uova mentre per Sant’Agnese (21 gennaio), annoverata come Sant’Antonio e San Mauro tra i “Mercanti della neve”, il freddo è per le siepi e per San Vincenzo (22 gennaio) l’inverno mette i denti. Per Sant’Emerenziana (23 gennaio) se non piove il grano è a rischio e per San Francesco di Sales e san Feliciano (24 gennaio) se non piove fa poco grano. Tanto per restare in tema meteorologico, il 25 gennaio, per la Conversione di San Paolo, se è sereno ci saranno buoni raccolti; se piove o nevica ci sarà la carestia; in caso di nebbia sarà l’annuncio, purtroppo, di una moria di animali e se ci sarà la tempesta, addirittura, sarà annunciatrice di una guerra tra i popoli. In Febbraio ecco arrivare, il 2, la festa della Candelora (la Presentazione di Gesù al Tempio), evento che si ritenga segni, per lo più, la fine dell’inverno Dal punto di vita pagano la Candelora ha a che vedere con la purificazione e con i riti propiziatori per la fertilità della terra e rientra a pieno titolo tra gli otto Sabba (Shamain, Yule, Imbolc, Oestara, Beltane, Litha, Lammas e Mabon) che sono le principali festività del nostro calendario in cui vengono celebrati i solstizi, gli equinozi e altre ricorrenze legate alla Natura (a cui si sovrappongono le festività “religiose”). La Candelora è festeggiata il 2 febbraio, proprio perché, in base al calendario astronomico, questo è il giorno che fa finire l’inverno e che inaugura la primavera. E’ quindi un momento di passaggio, tra l’inverno/buio/”morte” e la primavera/luce/risveglio. Un celebre proverbio dice “Candelora dell’inverno semo fora”, ossia il 2 febbraio l’inverno può considerarsi finito. Il proverbio però continua “Ma se piove e tira vento, dell’inverno semo dentro”, vale a dire che se il 2 febbraio il tempo è brutto, l’inverno durerà almeno un altro mese. In questo senso la Candelora è anche legata ad alcune feste di origine agreste, in molti Paesi europei, infatti, si cucinano piatti specifici, che vengono offerti alla natura o alle fate, come in Francia. Il primo antichissimo proverbio latino sulla Candelora dice: “Si Purificatio nivibus – Pasqua floribus Si Purificatio floribus . Pasqua nivibus”. Significa cioè che se il 2 febbraio è freddo e nevoso, la Pasqua sarà bella. Se invece il 2 febbraio fa bel tempo, a Pasqua nevicherà. Quella della Candelora, meglio conosciuta, sull’una e sull’altra riva del Po come la “Sarjòla” è da sempre un appuntamento molto sentito nelle nostre campagne, come lo è quello del 17 gennaio con Sant’Antonio Abate, patrono degli animali. E’ sempre stata convinzione diffusa, tornando alla Candelora, il fatto che la candela ricevuta dal sacerdote, una volta portata a casa, possa esercitare benefici influssi contro le forze del male. Anche per questo la si è sempre utilizzata al capezzale dei moribondi, accendendola inoltre per la nascita di un bimbo. Ripetendo ed emulando il rito che si svolge in chiesa per la festa di San Biagio (3 febbraio), protettore della gola, il più anziano/a della famiglia, fin dai tempi antichi, incrociava due candele benedette, a digiuno, poggiandole all’altezza della gola di chi manifestava dolori, facendogliele baciare in segno di devozione. D’estate, in occasione di temporali, per evitare grandinate, inoltre si è sempre bruciato l’ulivo benedetto la Domenica delle Palme utilizzando la candela della “Sarjòla”. Ma anche le bestemmie sono sempre state “immunizzate” da eventuali epidemie con la stessa candela. Passata la ricorrenza della Candelora, il giorno seguente (3 febbraio) ecco un altro appuntamento legato ad un Santo tipicamente “invernale”, anche lui annoverato tra i “Mercanti della neve”: San Biagio, venerato tanto in Oriente quanto in Occidente, ben popolare anche tra le due rive del Grande fiume. Popolarissimo e diffuso, per questa ricorrenza, è il rito della “benedizione della gola”, fatta dai sacerdoti poggiandovi due candele incrociate oppure ungendola e facendo una croce con l’olio benedetto, sempre invocando la sua intercessione. Altra tradizione legata a questa ricorrenza è quella di mangiare il “panettone di San Biagio”. Per l’occasione, e per rispettare la ricorrenza, il panettone dovrebbe essere quello avanzato dopo le recenti festività natalizie. Due giorni più tardi, il 5 febbraio, la festa di Sant’Agata va, in qualche modo, a suggellare il “carnet” dei santi invernali e dei “mercanti della neve”.

Mentre il sonno della fertile terra padana si espande, tutte queste tradizioni possano vivere e rifiorire. I Santi dell’inverno, tra gelo e  nebbia, tra devozione e folclore, misteri e leggende, fede e identità popolare, possano accompagnare e illuminare giorni che, solo in apparenza, possono sembrare gelidi e bui. Siano “accolti” e festeggiati, questi santi, sull’una e sull’altra riva del Grande fiume, affinchè i loro esempi possano rifulgere nei nostri giorni, nel nostro agire, nelle nostre terre e nella nostra quotidianità di gente del Po. Lasciando perdere ed evitando inutili contaminazioni che arrivano da altri lidi e ci allontanano dai nostri saperi più tipici e più genuini.

Eremita del Po, autore di testi e foto

Paolo Panni


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