Spuntate per caso durante un trasloco da una scatola, dov'erano state catalogate con cura e legate con l'elastico accanto ad altri oggetti. Sono le struggenti lettere, un centinaio, che un soldato cremonese, Giuseppe Termenini, nato nel 1878 e morto nel 1917, mandò dal fronte delle Prima guerra mondiale. Compresa quella spedita la vigilia dell'assalto che gli costò la vita.
Un nuovo tassello della nostra memoria che ora andrà ad arricchire il prezioso patrimonio conservato all'Archivio di Stato.“Ho deciso di donare queste testimonianze perché mi sembra un dovere verso la collettività. Appartengono alla storia anche se sono una piccola storia. E' giusto che le future generazioni sappiano di quella tragedia e del sacrificio di quei giovani mandati allo sbaraglio”, dice il nipote Giuseppe Termenini (che porta lo stesso nome del nonno), ex insegnante, presidente onorario dell'Ordine provinciale dei chimici, appassionato d'arte.
Termenini senior era un abile marmista. Si sposò con Alessandrina, per lui e per tutti Drina, maestra elementare, nel 1905. Nello stesso anno la coppia emigrò negli Stati Uniti, a Barre (contea di Washington, nel Vermont), un paesino anonimo ma diventato improvvisamente famoso dopo la scoperta di un immenso deposito di granito, lungo 6,4 chilometri, largo 3,2 e profondo 16.
“Sul giornalino della scuola o della parrocchia, non ricordo bene, uscì un trafiletto con gli auguri per la nuova avventura”. Il nonno a scavare nelle cave, la nonna a insegnare ai bambini degli italiani. Sì, perché la notizia del rinvenimento del granito si era sparsa in tutto il mondo. A partire dalla fine dell'Ottocento, furono molti gli scalpellini lombardi, veneti e toscani che si misero in viaggio per portare oltre oceano la loro arte aggiungendosi ai colleghi scozzesi, spagnoli, scandinavi, libanesi e greci. Barre divenne una vera e propria città.
“Metà dei nostri connazionali erano anarchici e metà socialisti, compresa mia nonna, fedelissima di Bissolati: era lei la mente politica della famiglia. Poi, un anno prima dello scoppio della guerra, tornò in Italia con il marito, che poco dopo venne arruolato”.
Nel maggio 1917 il sergente del 248° Reggimento fanteria della Compagnia mitraglieri Fiat comincia a scrivere, con cadenza quasi quotidiana, alla moglie, che abitava in via Brescia, al civico 10. Corretto l'italiano del giovane militare, minuta la sua grafia.
Oltre alla “carissima Drina”, spesso il suo pensiero è per il figlio Oscar (nato in America, padre di Giuseppe e della sorella Rosandra) e alla figlia Saffo, che allora avevano rispettivamente 9 e 4 anni. “Sono le 4.35, ora della sveglia - fa sapere il 20 giugno -. Partiamo per l'istruzione della mitragliatrice, pensando a te, mio amore, e ai bambini”. Attraversata dall'apprensione la missiva dell'11 luglio: “Non siamo mai sicuri, da un momento all'altro può capitare una disgrazia, Mi prende sempre la paura nel sentire il rombo del cannone. Lo sento ogni momento, sia di giorno che di notte, specialmente quando sono in prima linea”.
Nella lettera del 17 agosto il soldato racconta di un suo concittadino, chiamato alle armi nonostante le drammatiche condizioni della sua famiglia. “Sono arrivati i complementi e fra essi un cremonese, un certo Giussani, che tiene un'osteria in porta Ladra (l'attuale via Manini, ndr). Un brav'uomo, mi è sempre vicino come un cagnolino. Tiene sua moglie all'ospedale, 4 bambini in casa, una sorella sorda, un fratello cieco. Ci confortiamo a vicenda”.
Nella cartolina del 21 agosto un sospiro di sollievo: “Sono in trincea e torno ora dalla linea. Sono salvo e sano. Anche questa volta andò bene”. Stessi sentimenti nelle righe di quattro giorni dopo. “Pure oggi la fortuna mi diede il bene di poterti mandare mie nuove. Bisogna dire così perché qui non si è sicuri della vita”. Note colorite di cronaca quotidiana al fronte nel messaggio degli inizi di settembre: “Pulizia generale e vestiti. Tutto nuovo da capo a piedi: parmi di essere rinato”. Ma, il 4 settembre, poche righe, le ultime: “Carissima Drina, saluti e baci. Bacioni alla mia Saffo e al mio Oscar. Al chiaro di luna ti bacio”.
“Il giorno seguente, il 5 settembre 1917, mio nonno venne ucciso sul monte san Gabriele, una collina dietro Gorizia, il perno della difesa austro-ungarica”, spiega il nipote, che conosce bene quei martoriati territori di confine.
Il sergente trentanovenne fu dapprima sepolto in un cimitero di guerra e poi traslato in quello di Cremona, nella tomba di famiglia, scolpita di nuovo dopo essere state danneggiata in un bombardamento durante la Seconda guerra mondiale.
“Dalle lettere esce uno spaccato sulla vita durissima in trincea, la contentezza per il pericolo scampato della battaglia, il dolore per la lontananza dalle persone amate - commenta il nipote dello scalpellino -. Sono anche un documento del sacrificio di soldati che probabilmente non capivano molto del perché stavano combattendo e che venivano usati come carne da cannone”.
A suo tempo Termenini ha firmato la petizione per cambiare, com'è accaduto in molte città, il nome di piazza Cadorna. “Le parole di mio nonno mi hanno rafforzato nella convinzione che intitolare al generale della disfatta di Caporetto un luogo pubblico significa disonorare la memoria di tanti uomini”. Ma quella richiesta è rimasta in un cassetto.
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