I traffici commerciali dei parenti del maestro Verdi sul Grande Fiume, fra tre provincie e due regioni. Una storia secolare vissuta tra le fortune e le sfortune dell'osteria Ongina
Ongina, piccola località oggi sotto la giurisdizione del Comune Parmense di Polesine Zibello, baluardo fluviale posto al confine fra tre province (Parma, Piacenza e Cremona) e due regioni (Emilia Romagna e Lombardia), è testimone tenace e preziosa di tutta una serie di storie legate ai traffici commerciali tra l’Emilia ed il Cremonese che coinvolgono anche, e direttamente, la famiglia del maestro Giuseppe Verdi. Ongina, va rimarcato, è ancora oggi sede di una osteria che è un caposaldo della cucina gastrofluviale ed è considerata parte integrante della frazione di Vidalenzo. Una località che, proprio grazie alla presenza del fiume Po e dello stesso torrente Ongina, ha visto svilupparsi nei secoli, non solo una osteria ma anche infrastrutture portuali che hanno sempre collegato le due sponde.
In passato l’osteria era una proprietà camerale e doveva rispondere principalmente alle necessità di ricoverare le merci e mettere a disposizione dei passeggeri alcuni locali, tra cui camere, magazzini, stalle e portici oltre a fienili. All’inizio del XVIII secolo, come si legge nel libro “Il nipote dell’oste” di don Amos Aimi e Angela Leandri dato alle stampe nel 1998 e da considerarsi a tutti gli effetti una “miniera” di informazioni storiche che riguardano non soltanto la famiglia Verdi ma l’intero territorio posto tra Bassa Emiliana e Bassa Cremonese, in seguito all’intensificarsi dei passaggi fluviali, sorse l’esigenza di aprire anche una bottega all’interno dell’osteria che era gestita da un gruppo di imprenditori della zona, tra i quali Vincenzo Verdi, avo del maestro Giuseppe Verdi (era esattamente fratello di Marc’Antonio Verdi, bisnonno del Cigno di Busseto). Erano tutti barcaioli e, a causa della loro attività e del loro impegno, suscitarono invidie da parte dei responsabili del vicino porto di Polesine.
Invidie sfociate in colpi di carte e notifiche. Vincenzo Verdi, oste dell’Ongina, è ricordato come uomo molto intraprendente ed abile negli affari, attento ai clienti, specie i più facoltosi, amico di uomini influenti e di preti, su tutti l’allora parroco di Sant’Agata don Girolamo Fava (classe 1721, guidò Sant’Agata dal 1749 al 1781 prima di essere trasferito a Spigarolo dove dal 1889 al 1896 fu poi parroco don Giovanni Avanzi, intimo amico di Giuseppe Verdi e delle sorelle Giuseppina e Barberina Strepponi). Tra i documenti dell’epoca se ne conserva uno, negli archivi, di cui si parla sempre nel volume “Il nipote dell’oste” di don Amos Aimi e Angela Leandri. Documento che rende conto di un tentativo di frode al Dazio proprio da parte di Vincenzo Verdi ed in cui si legge: “per una sella da cavallo, fornita con le sue staffe di ferro, staffili, borse d’avanti, pettorale, croppiera, cossino sotto alla detta croppiera, cingia e centurini di corame nero con bardella di vacchetta rossa con lavori puntati di bianco, e chiodine d’ottone con il sedile coperto di pelle gialla, copertina usata di panno verde, fodrata di tela pure usata, qualche tela al di dentro, quanto al di fuori, e tutta rimontata di nuovo”. Il 10 luglio 1763 le guardie della Ferma Generale effettuarono una precisa ispezione nell’osteria controllando anche le bollette dei pagamenti fatti di dazi “di molte robe venute da Cremona e da Pontremoli” e scoprirono una bella sella (quella descritta) per la quale Vincenzo Verdi non possedeva la bolletta del dazio versato.
Ecco allora che l’oste si inventò uno stratagemma riferendo alle guardie che la sella era del parroco di sant’Agata don Fava che aveva mandato la sella a Cremona per farla sistemare e che il sacerdote non poteva immaginare che per una cosa simile fosse necessaria la denuncia. La sella fu comunque portata alla dogana di Busseto alla quale il Verdi si rivolse per sapere se veramente era soggetta a pagamento del dazio e ribadì che l’oggetto apparteneva al parroco di Sant’Agata rimarcando che “un sellaro di Cremona” gliela aveva riconsegnata affinchè la restituisse poi all’arciprete. Gli fu quindi letta la “Grida per l’arte di pellizzari e guantari” che prevedeva il pagamento e la notificazione. In “aiuto” dell’oste e del prete intervenne anche un colonnello, rivendicando come propria la sella e sostenendo di aver incaricato don Fava di acquistarla a Cremona, con l’accordo di non procedere al pagamento.
Ma il doganiere, anche all’ufficiale, ribadì la grida e che quindi Verdi, omettendo la denuncia, aveva frodato il dazio. Il giorno seguente intervenne quindi lo stesso don Fava assicurando che la sella non era sua ma di un arciprete segretario del colonnello Odofredi di Cremona e che quel prete l’aveva consegnata a Verdi per affidarla al parroco di Sant’Agata. Nonostante questo i due non vennero creduti, nessun sacerdote cremonese si fece vivo e così la sella venne venduta all’asta e a Vincenzo Verdi furono inflitte “le pene comminate nelle Grida”. Dodici anni più tardi, nel 1775, l’osteria di Ongina venne subaffittata a Giuseppe Verdi. Ma come poteva essere possibile, si chiederanno i più, se il maestro è nato nel 1813? La risposta è semplice. Quel Giuseppe Verdi era il nonno del celeberrimo musicista e compositore. Gli venne subaffittata da Marco Levi, ebreo di Busseto con un contratto molto minuzioso ed in quel luogo il Verdi concentrò tutta la sua attività. Il nonno del maestro è ricordato come persona dotata di grande coraggio e forza d’animo, che cercò fortuna sul Grande fiume grazie ad un battello acquistato insieme ai nipoti Cristoforo e Francesco. Dovette anche affrontare importanti sfide a causa sia delle “minacce” delle acque del Po che per la difficoltà date dalla concorrenza, talvolta sleale, di altri lavoratori portuali.
Soprattutto fu costretto a rivolgersi alle autorità perché, a suo dire, il “portinaro” della vicina Soarza usciva spesso dalle sue acque territoriali andando a caricare e scaricare anche nelle acque del porto di Ongina. Per i traffici sul fiume era fondamentale la protezione del doganiere o del daziere che, in un piccolo centro come quello di Vidalenzo, era visto con sospetto. La sua era una professione tanto delicata quanto autorevole che gli permetteva anche di effettuare favori che potevano portate prestigio o comunque importanza alla sua famiglia. All’epoca avere una sedia personale o un banco in chiesa per la propria moglie era già qualcosa di importante, e il doganiere locale, Giuseppe Allegri, ci riuscì. Tornando alle vicende di Giuseppe Verdi (nonno del maestro) sul fiume, ecco che nel 1777 il suo battello proveniente dal porto di Ongina, in viaggio sul Po verso Parma carico di frumento e grani per il grande mercato della città ducale, all’altezza del porto di Sacca di Colorno ebbe una pesante collisine con una grossa barca del “portinaro” Matteo Pizzadini e di tal Lanzano.
A causa della violenza dell’urto il battello perse buona parte del suo carico nel fiume, si incurvò e subì pesanti danni con tanto di strascico giudiziario. In un solo colpo Verdi perse il battello ed il suo prezioso carico; un durissimo colpo per una famiglia che viveva comunque in povertà e pare che da quel momento l’oste abbia rinunciato ai suoi tradizionali traffici sul Grande fiume. Il capitale a sua disposizione, l’eccellente posizione dell’osteria, il carattere deciso, non diedero i frutti sperati nonostante l’osteria di Ongina fosse tra le più promettenti. Doveva purtroppo fare i conti, l’oste con uno Stato Borbonico in declino, dove una burocrazia complessa e inerte lasciava rovinare i beni camerali ed i lavori che il nonno di Verdi chiese evidenziandone la necessità, ma non andarono mai in porto. Verdi era un oste dotato di capacità e intraprendenza ma i risultati dell’osteria di Ongina furono per lui una delusione e anche il Po, che in passato gli era stato “amico” di fatto gli diede il colpo di grazia cambiando il proprio corso, abbandonando l’osteria tra banchi di sabbia finissima. Levi, affittuario dell’osteria, pressato da Verdi, nel 1780 ricorse alla Regia Amministrazione di Parma lamentandosi del fatto che l’osteria non dava profitto e chiedeva di sostenere l’interesse privato, altrimenti la Regia Amministrazione delle Finanze ne avrebbe risentito.
Rimarcava anche i problemi ed i disagi causati dal Grande fiume che aveva mutato il suo corso col risultato che, di fatto, il Po insabbiò il porto dell’Ongina e nel 1781 il nonno del maestro lasciò l’osteria di Ongina per quella della Roncole: la stessa in cui nel 1813 nacque il Cigno. I due non si conobbero mai; infatti il nonno del maestro morì improvvisamente, all’età di 50 anni, nel 1798, nei pressi del monastero dei Frati Minori Francescani di Busseto e le esequie furono celebrate dall’allora parroco di Roncole, don Giuseppe Mezzadri, nativo di Monticelli d’Ongina (fu anche parroco a San Giuliano Piacentino). Nel 1807 morì poi Francesca Bianchi (nonna del maestro Verdi) dopo una lunga malattia ed i funerali furono celebrati a Madonna Prati.
Va anche aggiunto che i Verdi, erano una famiglia di osti e molti membri della famiglia condussero osterie nelle terre bagnate da Ongina e Po. Sul finire del Settecento, al tramonto del governo borbonico, negli Stati Parmensi si viveva un periodo di grande povertà contrassegnato da violenza e per questo le autorità facevano in modo di controllare attentamente osterie e bettole considerate una delle cause dell’aggravarsi del malessere sociale della popolazione e anche per questo il duca Don Ferdinando di Borbone, attraverso il suo ministro Cesare Ventura, chiese una accurata indagine su tutto il territorio dell’allora diocesi di Borgo San Donnino (l’odierna Fidenza) con risultati che interessano, direttamente, anche la storia cremonese e dei territori immediatamente limitrofi.
Il vescovo fece sapere che a Monticelli d’Ongina vi era una sola osteria, situata sulla strada che da Cremona va a Piacenza, parte integrante del feudo Casali dove l’oste “non permette né strapazzi né disordini, tanto più che l’osteria viene frequentata da Birri, essendo di fronte alla Dogana. Per privilegio feudale - scrive ancora il vescovo - in tre Botteghe del paese si vende il vino a peso, ma stante la proibizione alli Bottegai, che non si possa bere ove si vende, non vi è mai timore di alcun pericolo. Al Castelletto, nel Rottino del Po, esiste un’Osteria di diritto feudale della casa Casali, essendo un sito in un luogo di mezzo, situato tra il Piacentino, Lodigiano e Cremonese, l’Osteria è molto pericolosa; e Paolo Papa, che è l’Oste, non ha troppo buon odore, e facilita molto a dare ricovero a vagabondi, a malviventi. Ad Olza Giovanni Piacentini è livellario con la Casa Casali dell’Osteria, situata in una strada poco lontana dalla Chiesa parrocchiale. Riguardo all’Oste e Osteria, non si può dire che bene. A Fogarole, a fronte dell’Oratorio delle Campagne, nella strada maestra che viene a Monticelli, vi è l’Osteria di ragione del Fondo Casali. L’Osteria è solo a comodo degli abitanti e serve di fomento agli stravizi ed è di danno al prossimo anco nello spirituale, perché in tempo dei divini Uffizi sta chiusa a una certa maniera che è sempre aperta. E l’Oste o che è in prigione o che è in cattura. L’Osteria di S.Pedretto – prosegue il prelato – è alquanto distante dalla Chiesa parrocchiale, situata in una strada Maestra che si dirama in diverse parti. E’ di ragione del Feudo Casali. L’Oste è di buoni costumi”.
Ed ecco quindi che spunta il nome di Bosco Parmigiano, oggi Bosco ex Parmigiano, in terra cremonese. “A Castelvetro – relaziona il vescovo - il sig. Marchese Capulati, quale feudatario delle tre Ville (Castelvetro, Croce e Bosco Parmigiano) ha per diritto le tre Osterie ivi esistenti. Presentemente la cosa cammina così: la vedova Lanzoni di buoni costumi con i suoi figli conduce l’Osteria saviamente. L’ubicazione dell’Osteria è su la piazza, poco distante dalla Chiesa Parrocchiale, la cui strada verso ponente s’insinua sulla strada che va a Piacenza, verso settentrione a Cremona e a levante va a terminare alla fronte di un picciolo argine che ripara l’escrescenza del Po’, a piedi del quale argine si rifugiano certi vagabondi a stare in allegria e il vino lo comprano nell’Osteria medesima”.
Ecco quindi la parte che riguarda più strettamente l’area cremonese, quella dell’odierna Bosco Ex Parmigiano. “L’Osteria del Bosco – spiega il vescovo – per lo passato non era di buon concetto. Sta in luogo di mezzo; le sue crisi le patisce in occorrenza che in tempo di buona stagione vanno a spasso i Cremonesi, perché siccome in Cremona il vino non è troppo buono ed è alto il prezzo, così bevono all’Osteria del Bosco, perché il vino è buono e a prezzo ordinario, poi essi eccedono nel bere e qualche volta nascono delle baruffe. L’Osteria è poco distante dal Po ed è frequentata da Forestieri di tutte le parti. A Croce, nella strada che conduce a Cremona, in qualche distanza dalla Chiesa parrocchiale, in una casa privata che non ha né figura né forma d’Osteria, vende il vino Giambattista Lanzoni, ed è uomo talmente savio e dabbene, e conduce il suo negozio con tanta prudenza che non si sa neppure da tutti che nella Villa della Croce si vende vino.
A S.Giuliano, poco lungi dalla Chiesa parrocchiale, si è un’Osteria di ragione del Fondo Casali, non serve per quei della Villa, è fuori di strada battuta, in oggi condotta da u Oste di cattivo nome. Le Osterie di Busseto, Soarza, Villanova, Vidalenzo Ongina, Polesine sono necessarie per il commercio del Po, essendo o presso li Porti o sulla strada di Cremona. L’Osteria di Cignano è inutile, perché è tra Villanova e Soarza, in distanza di un miglio l’una dall’altra” e la relazione prosegue poi indicando e illustrando le Osterie di parecchi altri centri posti tra la Bassa Piacentina e quella Parmense concludendosi con quella di Stano di Roccabianca dove si trovava una osteria “necessaria per quelle persone che tragittano dal Cremonese al Parmigiano e così viceversa”. Storie preziose, molte delle quali pressoché inedite, sapientemente recuperate e valorizzate da don Amos Aimi e da Angela Leandri, che forniscono preziosi tasselli legati al passato delle terre di Po.
Eremita del Po
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commenti
Benny
26 gennaio 2025 08:21
Completi, molto interessante!
Lilluccio Bartoli
26 gennaio 2025 08:25
Storie preziose altroché! Così come comprendere che frodare il fisco, il cui santo protettore è $an Gui$uga, è il vernacolare andàa dè sfrùus (e protegge pure San Tanché, cosi faccio la rima con storie preziose altroché). Questo articolo è una porta aperta sul retro del passato e descrive quel mondo microminuscolo che Guareschi, altro oste, muterà in mondo piccolo. Un grande!