2 gennaio 2023

Il 10 gennaio 1908 il consiglio comunale decretava la morte della città medievale, così 115 anni fa Cremona perdeva le sue mura

Il 10 gennaio 1908, 115 anni fa, prendeva avvìo la più grande rivoluzione urbanistica dell’era moderna, destinata a privare per sempre Cremona del suo aspetto di città fortificata ereditato dal Medioevo. La "Magna phaselus", il grande vascello di cui il castello di Santa Croce costituiva la poppa e lo sperone di Porta Mosa la prua con il Torrazzo a far da albero maestro, scompariva per sempre. Ne sono rimaste solo alcune vestigia, spesso confinate nell’oblio, minacciate dagli assalti della speculazione edilizia e dalle aggressioni della vegetazione. La morte della città medievale fu definitivamente decretata il 1 luglio 1908, quando entrò in vigore la riforme tributaria che, prevedendo la soppressione del regime di dazio chiuso, rendeva possibile l’abbattimento delle barriere daziarie e di conseguenze delle mura, edificate otto secoli prima, agli albori della civiltà comunale. La decisione di abbattere le mura e di conseguenza di eliminare il corpo delle guardie del dazio, venne al termine di lunghe e dibattute sedute del consiglio comunale e grazie alle vibranti arringhe dell’avvocato Luigi Marenghi, allora assessore alle finanze. Fu quasi drammatica quella del 10 gennaio 1908 quando l’assessore trovò dalla sua parte il sindaco Dario Ferrari e la maggioranza del consiglio, ma dovette fronteggiare l’agguerrita minoranza capeggiata dall’ingegnere Fortunato Fontana, sostenuta dalla parte conservatrice. L’avvocato Marenghi dimostra come dall’abolizione del "dazio murato" sarebbero derivati numerosi vantaggi: un alleggerimento effettivo del peso tributario imposto ai cittadini per il risparmio di una grossa somma nelle riscossioni. La diminuzione del carico dei consumi in misura assai sensibile e quindi sulle classi meno agiate con più equo e razionale riparto delle imposte comunali. Inoltre il pareggiamento del sistema tributario della città rispetto ai sobborghi in quanto mentre si calcolava che ogni cittadino pagasse dentro le mura circa 28,60 lire, fuori ne pagava circa 13,80. Ne sarebbe derivato anche un grande sollievo per i cittadini non più costretti a subire alle barriere il grave disagio della libertà e dignità di ciascuno con perquisizioni continue che accompagnavano questa forma di tassazione. Vi sarebbe stato il miglioramento delle condizioni igieniche di taluni quartieri della città ai quali l’abbattimento delle mura avrebbe dato più aria, luce, possibilità di movimento. Sarebbe aumentato il valore di tutti i terreni e fabbricati esterni adiacenti alle mura con evidente impulso allo sviluppo dell’edilizia e sarebbe stato soppresso un inceppante ostacolo al libero e attivo movimento commerciale, non solo con togliere il balzello a tutte le merci destinate ad entrare in città, ma anche con l’apertura di nuove vie che avrebbero permesso alla città di espandersi e ai cittadini di comunicare più agevolmente tra loro, più rapidamente e senza perdita di tempo. Poche furono le obiezioni. La prima che, trasformandosi il comune chiuso in comune aperto, il dazio sul vino, che era uno dei cespiti più importanti, dovendosi esigere sulla minuta vendita, avrebbe maggiormente gravato sulle classi più povere, potendo le classi ricche approvvigionarsi all’ingrosso, e per questo si suggerì la costituzione di cooperative di consumo. La seconda che si sarebbe dovuto alzare la tassa di famiglia, quella sugli esercizi, quella sulla sovrimposta fondiaria, ma del resto il continuo aggravarsi del dazio lo aveva reso così impopolare che non vi era forse nulla di più accetto e popolare per i cittadini che discutere della sua abolizione. A partire dal 1908 quindi il dazio sul vino (in città ne venivano introdotti circa 54.000 ettolitri) cominciò ad essere riscosso per abbonamento, in via normale, sulla vendita al minuto. Lo stesso valeva per l’alcool mentre per le carni si poneva solo un problema relativo ad un controllo di ordine igienico su quelle introdotte dagli esercenti forestieri. Si sarebbe dunque dovuto istituire un servizio di inquisizione sulle carni che comunque sarebbe stato un vantaggio per la popolazione che del resto già si esercitava in tutti i comuni italiani che già erano a regime di dazio aperto. Il dazio sull’energia elettrica, che dava comunque un gettito minimo, rispetto ad esempio al vino, non poneva problemi neppure aumentando il presso che sarebbe stato pagato dai consumatori. 

D’altronde la tassa sull’energia elettrica poteva risultare superflua in un Comune in cui era quasi completamente monopolizzata dallo stesso, ma proprio per questa risultò opportuna perchè con essa si difendeva l’azienda comunale dalle possibilità di concorrenza provata e inoltre perchè sul dazio non si sarebbe pagata l’imposta di ricchezza mobile invece dovuta sui proventi d’officina. Il dazio sul foraggio, infine, sarebbe stato riscosso mediante una tassa annua fissa per ogni capo delle varie specie di equini (40 lire per ciascuno dei 1050 cavalli presenti in città, 10 per gli asini e i 35 muli e altrettanto per i 258 cavalli appartenenti ad agricoltori e carrettieri). 

Il Comune aveva istituito il dazio già nel 1864 creando un corpo militarizzato costituito da 20 impiegati, 44 agenti ed un comandante. Avevano la loro caserma in via Volturno, allora chiamata "pisacan", ed una loro divisa in panno nero con mostrine verdi. Sottostavano ad un rigido regolamento: non potevano sposarsi, ad esempio, se non quando avessero raggiunto un determinato grado o anzianità di servizio potendo così garantire il sostentamento della famiglia e solo con il permesso del sindaco. Il loro compito non era del tutto facile: vigilare giorno e notte lungo le mura e all’interno della città perchè nulla vi entrasse di quanto era soggetto a dazio senza che fosse pagata la relativa imposta. Era una interminabile partita che si giocava d’astuzia e furbizia da una parte come dall’altra perchè la soddisfazione di spuntarla e di farla in barba agli agenti era spesso ben superiore alla modica cifra che da questi era richiesta. Così si ricorreva ai trucchi e alle trovate più ingegnose pur di riuscire ad entrare con un fagotto clandestino, un pezzo di carne, un salame o un litro di vino nascosti sotto le ampie sottane o celati da un pesante tabarro. Le guardie montavano di servizio alle 18 di ogni giorno e smontavano dopo 24 ore per un giorno intero di riposo. A quest’ora quattro drappelli costituiti ciascuno da cinque uomini e un graduato, tutti armati di moschetto, partivano dalla caserma per dirigersi verso ciascuna delle porte al cui servizio erano destinati: porta Venezia, porta San Luca, Porta Po e porta Mosa. Qui davano il cambio ai colleghi che erano montati il giorno precedente e che ora si concedevano il giorno intero di riposo. 

Non era compito facile quello delle guardie, specie quando calavano le ombre e si chiudevano le porte della città. Le pattuglie percorrevano allora i bastioni: lunghi tratti che, nelle notti d’inverno, con la neve, la pioggia e più spesso la nebbia che sfumava i contorni e avvolgeva tutto nella più fitta e lattiginosa oscurità, dovevano sorvegliare affinchè i contrabbandieri non facessero passare le loro merci aldiqua delle mura con lanci precisi, sfruttando i punti deboli della cinta e conoscendo l’orario dei passaggi dei dazieri, a chi, di soppiatto, li attendeva all’interno. Erano abbastanza lunghi i percorsi che le guardie dovevano compiere tra un garitta e l’altra e a dare un po’ di sollievo durante le gelide noti provvedevano alcuni bracieri di carbonella ardente che l’amministrazione faceva accendere quando il gelo era più intenso. 

All’inizio del secolo, però, ci si accorse che le entrate non coprivano quasi le spese per il mantenimento del corpo: il lavoro della guardie era si preciso e diligente, la loro esperienza era tale da riconoscere con una sola occhiata la contadina che tentava di nascondere tra le pieghe delle vesti troppo ampie un pollo o un cotechino, o i carrettieri che entravano coi loro carichi di foraggio, sotto cui si poteva nascondere chissà quale mercanzia. Una volta le guardie bloccarono un carro funebre e scoprirono che la cassa da morto era piena di bottiglie di vino ed un’altra ancora scoprirono che il furgone postale, abituato a passare senza l’ispezione, era sempre carico di zucchero e di caffè. Racconta Mario Levi in "Vecchia Cremona" che "un bel giorno, proveniente da Sesto, giunge davanti a Porta San Luca una di quelle ambulanze trainate da un bolso cavallino che in tanti ancora ricorderanno e che, quando le autolettighe erano sconosciute, trasportavano gli ammalati dal forese all’ospedale. Il malato era sul lettino: al suo fianco una donna si scioglieva in lacrime. La guardia di servizio si commuove: ’Ma è tanto grave?’. La donna non risponde. E la guardia impietosita, sale sul furgone e scopre il malato che è tutto avvolto nelle lenzuola. E non può trattenere una esclamazione di stupore: è un maiale di chissà quanti chili che tentavano di far passare di frodo". 

I cancelli alle porte venivano regolarmente riaperti al mattino quando in città cominciavano ad arrivare i carretti dei lattivendoli ed allora riprendeva la vita normale in città. Durante la giornata le guardie prestavano servizio presso le ricevitorie: due piccole stanze nei pressi delle porte che fungevano da ufficio e dentro le quali avvenivano le ispezioni alle persone sospette che entravano in città. Erano le stesse stanzette che, durante l’epidemia di colera scoppiata nel 1882 erano adibite alla disinfezione: un po’ di creolina sparsa sul pavimento sopra la quale venivano fatti passare i viandanti e i cui effluvi avrebbero dovuto evitare il contagio. Ad ogni ricevitoria era pure addetta una donna, scelta tra quelle che abitavano nelle vicinanze. Quando qualche signora era sospetta di portare qualcosa con sè soggetto al dazio, la guardiana veniva chiamata, ma erano casi assolutamente eccezionali che si verificarono pochissime volte. Poi, intorno al 1907, in Comune si cominciò a parlare di soppressione della cinta daziaria. Di lì a poco sarebbero scomparse quasi completamente le mura, le porte, le garitte e quei sontuosi viali alberati da platani secolari che correvano sui bastioni e che erano stati la meta e la palestra non solo delle passeggiate dei cremonesi nelle giornate di festa, ma pure dei primi ciclisti, dei primi pattinatori e soprattutto degli innamorati che nelle notti di luna si fermavano sulle panchine. Sarebbe scomparso per sempre un mondo, una parte importante della città e della sua storia plurisecolare. 

Quando il comune decise l’abbattimento dei dazi e delle mura ponendo in congedo sia le guardie che gli impiegati la città si trovò sollevata da quel balzello. Le mura possenti circondavano completamente il centro abitato e i contatti con l’esterno potevano avvenire soltanto attraverso quattro varchi. Spesso, per recarsi in un luogo distante non più di cinquanta metri in linea d’aria si poteva esser costretti a percorrere almeno un paio di chilometri. I funerali, ad esempio, per raggiungere il cimitero erano sempre costretti ad uscire di città a Porta Venezia o a porta San Luca. Più che l’abolizione e la conseguente ristrutturazione dei dazi, provocò dunque contrasti e opposizioni la decisione di abbattere la cinta muraria. Buona parte della parte conservatrice si sollevò vedendo in questo una profanazione dei valori storici e morali della città che da quelle mura era stata protetta per secoli. Partì anche una dura campagna di stampa che però non ottenne risultato alcuno e solo alla fine dei lavori, quando si poterono sperimentare i risultati, tutti dovettero ammettere la giustezza della decisione anche se oggi, a distanza di un secolo, dobbiamo lamentare che probabilmente qualche tratto, tra i più belli ed affascinanti, avrebbe dovuto essere mantenuto. I lavori di abbattimento si protrassero per due anni dando lavoro ad un numero imprecisato di muratori impegnati in un compito non del tutto facile. Si trattava di abbattere una muragli lunga circa cinque chilometri, alta spesso sei metri e dello spessore che variava dai 250 ai 50 centimetri, Ci si accorse durante l’abbattimento che le mura erano state costruite secondo i dettami della più moderna architettura militare, con materiali di prim’ordine, mattoni di qualità e malte efficacissime. Presto ci si accorse dunque che affidandosi alla sola forza delle braccia dei lavoratori sarebbero stati necessari parecchi anni di lavoro per spianare le mura. Si ricorse allora alla dinamite. Le mine, in serie, venivano fatte brillare una volta al giorno all’ora prestabilita, le 16,30 e costituirono per mesi il divertimento preferito dei ragazzi che uscivano dalla scuola, che accorrevano ogni giorni ad assistere allo spettacolo. A preparare i cartocci contenenti l’esplosivo, preparare le micce, disporne la posizione dei fornelli e la profondità provvedevano gli artificieri del IV Reggimento artiglieria di stanza a Cremona. Quando tutto era pronto, entrava in azione il trombettiere che con tre squilli di tromba dava il segnale. Soldati e vigili urbani provvedevano a sgomberare la zona e ad allontanare le piccole folle di ragazzi e curiosi, poi sventolavano bandierine rosse che segnalavano d’esser pronti. Il momento più delicato dell’operazione era affidato ancora ad un artificiere (in città lo chiamavano Pietro Micca) che con una torcia a vento provvedeva ad accendere una dopo l’altra tutte le micce. Da lontano tutti seguivano allora il leggero fumo biancastro delle micce che si avvicinava al muro e, dopo qualche secondo, il lampo accecante e il cupo rimbombo degli scoppi in successione. Caddero anche le quattro porte monumentali che ormai, con l’abolizione dei dazi, non avevano più ragione di esistere e parevano un intralcio al traffico, pur esiguo, di quegli anni. A giugno, di esse esisteva nient’altro che il ricordo. 

 

Fabrizio Loffi


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commenti


François

2 gennaio 2023 20:58

I rozzi di allora demolivano, quelli odierni innalzano i totem.