Il Cambonino nato come modello di quartiere periferico. C'era tutto. Negozi, servizi, partito, oratorio. E soprattutto la sua gente
Quattro decenni fa il quartiere Cambonino era nel pieno della sua espansione. Come moltissime altre zone periferiche italiane, era stato dotato, in questo caso in modo egregio, di tutti i luoghi in grado di permettere la vita quotidiana e sociale: scuola materna ed elementare (allora era una zona abitata da coppie giovani e i bambini abbondavano), chiesa, oratorio, palestra, sede di quartiere, farmacia, bar, giornalaio e cartoleria, parrucchieri per donne e uomini, tabaccheria, negozi, fra cui un piccolo ma completo supermercato, con una ottima macelleria organizzata dal gentilissimo Luigi… E c’era anche la sezione del PCI, ben frequentata, munita di biblioteca, che d’estate organizzava anche una popolarissima Festa dell’Unità.
Non c’erano fabbriche, industrie: svolgeva solo una funzione abitativa, concentrando grandi caseggiati popolari dell’edilizia pubblica e conformi ai suoi standard, edifici di varia dimensione creati da cooperative, nonché classiche villette unifamiliari. I suoi luoghi, pubblici e commerciali, offrivano varie occasioni di incontro e di socializzazione. Inoltre, si poteva godere di ampi spazi verdi, che per fortuna esistono anche oggi. Alla fine degli anni 70, entra in attività il Museo della civiltà contadina, allestito nella suggestiva cascina “Cambonino Vecchio”, che ricostruisce ambienti rurali e di lavoro con documenti di vita contadina a cavallo tra ’800 e ’900 e ospita associazioni che si riferiscono a quella cultura e modalità di vita. Un luogo che, grazie ai suoi operatori e animatori, svolge anche oggi una feconda funzione
Questo modello di quartiere periferico non è più propulsivo nelle città italiane, per varie ragioni oggettive che qui è impossibile illustrare. Anche luoghi e spazi ben predisposti per le relazioni e la socializzazione realizzano solo parzialmente i compiti previsti.
Fra questi luoghi, ovviamente alcuni, come la chiesa (con i suoi sacerdoti più memorabili, dal carissimo Mario Binotto a Giancarlo Perego, ora arcivescovo di Ferrara, fino a Giovanni Fiocchi, poi missionario in Albania) e la scuola (in quegli anni protagonista di originali esperienze didattiche) hanno svolto una ruolo di gran lunga fondamentale negli incontri interpersonali. Ma desidero fare cenno a quei luoghi molto condivisi (prima della nascita dei supermercati e dei grandi centri commerciali) che sono stati i piccoli negozi. Che a quel tempo erano di più e maggiormente frequentati di oggi. E tra questi, importante è stata la panetteria di Ermanno Generali. E non solo per i prodotti che commerciava, in quel tempo di larghissimo consumo, ma anche per l’atmosfera che la caratterizzava: Ermanno e la sua dolce e gentilissima moglie Gianna garantivano familiarità, fiducia e accoglienza, e offrivano anche quell’atmosfera che un tempo caratterizzava la miglior comunicazione tra le persone.
Che cosa rende per me unica e inconfondibile l’immagine del quartiere Cambonino? La risposta mi è chiara: perché è stata costruita, e ancor oggi si viene ricostruendo nella mia mente, attraverso ricordi e racconti di persone concrete, creati dalle loro comunicazioni voce a voce, faccia a faccia. Si chiacchierava, si spettegolava, ci si scambiava informazioni sulla propria e altrui storia di vita, quella del presente e quella di un tempo. E in questa pratica, indimenticabile è per me la figura di Ermanno, con la sua capacità di raccontare e di affabulare.
Ciò che sostanzialmente ci accomunava è l’essere cresciuti e continuare ad essere immersi nello stesso ambiente linguistico e narrativo: anche lui veniva da un paesino di campagna, nel quale il dialetto era stato custode della comunicazione e della narrazione orale.
Ovunque, mezzo secolo fa, si parlava prevalentemente in dialetto; e sicuramente, in tutti gli esercizi commerciali del Cambonino si ripresentava la stessa situazione narrativa e atmosfera psicologica della forneria: a partire dal negozio dell’attivissimo giornalaio Paolo, che ancora oggi è attivissimo e porta ancora a domicilio i giornali, fino all’ortofrutta delle cordiali e disponibili Nella e di sua figlia Lucia.
Non parlo più, e da molto tempo, in dialetto, né esalto, come non ho mai esaltato, la cultura, la morale e l’ideologia popolare, non certo prive di visuali ristrette, intolleranti, sessiste e razziste; tuttavia continuo a sentire dentro dime la sua connotazione espressiva che, anche inconsciamente, continua a connotare la mia inesauribile vena narrativa.
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commenti
Michele de Crecchio
14 maggio 2021 16:30
Bellissimo il ricordo dal mio amico Gianvi. Tra i parroci "pionieri" si è però dimenticato del dinamico "don Giosuè" che impegnava anche due miei ottimi allievi del miglioramento delle prime attrezzature dell'oratorio.
Roberta Marchiafava
14 maggio 2021 19:46
E il grandissimo Don Emilio Bellano dove lo mettiamo?
È stato il più grande, l unico in grandi dicoinvolgere ragazzini per toglierli dalla strada.
Successivamente direttore del Don Gnocchi di Milano, poi missionario in Brasile
Pietro
15 maggio 2021 08:43
Oggi, però purtroppo è un quartiere Ghetto
Maria Liliana Manfredini
15 maggio 2021 12:28
Ciao Gianvi!
Ti trovo in forma.
Anche la mia venuta a Cavatigozzi nel '76 ha avuto connotazioni simili a quelle che tu narri.
Ora, purtroppo, siamo sotto il fumo di ciminiere che non andavano piazzate qui, tra 2 realtà abitative, Cava e Spinadesco, che risentono anche di tutto il traffico stradale e ferroviario connesso alla acciaieria.😓
M. L. Manfredini
MARIO C.
15 maggio 2021 12:35
Grazie Gianvi, penso anche a nome di tutti gli abitanti che hanno a cuore il nostro quartiere e la nostra parrocchia.