Il maestro Borghi, “i masa Merlèen!, il dopoguerra, l'Arbiter. Racconti della vecchia Cremona
I giorni dell’insurrezione scorrevano portatori di avvenimenti e fatti che non si sarebbero mai più ripetuti, dei quali si parlò a lungo. Ci furono quelli alla “Caserma del Diavolo” e quello di piazza Marconi,al quale non assistetti direttamente grazie all’energico rifiuto della sarta del secondo piano, che mi tenne stretto un polso inchiodandomi fra il bar “Flora” e il negozio d’abbigliamento che fu del sig. Farina. Più avanti nel tempo sull’insegna di quel negozio comparve la dicitura “ARBITER” e quelli come noi ebbero bisogno di qualcuno che spiegasse loro il significato di quel nome. Nelle vetrine, con nomi stranieri, vennero esposti abiti e scarpe che anche nella foggia si discostavano dalla nostra tradizionale: “sono di taglio inglese” commentava chi di quelle cose ne sapeva.
Ma in quel giorno d’aprile dal crocicchio la gente correva in direzione della piazza e la notizia dell’evento che sarebbe successo circolava più o meno vivacemente: “i masa Merlèen!, i masa Merlèen”! Proveniente da piazza Cavour girò un auto con sulla capote, lo credo ancora, mi parve vi fosse sistemata una barella. La gente continuava a correre verso piazza Marconi trasmettendosi la notizia: “i masa Merlèen!”. Poi la direzione del correre cambiò improvvisa, la gente dalla piazza si riversò in quell’incrocio di strade disperdendosi e parve scappare spaventata. Poi fu la volta dei racconti: la posizione non eretta del capo… la mitraglia che s’inceppa… l’identità del partigiano al grilletto.. i nomi dei fascisti giustiziati dai nostri alla Caserma del Diavolo sgranati da un’ automobile munita di altoparlante…l’esortazione finale che sentivo per la prima volta: “Niente fiori ma opere di bene”.
Non so dire quanto furono lunghi i giorni di quel 25 aprile, certamente durarono fin oltre il primo maggio e quello di quel giorno fu il primo comizio al quale assistetti.
I comizianti parlarono alla gente, assiepata nella piazza, stando in alto sull’arengario alla base del quale stavano allineate in bella mostra, pronte alla consegna le mai obliterate ormai dismesse armi partigiane. Poi, chissà per volontà di chi, il primo maggio da festa dei lavoratori diventò festa del lavoro e la ricorrenza non venne più celebrata. Quelli come me rimasero senza la loro festa.
Riaprì il collegio e ricominciarono le scuole, noi ritrovammo la nostra aula al centro scolastico “Trento Trieste”, ma non il maestro Alessandro Borghi quello che con le braccia spalancate aveva impedito ai brigatisti neri di addentrarsi nell’aula all’oratorio di sant’Agata. Non rividi per i corridoi della scuola la maestra Marziano,mia insegnante l’anno precedente, conosciuta con il cognome del marito, uno dei fascisti fucilati dai nostri alla “caserma del diavolo”. La ricordo minuta e gentile, con i capelli, quasi biondi, raccolti in uno chignon contornato da una sottile treccia, severamente inflessibile con l’arrogante figlio Dante. Aveva per noi del collegio una attenzione particolare, ci difese dalle insolenze del figlio e lo redarguì aspramente davanti a tutta la classe imponendogli di chiederci scusa. Per alcuni giorni lo costrinse a mangiare la minestra della “refezione scolastica” che era stata l’oggetto della sua derisione nei nostri confronti.
Il nuovo maestro, quello che venne a sostituire il maestro Borghi, era basso di statura e aveva capelli neri e folti, abitava in piazza Fiume nelle case dei “ferrovieri”. Suo padre era stato uno di questi. Disse di essere conosciuto come “Nardo” ma che in realtà si chiamava “Comunardo”, nome con il quale, quando nacque, i suoi genitori vollero ricordare i comunardi della Parigi del 1871. I fascisti, per assonanza fonetica e, a loro dire, per ascendenza politica con i “comunisti di Stalin”, cancellarono quel nome anche dai registri dell’anagrafe con un tratto di penna il maestro ed altri come lui, da “Comunardo” divennero “Nardo”. Il maestro Comunardo Chiari, chissà perché e come risulta da un documento autografo custodito nell’archivio dell’ANPI cremonese, continuò anche da socialista a farsi chiamare “Nardo”. Il maestro ci parlò di partigiani dicendo di essere stato uno di loro, permise a noi quattro del collegio di cantare le canzoni partigiane che gli altri ragazzi non ancora sapevano ed erano quelle che Ezio ci aveva insegnato nel cortile dell’istituto. Noi intonammo quel canto che è espressamente ed unicamente indirizzato ai “figli dell’officina” ed ai “figlioli della terra”, un antico motivo di prima della guerra riscoperto in quei mesi di Liberazione, ed il fascino di quelle musicate parole mi riportava alle suggestioni dei canti anarchici che la sarta del secondo piano cantava quando ancora il cantarli era vietato. Io “a quei figli” e a "quei figlioli" mi sentivo istintivamente accomunato. La canzone ci diceva che la battaglia non era finita, parlava a noi di una imminente “ guerra proletaria”, che sarebbe stata “senza frontiera” alla fine della quale avremmo alzato al “vento bandiera rossa e nera” predisponendoci ad un compito per un futuro che era già cominciato. Poi fu la volta di “Fischia il Vento”, quella che il partigiano-scrittore di Alba definì "tremenda" ed ancora è la più bella canzone partigiana. Qui la bandiera da sventolare era solo “rossa” come la da conquistare “rossa primavera / dove sorge il sol dell’avvenir”. Quando avemmo finito il maestro obbiettò sui colori delle bandiere che a suo dire e a parere di altri che la pensavano come lui non dovevano essere colorate di solo rosso né di rosso-nero ma solamente “italiche”. Obbiettò anche sulla “rossa primavera” che nel canto doveva essere descritta “bella” e non “rossa” come l’avevamo cantata noi. Era già cominciata l’opera di obliterazione di una delle tre componenti fondamentali della “Resistenza”. Tentò di spiegarci il perché: forse capimmo o forse no, ma per almeno tre di noi quattro ragazzi del collegio quella bandiera e quella primavera, dove sperammo sempre di vedere sorgere “il sol dell’avvenir”, continuarono negli anni ad essere “rosse”.
Alla nostra domanda del perché dell’assenza del maestro Borghi ci venne detto che era stato assegnato ad altro incarico, forse negli uffici del provveditorato agli studi. Altri dicevano che il maestro Alessandro Borghi era incorso in un provvedimento amministrativo che si chiamava “epurazione”. Qualunque fosse stato il motivo di quel provvisorio allontanamento dall’insegnamento per me il maestro Alessandro Borghi rimase sempre quello di quel giorno, quando protesse i bambini che gli erano stati affidati ed impedì ai fascisti in divisa di entrare nell’aula. Passarono più di settanta anni e un giorno, sfogliando vecchi giornali che rinverdivano quei sempre più lontani non dimenticati giorni, lessi che il maestro Alessandro Borghi in una data che non ricordo era stato nominato vice provveditore agli studi. Fui contento della notizia ed anche del fatto che il maestro Comunardo ci disse la verità.
Negli anni cinquanta del secolo scorso il vecchio maestro lo vedevo spesso alla canottieri Baldesio. Il maestro Alessandro Borghi non si univa al gruppetto dei “littoriali” che certamente conosceva. Lui, il maestro, passeggiava sulla banchina che ancora sta fra il muro di recinzione dello chalet e l’acqua del fiume che adesso appare sprofondata. Alto ed elegante in classica grisaglia anche d’estate . MI sarebbe piaciuto fermarlo, presentarmi come ex scolaro, magari ricordandogli quel giorno che spinse fuori dall’aula della scuola i fascisti in divisa. Forse ne sarebbe stato contento. Quando lo vedevo passeggiare sempre dicevo a me stesso: domani lo fermo, domani gli parlo. Quel giorno fu sempre rimandato a quello successivo finché non ci fu più il tempo.
Lavavetri, la foto è di Ernesto Fazioli fotografo in Cremona
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commenti
claudio
26 agosto 2023 17:11
Sempre avvincenti i racconti del Signor Serventi!!!!!!! Leggendo sopra, mi rammarico di una sola cosa: l'aver cambiato il nome dello stabile di Via Santa Maria in Betlem, da " Caserma del Diavolo" in "Quarter Novo" come se fosse una vergogna il precedente nome!
michele de crecchio
26 agosto 2023 23:46
Condivido il giudizio positivo di Claudio sulle memorie, sempre suggestive, di Ennio Serventi. Quanto alla vexata quaestio della denominazione originaria della cosiddetta "Caserma del Diavolo, non disponendo, al momento in cui scrivo, dei non pochi . anche se non esaustivi, testi già scritti in argomento, mi limito a precisare quanto è custodito nella mia ancora (mi illudo) discreta memoria. Il termine "caserma del Diavolo" credo fosse un "nomignolo" di origine popolare, mai credo ufficializzato, che i residenti in zona avevano "affibbiato" al singolare complesso di due caserme che quasi si fronteggiavano sui due lati di Santa Maria in Betlem nei pressi di Porta Mosa. La costruzione più antica, derivata da un edificio nobiliare (almeno alcune sue pregevoli formelle di terracotta rinascimentale dovrebbero essere conservate presso il Civico Museo) era denominata "Caserma San Giorgio per la Cavalleria". La costruzione più recente, affacciata sui lato occidentale della stessa contrada, era detta "Quartier Novo per la Cavalleria". Negli ultimi mesi della seconda guerra mondiale credo siano accaduti in entrambi gli edifici episodi di particolare crudeltà che. probabilmente, contribuirono, nella memoria popolare, a rafforzare il soprannome "del Diavolo":
Nel secondo dopoguerra, il complesso più recente, ancora in discrete condizioni e ampliato, fu utilizzato per decenni per la manutenzione e il ricovero dei mezzi di trasporto pubblico urbano e allacciato alla rete filoviaria. Dismesso tale onorato servizio, divenne storicamente corretto "ripristinare" l'antico, anche se ormai caduto in disuso, toponimo di "quartier nuovo".
Il complesso più antico, assai peggio conservato, ebbe invece un destino tragico e degradanti destinazioni (vi venivano rinchiusi e soppressi persino gli animali girovaghi! ) Dovendosi costruire in zona costruire una scuola materna, ed essendo fortunatamente decaduta l'ipotesi, originariamente avanzata, di localizzarla nel bel mezzo del baluardo di porta Mosa, la nuova scuola fu pensata sul sedime, ormai in pessime condizioni, della vecchia caserma di Cavalleria. A memoria della vecchia struttura, il nuovo asilo fu. correttamente, intitolato, come la preesistente struttura, alla memoria di San Giorgio.
Ricordo di avere, a suo tempo, assistito, ad un breve colloquio tra due anziani e colti cremonesi (il prof. Giuseppe Casella e il filosofo Giulio Grasselli) entrambi di salde convinzioni antifasciste ed allora tra i pochi cittadini, che militando entrambi nella neonata associazione "Italia Nostra", si davano da fare per diffondere nella cittadinanza cremonese una maggiore attenzione per la tutela degli edifici antichi). Conoscendo entrambi la notevole sensibilità che il Sindaco di allora (Emilio Zanoni) nutriva anche lui per la tutela della vecchia città, giunsero alla conclusione che la decisione del buon Sindaco Zanoni (radere al suolo anche quel che restava della antica caserma fosse stata, in buona parte, anche determinata da una forma di "damnatio memoriae", per certi crudeli episodi che, nella "confusione" tragica di quei giorni, si erano probabilmente verificati dentro o nei pressi di tali edifici, così tragicamente consolidando l'antica infelice fama che da tempo li accompagnava.