13 gennaio 2024

La nostra storia. 1959, 65 anni fa, da Gussola con la corriera per venire a scuola a Cremona. Il juke box e il transistor

L’alba tardiva di Novembre diffondeva attraverso la nebbia, sempre presente in quella stagione, un chiarore mite e lattiginoso; ma tutto era intirizzito dal freddo e dall'umido; da qualche finestra lungo la strada principale del paese traspariva già dall’interno una luce trepida che rivelava l’inizio delle attività quotidiane con   l’accensione del fuoco nelle stufe economiche utilizzando le cortecce secche dei pioppi. Era l’ora che passava la “corriera” affollata di giovani studenti diretti dalla campagna alla città per frequentare i corsi scolastici dei non ancora numerosi istituti superiori.

L’autista  dell’autobus segnalava ampiamente col clacson a due toni il suo arrivo nella piazza del paese ed Egidio, strappato dal letto da pochi minuti, infilava il cappotto, agguantava il suo pacco di libri tenuti assieme da un elastico colorato, come era usanza, e si precipitava fuori di casa per salire ansimante sull’automezzo già in procinto di partire. Tra chiacchiericci e richiami il viaggio costituiva una gradevole occasione di ritrovo semovente per ragazzi, provenienti da paesetti sperduti, che altrimenti non si sarebbero mai né conosciuti né incontrati; durava circa un’ora attraverso la bruma sospesa sopra la campagna tutta brulla per il riposo invernale e dopo le fermate di San Martino, San Salvatore, Ognissanti, San Giacomo, San Savino, San Sigismondo e altri ancora si entrava in città, Cremona, dove il traffico, regolato dai vigili con divisa in panno nero, appariva già vivace. Alcuni ammiravano quelle poche decine di automobili benché si trattasse di utilitarie minute e con vernice opaca, come allora venivano prodotte. I palazzi nuovi della periferia si innalzavano «perfino» oltre al sesto o al settimo piano e spesso avevano numerosi balconi affacciati sulla strada; sotto gli alberi dei viali gli spazzini, che si spostavano con il loro triciclo corredato di bidone, ramazzavano lentamente le ultime foglie cadute dai rami quasi spogli. 

All’arrivo i ragazzi, scaricati dagli autobus appena sopraggiunti dalle varie zone della provincia, si affollavano per breve tempo sulla vasta piazza del capolinea e ben presto sciamavano in direzioni diverse secondo le scuole, senza trascurare di dare un’occhiata alle vetrine dei negozi piene di  luci. In esse le merci apparivano esposte con ben altra arte che in paese. I negozi di generi alimentari sembravano banchetti principeschi imbanditi per una festa regale; nelle vetrine sussiegose per abbigliamento gli abiti esposti erano accompagnati da una rivista patinata, aperta alla pagina che mostrava la rispondenza esatta con le mode più recenti; si capiva dove i più agiati del paese venivano a volte ad approvvigionarsi. Le cartolerie non vendevano solo giornali e quaderni, ma anche raffinati oggetti per scrivania: si scriveva ancora con la penna stilografica. Nella viuzza dietro le Poste, abbellite con grandi cancellate ottocentesche, Egidio,  per accedere alle sue aule, saliva un lungo scalone tanto grande quanto completamente disadorno; oltre l’ingresso la bidella, Giorgina dallo sguardo chiaro e mite, portava sempre sulle spalle uno scialletto bigio, ella arrotondava il magro stipendio vendendo agli studenti le focacce che teneva in una cesta di vimini custodita in una guardiola posta a metà del lungo corridoio su cui si aprivano le aule; il bidello, Vincenzo dal ciuffo di capelli biondi sulla fronte, non disdegnava le mance che inspiegabilmente, per Egidio, i figli dei notai e dei  dottori cittadini gli elargivano, in realtà essi si volevano garantire complici coperture per quando, stando nei servizi igienici, copiavano furtivamente le traduzioni durante le periodiche prove scritte da svolgere in aula. Sesto, l’assistente di laboratorio era sempre malinconico e schivo, vestiva un camice grigio e veniva talvolta trattato rumorosamente come zimbello dagli studenti più saputi e screanzati.

Gli insegnanti, «i professori», sempre in giacca e cravatta, usavano ancora affidare una gran mole di “compiti per casa” ; i figli dei notai e dei professionisti abitavano non molto distante dalla scuola, si scambiavano informazioni, tutti disponendo perfino del telefono; alle cinque  del pomeriggio avevano già terminato le loro attività scolastiche e dopo cena potevano anche guardare la televisione. Egidio arrivava a casa già stanco poco dopo le due, pranzava, dava uno sguardo sgomento ai compiti da fare, arrivava il buio della sera invernale ed era subito l’ora di cena. Poi doveva andare a letto presto in vista dell’alzata mattiniera del giorno dopo. Le materie di studio da considerare più importanti per Egidio erano: Italiano, Latino e Storia, lo incuriosivano molto però le scienze naturali e l’elettrofisica e ammirava un suo amico che già lavorava alla sua giovane età e che alla sera seguendo un nuovissimo corso per corrispondenza chiamato “Scuola Radio Elettra”,  armeggiava ingegnosamente con la corrente elettrica. 

Le poche lezioni riguardanti le materie scientifiche nella scuola di Egidio si svolgevano nell’apposita aula-laboratorio, era senza finestre e in essa una luce un po’ appassita veniva diffusa da  due grosse lampade industriali che pendevano dal soffitto. I banchi, fissati su gradoni in legno, dal fondo dell’aula scendevano verso la cattedra come in un piccolo anfiteatro; un tabellone ingiallito riportava la tavola degli elementi secondo Mendelejeff e occupava la parete alle spalle dell’insegnante; piastrelle in ceramica bianca, con commenti già tutti neri però, ricoprivano la cattedra dalla quale spuntavano a destra un piccolo bruciatore a gas e a sinistra una cannuccia con rubinetto per l’acqua; un lungo armadio a vetri che copriva tutta la parete di fronte all’ingresso metteva in bella mostra un gran numero di apparecchiature scientifiche un po’ primordiali, ma ben sagomate in legno, in vetro, in bakelite e paraffina; i conduttori elettrici erano isolati con seta sterlingata; le macchine elettrostatiche luccicavano ancora, ma le loro spazzoline in fili di rame, che dovevano strisciare sulle placchette metalliche incollate a raggiera sui dischi rotanti, in vetro un po' appannato, erano ossidate. Da alcuni vasi di cristallo penzolavano striscette di stagnola e le targhette riportavano la scritta:  ”Bottiglia di Leyda”. Non mancava  un dispositivo semplice, ma curioso, era realizzato con un bel blocco di legno biondo e ancora lucido di vernice: due coni uniti tramite la loro base si appoggiavano, orizzontalmente, sopra una coppia di guide che, da divaricate al centro, abbassandosi si congiungevano verso le estremità. Se si collocava il doppio cono sulla parte più bassa delle guide, esso inaspettatamente rotolava verso la parte più alta degli appoggi. In realtà in quello spostamento il doppio cono si abbassava, perché invece che appoggiare col centro, dove i diametri erano grandi, più in alto esso appoggiava con le estremità, dove i diametri erano minimi.  

L’insegnante di Fisica alta e magra era già anziana e portava un grembiule nero con collettino candito e inamidato, si preoccupava soprattutto di fornire alcune soluzioni applicabili ai problemi classici trattati, ma ciò ovviamente non poteva essere sufficiente per far comprendere completamente le proprietà distintive e caratteristiche dei fenomeni naturali. 

Nelle scuole, ancora vecchie, il riscaldamento nelle aule era ottenuto con stufe in laterizio rosso alimentate a gas metano. La fonte di calore veniva schermato da un paravento; durante una lezione nell'aula di Egidio qualcuno inavvertitamente lo fece cadere con gran fracasso e ne seguì un bel putiferio; l'insegnante presente era il professore di Religione, don Sansoni, il quale era anche l'organista del duomo di Cremona, un artista placido, paziente e accomodante, ma quella volta stranamente si infuriò e fece punire l'incauto sbadato. Nella mente a volte un poco distorta di alcuni di quegli adolescenti nacque allora un sentimento pungente come un desiderio di rivalsa: volevano far cadere di nuovo il paravento; però il colpevole non doveva essere scoperto. Nell'intervallo misero in bilico il paravento trattenuto da una cordicella, la cordicella era legata a un filo di ferro fissato a sua volta al bruciatore del gas all'interno della stufa, in modo tale che esso fosse lambito dal fuoco; ben presto il calore rosso trasmesso dal filo di ferro cominciò a consumare e a carbonizzare la corda la quale, spezzandosi, lasciò cadere rovinosamente il paravento con il fracasso già conosciuto. Nessuno si era mosso, ma il professore fece una nota collettiva di biasimo a tutta la classe. Gli emarginati di un gruppo hanno spesso una tendenza spontanea ad accomunarsi. Egidio non si sentiva per nulla emarginato, ma di fatto non era neppure integrato, perché i suoi rapporti con i compagni di classe si limitavano alle sole ore di lezione. Egli non aveva mai partecipato alle canzonature di Sesto, vedeva che l'assistente aveva un'ottima familiarità con gli strumenti scientifici del laboratorio, osservava con interesse le sue esibizioni durante le lezioni e avrebbe voluto cimentarcisi finché un giorno gli chiese: " Ma lei, Sesto, non riuscirebbe a farmi capire che cos'è la corrente elettrica?" "Non si dice: la corrente è, sentenziò Sesto, ma si dice: la corrente fa, così come quando parli della più familiare forza di gravità." 

L'alta tecnologia arrivava soprattutto dagli Stati Uniti d'America ed una delle sue espressioni più apprezzate era il juke-box, un contenitore ricco di cromature, il quale con una moneta da cento Lire consentiva una facile scelta per ascoltare qualcuna delle numerosissime canzonette allora in gran voga: quando si introduceva la moneta nella apposita fessurina e si premeva il pulsante in corrispondenza del titolo scelto, subito attraverso il vetro si vedeva un sontuoso ventaglio di dischi neri ruotare lentamente sotto il bagliore di lucine colorate e infine si diffondeva a beneficio di tutti i  presenti la musica desiderata; qualche vecchio brontolone nella sala di attesa della stazione degli autobus si lamentava per il volume  del suono troppo alto. Il silenzio era definitivamente rotto anche in paese, perché le stesse musiche e la medesima sarabanda di ritmi focosi riecheggiavano tra i muri dei viottoli per tutta la domenica pomeriggio, rendendo chiaramente distinguibili i giorni di festa da quelli lavorativi. Iniziava allora il gran commercio della musica incisa sui dischi in Vinile.  Le fisarmoniche e i clarinetti, che avevano già allietato le balere e i matrimoni cominciavano ad andare in declino insieme con i mobili in legno; i bar che volevano continuare ad attirare i giovani, cioè coloro che cominciavano ad avere la maggiore propensione a spendere, fecero a gara per arredare i loro locali con sedie leggere sorrette da sottili gambe in metallo cromato e con tavoli in Formica, la quale era una plastica abbastanza resistente prodotta in fogli robusti con colori fantasiosi; il colore del legno non piaceva più; in compenso un gusto che si stava diffondendo era quello della Cocacola. 

Nonostante il forte richiamo delle industrie cittadine molti contadini rimanevano ancora in paese per lavorare sulla loro terra. “Che piovesse, che nevicasse, che tempestasse” l'operaio delle fabbriche otteneva comunque immutato il suo  « ricavo» , il lavoro nei campi invece comportava rischi più numerosi che qualche anno prima. Lo poteva testimoniare il sensale, Bricér, in quella giornata di mercato quando tutti notarono che dietro gli occhiali scuri da sole egli aveva un occhio pesto, presentava anche vistosi graffi sul naso e un bel taglio sul labbro inferiore. Si venne a sapere che in quell'estate egli si recava in paesi abbastanza distanti per acquistare il fieno; si presentava con l'autocarro, faceva caricare e dava l'appuntamento alla pesa pubblica più vicina per il pagamento dopo la pesatura. Partiva il camion e il contadino seguiva più lentamente in bicicletta, ma, arrivato costui alla pesa, non incontrava più nessuno e si vedeva sfumare il pagamento tra sorde invettive e rabbiosi accidenti. A Bricér andò bene per alcune volte finché non gli capitò di trattare con una persona talmente diffidente  che si annotò di nascosto il numero di targa dell'automezzo, tutto ciò procurò al sensale un successivo incontro inopinato il quale gli causò quell'occhio nero che avrebbe preferito mantenere nascosto. 

Pure dal lontano e sconosciuto Giappone provenivano prodotti dell'inarrestabile progresso tecnologico, si trattava dei "transistor", cioè di piccolissimi apparecchi radiofonici portatili, a volte poco più grandi di un pacchetto di sigarette, i quali, crepidando e frusciando continuamente, trasmettevano con voce esile soprattutto resoconti di partite di calcio e notizie di cronache locali. (7-continua)   

Nella foto di Faliva, le corriere in piazza Marconi   

 

Giorgio Peri


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