19 gennaio 2025

La Sesta sinfonia di Mahler interpretata con fonicità smagliante dall'Orchestra Filarmonica della Scala ha inaugurato la stagione concertistica 2025 del Ponchielli

Ancora inebriati dagli ottanta minuti di suono massivo e scolpito dell’Orchestra Filarmonica della Scala guidata da Lorenzo Viotti, volati via in un soffio, e grati a un’illuminata direzione artistica per questa inaugurazione eccezionale della stagione concertistica 2025 del Ponchielli, proviamo a riportare negli angusti confini della bidimensionalità della prosa quello che è difficile descrivere a parole.

“La mia Sesta sinfonia porrà enigmi che potranno essere risolti solo da una generazione che abbia compreso e digerito le prime cinque”, scrive Mahler, e davvero non si può accostarsi a questa monumentale composizione senza avere contezza dell’universo sonoro che Mahler ha edificato nelle precedenti composizioni.

La Sesta Sinfonia, conosciuta come “Tragica”, appellativo non attribuito dall’autore, è tra le sinfonie di Mahler quella in cui i critici hanno ravvisato un più forte autobiografismo. Non si può prescindere dai dati biografici di Mahler, essendo la sua biografia quella stessa di un’intera società, per non dire di un’intera epoca. Di sé egli diceva: “sono tre volte senza patria: tedesco di fronte ai boemi, austriaco di fronte ai tedeschi, ebreo di fronte a tutto il mondo”. Il suo essere apolide, piccolo ebreo di umile estrazione sociale, è da tenere presente per trovare una via d’uscita tra i meandri della derivazione genetica dei temi, che si avviticchiano per filiazioni continue, partendo dalle Urzellen, cellule primigenie, secondo la definizione del compositore stesso, per descrivere l’idea che con inaudita estensione si sviluppa lungo i quattro movimenti, muovendo da lapidario ribattuto del La iniziale che tornerà a risuonare nell’ultimo movimento. Il legame fra i singoli temi si delinea con la presenza di minimi nuclei intervallari, perfettamente riconoscibili, che si riaffacciano nella trama sonora tra un tempo e l’altro. Tutti questi dati melodici, espansi come tali nelle incontenibili frasi, ovvero sovrapposti in polifonie estremamente complesse, riescono a reggere l'attenzione dell’ascoltatore da cima a fondo e non fanno pesare le superfetazioni della poetica mahleriana.

L’universo sonoro del compositore boemo in questa sinfonia ha un retrogusto spettrale anche negli episodi di apparente gaiezza, la memoria si sfilaccia e crea un mondo a tratti grottesco, che prolifera oltre ogni controllo razionale, una vertigine in cui l'armonia e la contraddizione hanno uguale peso. La sua trivialità presunta è derivazione diretta della formazione del compositore: i clichés che gli sono abituali, sigle, squilli militari (fra cui il soprassalto atroce degli ottoni, che tornano a trafiggerci nei punti cruciali) sono figli dei ricordi rimastigli addosso da quando, bambino, veniva abbandonato in un cortile di caserma dalla serva di casa, che vi si recava in cerca dei suoi soldatini. La loro vittoria è tutt'uno con la tecnica di variazione continua con cui si ripresentano: variazione come eterno ritorno, spirale del sempre diverso-sempre uguale, come metamorfosi dell’essere, trasfigurata dal timbro riecheggiante le bande di pifferi e tamburi che anticamente accompagnavano gli eserciti nelle campagne militari. 

Conosciamo gli argomenti dei detrattori del compositore boemo: gigantismo, enfasi trionfale, banalità tematica… una sopravvalutazione, insomma, del Nostro, nel giudizio negativo dei contemporanei ma anche delle innumerevoli voci critiche del Secondo Novecento.

Il sinfonismo classico-romantico andava liquidato e i grandi compositori fin de siècle lo fecero ognuno a suo modo: Mahler porta le forme preesistenti all’ipertrofia fino a farle scoppiare, e in questa sinfonia l’esplosione lascia la scena a una fiammella che si affievolisce fino ad estinguersi a poco a poco nel buio. 

È la suprema sconfitta che si erge profetica all’orizzonte, e conduce l’ignaro ascoltatore verso il baratro del vaticinio finale. 

Quando era bambino chiesero a Mahler cosa volesse fare da grande, ed egli rispose senza esitazioni: “il martire”

Sappiamo tutti come le sue tristi vicende biografiche abbiano confermato questa funesta aspirazione, e nella magnifica interpretazione di questa sera la martellante marcia che apre la sinfonia ha reso concreta la tragedia che presto si sarebbe consumata nella vita del compositore: la morte della figlia per difterite a soli cinque anni.

La massa sonora dell’imponente schieramento orchestrale (l’organico di 102 elementi ha affollato splendidamente il palcoscenico del Ponchielli) ha affrontato con copiosità di suono gli ardui passaggi della partitura. La fisionomicità tagliente del rilievo sonoro richiesto dalla concertazione di Viotti ha contraddistinto il primo tema sul La ostinato dei bassi in contrapposizione con il liricissimo secondo tema (il famoso “tema di Alma”), cesellato dalle sezioni di archi in stato di grazia.

Il giovane ma già maturo Maestro dirige senza bacchetta, dominando la scena con un gesto essenziale e perfettamente calibrato, che sa essere plastico e sensuale quando lo slancio melodico lo richiede ma anche puntuale nelle zone più delicate, puntillistiche e rarefatte della partitura; sempre eloquente e tridimensionale, sembra abbracciare con eleganza le masse orchestrali con fare autorevole ma mai autoritario: Viotti si fida della sua squadra, alterna momenti di vigorosa conduzione a spazi di quasi autarchia dell’orchestra in cui segue il dipanarsi del discorso musicale con l’occhio attento e amorevole di un padre per la sua prole. 

Gli spunti melodici utilizzati da Mahler sono oggetti di nostalgia, simboli di innocenza perduta e vagheggiata. L’orchestra esegue le melodie più intime con purezza semplice e cristallina, interpretando l’origine folklorica come proiettata al rallentatore, in un prisma di colori cangianti e plasmando i suoni con delicatezza intensa e straziante. Allo stesso modo padroneggia il dualismo nell’affrontare i passi in cui la sproporzione del dettato mahleriano costringe a spingere sulle dinamiche fino all’estremo parossismo. Mahler combatte la sua insicurezza facendo avanzare le armate degli sfavillanti ottoni e gli eccellenti professori scaligeri affrontano indomiti la pugna, armati ‘solo’ dei loro strumenti.

Un cupio dissolvi che è un tutt’uno con il carattere di Mahler, e di sicuro disturba tutti coloro la cui aspirazione è l’aurea mediocritas, ma non il giovane e valentissimo direttore Lorenzo Viotti, il cui gesto sarebbe stato sicuramente apprezzato da Gustav, che di sé era solito dire: “mi piacciono le persone che esagerano. Quelli che minimizzano non mi interessano”.

Viotti incarna il superuomo nietszchiano alla perfezione: star mediatica oltre che musicista poliedrico, si muove a suo agio nelle categorie insidiose della modernità. Rivendica audacemente la possibilità di essere musicista classico ma anche influencer, sportivo, modello e trend-setter, oltre che compagno e padre affettuoso.

Il fortunato connubio tra direttore e orchestra ha restituito dunque un Mahler profondo e sfaccettato, mostrando la filigrana della complessa partitura in tutti i suoi dettagli. Il suono dell’orchestra è stato sempre ben calibrato, mai fuori fuoco, e con assoluto equilibrio tra le sezioni, con esiti felicissimi nell’impasto timbrico più surreale, creato da Mahler con la sovrapposizione dei tremoli degli archi, la celesta, le arpe e il velluto dei legni. 

Mahler temeva la Maledizione della Nona, e, si dice, fu questo il motivo per cui tentò di ingannare il fato intitolando “Il canto della Terra” la sua nona sinfonia. Anche Schönberg scrisse: “è come se la Nona fosse un limite. Chi vuole superarlo deve morire”. In questa Sesta sinfonia il martello che affonda il suo colpo, “sordo nella risonanza, con un carattere non metallico, come la caduta di un’ascia”, come ci dice lo stesso Mahler, ci rammenta quanto fragile sia il nostro stare al mondo, e come l’essere umano, nonostante la strenua resistenza, venga infine spezzato come un albero dalle avversità.

Nonostante l’Amore che lenisce, rappresentato dal tema cruciforme dell’Andante, che disegna un abbraccio intorno all’eroe, nonostante il tepore della famiglia, di cui ascoltiamo il suono nei glissati delle cantilene delle bambine nello Scherzo, e nonostante il potere della Natura, che entra nella trama sonora attraverso il rintocco lontano dei campanacci, quasi onirici nel loro riecheggiare fuori scena, e che Mahler probabilmente udiva mentre si dedicava alla composizione rintanato nella sua Komponierhäuschen tra i boschi sulle rive del Wörthersee.

E d’un tratto ci rendiamo conto che il tanto vituperato gigantismo orchestrale imputato a Mahler è povera cosa a confronto con l’ambizione del compositore di racchiudere tra le poche righe di un pentagramma tutto quello che esiste al mondo: ribaltando il punto di vista ci accorgiamo che la mole della Tragica non è che una piccolissima miniatura, un bassorilievo intagliato in una gemma di cristallo da un virtuoso incisore, in cui l’ultimo bagliore della corazza dell’eroe risplende prima dell’inevitabile trionfo della morte.

Fermo immagine sull’interminabile attimo di silenzio perfetto del finale. Meritatissimi applausi.

Fotoservizio Gianpaolo Guarneri (FotoStudio B12)

Angela Alessi


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