3 agosto 2021

La storia di Libero Accini, il combattente per la libertà che non si riteneva migliore dei suoi nemici

Si può combattere, rischiare la morte, uccidere, essere imprigionati, torturati fino allo spasimo, e tuttavia non sentirsi migliore dei propri nemici? Molto difficile, ma ad alcuni riesce, come ad esempio a Libero Accini, tenente di vascello della Regia Marina, corrispondente di guerra sulle navi italiane nel Canale di Sicilia, poi impegnato nella Resistenza in Liguria, tradito, imprigionato e infine inviato nei campi di sterminio. Salvo per miracolo. Una storia unica, la sua.

Per capirla, occorre recuperare il molteplice nel racconto degli eventi storici, ascoltando le testimonianze dei singoli, nella loro individualità. Il discorso globale, a volte, può trarre in inganno noi, che siamo lontani dal quel mondo. Come scrisse Ludovico Terzi, molti “si sono fatti un'idea un po' schematica delle cose che non hanno vissuto e fanno fatica a immaginare che nella vita quotidiana guerra e pace, violenza omicida e convivenza umana possono essere profondamente intrecciate come spesso sono”. Solo così si arriva a comprendere un testo storico-giornalistico-testimoniale come Organizzazione Bianco (ed. Mursia, 2018), di Libero Accini, nato a Piubega (MN) nel 1905, poi vissuto a Isola Dovarese (CR), dove morì nel 1975, che narra una vicenda per molti aspetti inaspettata. Testimonia su quanto fossero incerte le scelte, i passaggi, di tutti i protagonisti, quanto sottile la linea di separazione tra eroismo e opportunismo, tra coerenza e tradimento, tra amici e nemici. Dalle sue pagine autobiografiche si delinea la vita di “eroe anti-eroe”. In quel terribile ed esaltante 1943 molteplici furono le modalità per rifiutare il Fascismo, molte le forme di lotta e opposizione. Tra cui quella di Libero.

Ne La rotta della morte. Canale di Sicilia 1942-43, narra la sua partecipazione alle operazioni della marina italiana nel Mediterraneo e nell'Atlantico. Gli Inglesi possedevano il radar, così per le navi italiane che dovevano rifornire le truppe in Africa settentrionale, ogni viaggio era veramente una “rotta della morte”. Subisce tre naufragi, viene ferito. Come giornalista, pur nel suo pessimismo di fondo, descrive uomini e soldati delusi, non più abbagliati dalla promesse di immancabili trionfi ventilati dal Regime. Combattenti italiani sempre disposti a misurarsi in prima persona, al sacrificio, al dovere: sempre solidali tra loro, anche col nemico stesso, quando le circostanze lo consentivano.

Partecipa poi alle giornate di Napoli (27-30 settembre 1943), e impara dagli scugnizzi l'arte della guerriglia con attacchi rapidi e veloci fughe in piccoli gruppi, operando con improvvisazione e inventiva. Entrato in contatto con i Comandi inglesi, viene addestrato per un delicatissimo compito: verificare la possibilità di collaborazione con i gruppi partigiani liguri per un possibile sbarco alleato. In un verbale del CLN per la Liguria, del luglio 1944, si legge: “E’ pure presente un partigiano venuto dall’Italia meridionale e sceso in Liguria con il paracadute”. Il verbale prosegue: “fa voti perché il Comitato faccia tutto il possibile per mantenere la più rigorosa unità fra tutte le formazioni di partigiani, indipendentemente e al di sopra degli interessi di partito”. Nasce così la Organizzazione Bianco, una formazione autonoma, non facente capo ad un particolare schieramento politico. Qui si rende conto che le formazioni partigiane, organizzate con criteri militari adatte ad un esercito ben armato, non erano sufficientemente addestrate per agili azioni di guerriglia. Resta un attestato del 14 settembre 1945, del Comando inglese in Italia, che lo ringrazia su come ha svolto la “missione speciale” in Liguria a lui affidata: “Dovrebbe esserLe  di grande orgoglio il sapere che il Suo coraggio rimarrà sempre d’esempio ai popoli del mondo amanti della libertà e che la Sua opera ha recato un contributo generosissimo alla liberazione del Suo paese ”.

In Liguria si fa chiamare Bianco Sarni, un ricco aristocratico meridionale, in cura per malattie polmonari. Prende contatti con la 3^ Brigata Garibaldi, la cui zona operativa era la Val d’Aveto e con il mitico comandante “Bisagno”. Agisce in val di Nure. Organizza lanci di armi alleate alle formazioni partigiane. Viene avvisato che un suo collaboratore, Antonio il maltese, ha relazioni sospette. Conosce nomi importanti della lotta di Liberazione, come Paolo Emilio Taviani e Pietro Caleffi, organizza un gruppo di patrioti, ma viene tradito da uno dei suoi, proprio Antonio. Prigioniero, è torturato a lungo perché riveli i suoi contatti. Non cede, rischia la morte. Inizia così quella trama di spaventose esperienze che lo portarono in diverse camere di tortura, da Genova a Verona, da Bolzano ai campi di sterminio di Dachau e Auschwitz.

La sua decisione di partecipare alla lotta di liberazione non derivava da un'utopia, che sogna dopo la guerra un mondo libero da ingiustizie e da violenze, un mondo per lui impossibile da realizzare, ma per guadagnare in prima persona il diritto di ognuno alla libertà. Si getta dalla lotta con determinazione, ma sempre vigile nei confronti di se stesso. Di particolare rilievo, a distanza di decenni, è la visione di Libero, un combattente per la libertà sua e degli altri, che si sacrifica per fedeltà a se stesso, alla propria identità di uomo: “Libero” di nome e di fatto. Ha valori profondi, come “meglio la tortura e la morte, che tradire i compagni”. Ma  non ha fiducia che la sua lotta possa migliorare l'Italia e il mondo.

Dell'Italia e degli Italiani ha una visione sconsolata, come emerge dalla sua descrizione di Napoli occupata dagli Alleati. Pagine degne di Malaparte (La pelle): “Gli americani diventano una decorazione, un qualcosa che dà dignità alla famiglia che li ospita. Ci si onora di avere un americano che viene a casa magari per fregarti la moglie, la figlia e la sorella. L'americano è un cane di lusso che è bene accompagnare a spasso, per farsi vedere con lui dal prossimo. Acquisti in dignità, in importanza. Non importa se un americano entra nella tua casa, ti prende a calci e ti manda a lavorare al porto mentre stende sul letto tua moglie e tua figlia e le ingravida entrambe”.

Milita e combatte con i comunisti che lui, allora come dopo anticomunista, riteneva il nerbo della lotta, la forza più credibile, fidata. Li ammirava e insieme li temeva per la loro eccessiva dedizione ai “capi”, al “credo” del Partito. Riteneva che fossero troppo pronti ad obbedire ad uno Stalin, che è della stessa categoria degli altri “duci” della storia, ma riconosceva che i “compagni” almeno si schieravano, rischiavano, si sacrificavano in prima persona; avevano una fede, lottavano per un sogno, anche se utopico, irrealizzabile.

Sa che tra le forze partigiane ci sono profonde differenze e grandi diffidenze, che potevano essere appianate e superate solo ponendosi l'obiettivo primario di combattere il nazismo e il fascismo. Scrive: "Ognuno di noi, del resto, poteva pensarla al modo che più gli piaceva. I nostri  ideali, le nostre speranze erano fatti individuali che ci appartenevano. I sogni restavano confinati nel campo dei sogni. E' tutto

Accini, borghese, libertario, individualista, non credeva nel “sole dell'avvenire”, nella possibilità di edificare un “uomo nuovo”. Scrive: “Volevo andare al nord per combattere e conquistare la mia libertà, senza mendicarla ad inglesi o americani. Per l'avvenire le mie speranze si limitavano a poco. Gli anglo-americani, con i sovietici, avrebbero vinto la guerra. Questa era la mia sicurezza; tuttavia c'era in me un'altra certezza: l'avvenire avrebbe mutato soltanto le etichette. Il futuro ci avrebbe riservato alcune riforme, ma sostanzialmente saremmo restati quelli che eravamo. Ancora ci sarebbero stati i poliziotti, le prigioni, i servi, i padroni, gli imbecilli e coloro che si presumono intelligenti, gli ignoranti e gli pseudocolti”.

Quanto era giusto questo suo giudizio, viste le tante brutture e i lati oscuri della storia d'Italia dei decenni successivi! Ma quanto si è sbagliato, se pensiamo alla Carta costituzionale, alle grandi energie umane e democratiche, di libertà, che si sono sempre sviluppate da 70 anni a questa parte!

La storia di Libero Accini si concluse alla fine positivamente. Quando sta per cedere alle torture, i suoi aguzzini smettono, perché convinti che lui non tradirà mai e che morirà poco dopo per il suo corpo ormai al collasso. In lui rimangono vivi i fantasmi dei campi di sterminio. Conclude “L'uomo che ha visto il peggio”, con queste righe: "Un giorno avrò la forza di rialzarmi. Imparerò a camminare. Il sole si leva sulla terra. Fosforescenze. Fantasmi fosforescenti di impiccati, di gassati, di morti di fame, di torture. Nell'aria che tu e io respiriamo, c'è una parte dei miei fratelli uccisi. I miei fratelli uccisi sono là, sono dovunque. Tu non li vedi e ti guardano. Continueranno  a guardarti finché vivrai." 

Ripensando alle violenze terribili di quel periodo, il pensiero di Libero Accini, la sua  filosofia di vita, che anche oggi dovremmo fare nostra, potrebbe essere riassunta in questo modo: “Il bene e il male sono mescolati in ciascuno di noi e se ora nei semidei miei aguzzini si è scatenata la follia del male, è perché gigantesche ragioni storiche si sono messe in moto. Io, con tanti altri, sto adesso dalla parte, questo è indubbio, del “bene”; ma avrei potuto anch'io trovarmi nelle vesti dei dominatori-carnefici, e in queste stesse vesti mi potrei forse ritrovare un giorno. Cos'è che mi ha salvato finora, e che farò in modo che continui a salvarmi? Il fatto che io, per quanto mi è possibile, fin dall'inizio, cerco di non innescare la micidiale sequela dell'insofferenza, che diventa intolleranza e poi odio, e poi ancora negazione dell'umanità altrui. Ecco perché oggi, mi trovo con tutti i miei limiti, personali e ideali, dalla parte del bene”.

Peculiare il suo non ritenersi migliore dei suoi avversari. Migliori sono gli ideali per cui si batte. Ma lui come persona, no. Quando uccide un soldato tedesco a Napoli nel 1943, racconta: “Due tedeschi si parano davanti a me. - E' lui... - grida, e mi salta addosso. Gli sferro un calcio fra i testicoli e cade a terra singhiozzando. Il suo compagno si precipita su di me con la canna del fucile tra le mani. Un colpo alla testa. Sono tra gli angeli o tra i demoni. Vorrei lasciarmi andare a terra. Qualcosa si è spezzato in me”. Non si abituerà mai ad ammazzare.

Dopo un'azione di guerriglia coraggiosa e riuscita, i compagni si congratulano con lui. Scrive: Sì, c'è da congratularsi. Da congratularsi perché ho ferito e forse ucciso? Che diritto ho di uccidere? Se ferisco o uccido un uomo per rapinarlo … sono un assassino; se invece uccido per astrazioni quali la patria, la libertà e la democrazia, divento un eroe. La professione di guerriero non mi si addice... Verrà un giorno in cui dovrò fare i conti con quelli che moriranno in seguito a un mio ordine, quanto volevano vivere sotto questo splendido sole che rischiara e dà calore alla terra. Appena sarò stato ucciso troverò altri uccisi ad aspettarmi. Ci sarà una dimensione in cui si torna a vivere? Ci sarà una dimensione in cui si ricordano i fatti avvenuti sulla terra?

Un combattente per la libertà sui generis, come si vede. Ma di quanti esempi come questo abbiamo oggi bisogno!

 

Carmine Lazzarini


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