11 maggio 2023

Morire sognando romanticamente la libertà. 175 anni fa, il 20 aprile 1848 a Sclemo si infrange il breve sogno di 17 cremonesi. Uno scritto di Gherardo Bozzetti

Lo storico e scrittore Gherardo Bozzetti ("Farinacci il più fascista", "Bissolati", "10 giugno 1940 il giorno della follia") scrisse nel settembre 1980 questo magnifico intervento sulla rivista "Ipotesi 80" per ricordare il sacrificio di diciassette cremonesi a Sclemo avvenuto il 20 aprile 1848 quindi esattamente 175 anni fa. Lo riproponiamo perchè non si perda la memoria di quanto accaduto.

Recenti vicende internazionali hanno posto in evidenza il persistere di insospettati sedimenti passionali, che sembravano appartenere solo al passato, Mi riferisco in particolare a forti cariche di nazionalismo implicite in tutti i movimenti di liberazione del Terzo Mondo. Ciò è soprattutto sorprendente ove si rifletta che gran parte diessi si ispirano a ideologie marxiste e che al pensiero di Marx il fenomeno di nazione è sostanzialmente indifferente. Il concetto di classe infatti non riconosce confini, nè indiscriminazioni di lingua, nè di razza. Negli ultimissimi tempi si è assistito perfino a ribellioni contro Mosca, il paese guida del comunismo reale, da parte di comunità nazionali, che si proclamano fedeli al verbo marxista.

Da no una dura e sotterranea polemica storiografica cerca insistentemente di svalutare il Risorgimento, mettendone in rilievo le naturali manchevolezze e insufficienze dal punto di vista sociale, magari rivalutando e rispolverando vecchi ruderi storici, che sembravano sepolti per sempre. Dalla cultura snob si parla male di Garibaldi e bene di Franz Joseph. L'ultimo grido blasfemo è quello di paragonare Mazzini e Mameli agli squallidi eroi del terrorismo nostrano.

Se tutto ciò sia gusto mi sono domandato di recente ritornando in commosso pellegrinaggio e ascoltando le storie della gente, nel villaggio di Sclemo, dove il 20 aprile 1848 si è consumato il momento più tragico del Risorgimento cremonese.

I fatti sono abbastanza noti, almeno a chi è al corrente delle cose accadute in casa nostra. Il 1848 è l'anno del volontarismo. Patrioti lombardi e profughi rifugiati negli anni precedenti in Piemonte e in Svizzera, accorrono al richiamo delle Cinque Giornate.

Questi volontari, a dire il vero non sempre graditi alle autorità ufficiali, vengono concentrati nel territorio di Brescia agli del colonnello Michele Napoleone Allemandi, già ufficiale napoleonico e piemontese, di fede mazziniana. Dopo i moti del '21 Allemandi va esule a Basilea, dove combattendo nella guerra del Sonderbund contro i cantoni cattolici sessionisti, si guadagna il grado di colonnello. Il Governo provvisorio di Milano lo designa a comandare le «compagnie mobili» dei volontari lombardi e di diversa provenienza, col compito tattico di operare dietro le linee nemiche con atti di guerra che oggi si definirebbe partigiana.

Quattro colonne si irradiano da Brescia comandate rispettivamente da Luciano Manara, Vittorio Longhena, Antonio Arcioni e dal belga Thamberg.

I movimenti non sono molto coordinati tra di loro, come avviene in episodi di guerriglia. Il comandante Allemandi per il suo passato mazziniano non gode la fiducia dell'esercito regio, e non riscuote le simpatie dei volontari, che lo considerano uno straniero e che per natura sono solitamente poco ligi alla disciplina formale. L'azione più clamorosa è compiuta dalla colonna Manara, prima ancora di ricevere le direttive del Comando. Debellato il presidio austriaco di Salò e catturati due vapori della navigazione lacuale, una compagnia attraversa il Garda con l'intento di molestare dal Veronese la fortezza di Peschiera, uno dei caposaldi del Quadrilatero. Senza aiuti dall'esercito Sardo e senza mezzi adeguati, dopo un modesto successo in una scaramuccia nella zona di Lazise e di Bardolino, la compagnia è respinta da un contrattacco di Radeztky.

Le altre colonne si inoltrano in val Sabbia e in Giudicarie, dove impegnano reparti stanziati nemici in combattimenti frammentari e sfortunati, finché all'Allemandi viene dato l'ordine di riparare nel Bresciano con i suoi «corpi franchi», allo scopo di riorganizzarli. E in uno di questi scontri che si inserisce l'episodio dei Cremonesi di Sclemo.

Dopo la liberazione di Milano, il presidio austriaco di Cremona, composto in gran parte di Italiani, diserta in massa. In città si forma un governo provvisorio presieduto da Maffino Maffi, Antonio Binda, Gaetano Tibaldi e Annibale Grasselli, bei nomi di famiglie cremonesi. La decisione di formare una colonna di volontari risale al 1° aprile. I Cremonesi partono al comando di Gaetano Tibaldi, classe 1805, patriota ed esule, la mattina del 9 aprile 1848. Sono centocin-quanta, passano per le vie cittadine scortati da reparti di cavalieri e della guardia civica, in mezzo ad una folla plaudente. Cremona è con questi ragazzi, che vanno alla ventura, affrontando, oltre ai pericoli, i disagi di una lunga e faticosa marcia in province quasi sconosciute. Sono figli di papà, perchè il ceto di questi eroi di provincia è medio-alto. I contadini infatti nel 1848 non sono in grado di entrare nello spirito risorgimentale, e si dimostrano freddi, se non ostili agli «stranieri» che vengono dal Piemonte.

In testa alla colonna cremonese, a cui per istrada si aggregano Bresciano e Bergamaschi, cavalca una ardita amazzone cremone-se, Elisa Beltrami. La giovane fa colpo su un patriota trentino, che scrive in un diario inedito: «montava un superbo cavallo ed era armata con due pistole che portava ai fianchi».

A Tione una lapide ricorda un po' inge nuamente l'ingresso de corpi franchi nella cittadina I°11 aprile 1848 al canto di strofet-te patriottiche: «Chi piange ancor, chi soffre - in giorni cosi? O poveri fratelli - il vostro di verra...». Sulla piazza i volontari issano l'albero della libertà.

Questi Lombardi non combattono una gretta battaglia nazionalistica. La fratellanza con i Trentini, anche se non condivisa, è proclamata come premessa di una fratellanza universale. Italiani sono ovunque presenti in Europa nelle battaglie per il progresso, e stranieri combattono in Italia. L'albero della libertà richiama gli entusiasmi libertari della Grande Rivoluzione, che non appartengono all'89, ma a tutti 1 tempi.

Da Tione, Tibaldi marcia su Stenico per una valle scoscesa tra rupi paurose. Di li converge con altri reparti su Toblino, dove nel castello è asserragliato il presidio austriaco. L'attacco alla valle del Sarca è concentrico. Vi partecipano anche reparti che hanno già ricevuto il battesimo del fuoco a Linfano presso Riva e hanno subito gravi perdite ritirandosi per l'altipiano di Ballino.

Una fonte anonima austriacante informa in quei giorni il signore locale, conte di Walkenstein, che si trova a Chiusa, sugli avvenimenti. Premette che la gente del posto non ha fatto causa comune con gli invasori «piemontesi», insiste sui saccheggi e sui danni recati dai volontari.

I combattimenti di Castel Toblino si svolgono trail 14 e 15 aprile. Dopo qualche suc-cesso iniziale, l'arrivo di rinforzi nemici da Trento respinge i corpi franchi sulla montagna di Stenico, dove il 16 si combatte sotto una pioggia insistente una battaglia disordinata. Un gruppo di Cremonesi, rimasto isolato per salvare un compagno ferito (gli Austriaci non fanno prigionieri nei corpi franchi), finisce nel piccolo villaggio di Sclemo.

Si rifugiano nello scantinato della casa, su cui oggi una lapide ricorda l'eccidio del 20 aprile 1848. Pare che la gente del luogo li abbia rifocillati, dando loro da mangiare. Il prete ha raccomandato di non scoprirsi, per non esporre gli abitanti alle rappresaglie austriache.

Un reparto nemico in perlustrazione ispeziona l'abitato e sta per andarsene, quando uno dei volontari da una finestrella vedendo avanzare a cavallo il comandante dell'ultimo plotone, gli spara e lo stende. La casa è allora presa d'assalto da centinaia di Tedeschi imbestialiti. Diciassette ragazzi lombardi sono massacrati nel loro rifugio. Al suono delle campane è intimato agli abitanti di chiudersi nelle case. I cadaveri dei trucidati scompaiono. Qualcuno vede il luogo dove li hanno sepolti. Saranno riesumati ottanta anni dopo. I resti recano i segni dei colpi subiti. I teschi sono forati dalle baionette e spezzati da corpi contundenti. Otto Cremonesi figurano tra i caduti di Sclemo. I loro nomi meritano di essere ricordati: sono il medico Achille Digiuni, Cesare Verdelli e il suo domestico Domenico Ferrari, i fratelli Annibale e Berengario Gabbioneta, il tintore Ferdinando Pizzola, il possidente Vincenzo Poglia e il non meglio qualificato Anacleto Merli.

Ai 17 di Selemo è eretto un monumento ricordo, inaugurato il 14 giugno 1923. Tra le autorità presenti è Roberto Farinacci, che alla vigilia della marcia su Roma si è distinto con le sue squadre partecipando alla spedizione fascista su Trento e Bolzano. Il monopolio del sentimento nazionale e la speculazione sui caduti è la non ultima causa dello scadere del culto risorgimentale nei giovani di oggi e dell'inquinamento delle nostre memorie.

Un riesame della vicenda impone una valutazione più obiettiva del valore morale del sacrificio dei giovani cremonesi. La vicenda non ha niente a che vedere con il bolso e interessato nazionalismo littorio. Questi ragazzi di Cremona erano dei progressisti, che vedevano nel trionfo della causa nazionale un sicuro avanzamento civile e sociale del popolo. Austria a quel tempo significava forca, reazione, tirannia, dispregio della dignità umana. La libertà sognata romanticamente dai caduti di Sclemo è la stessa che su tante spiagge del mondo è ancora paurosamente latitante.

Soli, male equipaggiati, laceri, con vecchi fucili napoleonici, senza cannoni, i ragazzi di Sclemo hanno opposto ad un esercito agguerrito il proprio coraggio e le baionette. E andata male, la loro passione è bruciata in una vigilia di primavera.

Gherardo Bozzetti


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