Quelle morti tragiche lungo il Po: delitti, sconfinamenti, bombe e ragazzi uccisi dai fulmini durante un temporale
Si è scritto in questi giorni del drammatico omicidio di Carlo Poli avvenuto a Sommo Con Porto nel 1929. Un fatto di cui potete leggere QUI. Purtroppo non l’unico fatto di sangue avvenuto, nel giro di una manciata di chilometri, in terra di Po. Se Poli fu ucciso dal suo maniscalco (poi condannato, ovviamente) dopo una discussione nata all’osteria di Sommo Con Porto (non è ad oggi ben chiaro se tutto sia sorto in seguito al fatto che la vittima voleva licenziare il suo maniscalco o se quest’ultimo voleva rapinarlo sulla via del ritorno a casa), ci sono anche fatti tragico dovuti ai rapporti, spesso complessi, tra vicini di casa. Si va dai litigi di quartiere o di condominio (questi assai frequenti) ad attriti ben più vasti e, talvolta, di preoccupanti dimensioni. E’ così oggi, lo sarà senz’altro in futuro, lo era in passato, anche tra le due rive del Grande fiume, quella lombarda e quella emiliana quando, ad affermarsi, erano alcune potenti e nobili Casate dei due territori. Nella storia dell’area casalasca ci sono stati anche diversi e singolari casi di violazioni delle frontiere con situazioni che talvolta si sono fatte particolarmente complesse. Un tempo i problemi di confine nascevano anche per stabilire nientemeno che la competenza sui cadaveri che venivano trasportati dalla corrente del Grande fiume.
Un caso interessante lasciatoci dalle fonti storiche è quello del 28 marzo 1674 quando venne ritrovato il corpo senza vita di una giovane di Ripa di Motta (l’odierna Motta Baluffi) annegata nel Po e trascinata dalla corrente alla Giarra di Stagno. Un caso che, oltre un secolo prima, aveva avuto un precedente scabroso. Infatti nel dicembre del 1568, dopo il ritrovamento sull’isola del Po presso Solarolo dè Maggi (l’attuale Solarolo Monasterolo) del cadavere di un uomo che presentava numerose ferite da arma da taglio. A Solarolo Monasterolo fino alla seconda metà del 1700 la principale famiglia locale era quella dei Maggi. Da qui il precedente nome di Solarolo dè Maggi. Tra l’altro l’importante famiglia è ancora oggi, di fatto, ricordata, da quell’importante complesso colonico settecentesco (con tracce tra l’altro di costruzioni precedenti) che è la cascina Maggi – Stanga. Complesso, questo, che fino alla metà del XVIII secolo faceva parte dei vasti possedimenti proprio della famiglia Maggi, per poi passare successivamente ai marchesi Vallardi e, quindi, ai conti Silva di Roccabianca e, nel 1804, ai marchesi Stanga. Ancora oggi il complesso, che fu anche sede del municipio di Solarolo Monasterolo, evidenzia tutto il gusto nobiliare dei proprietari di allora e assolutamente pregevole è il portale di ingresso. Come noto, Il complesso viene chiamato anche Villa Bertini oppure Villa del Corgnacco, ma anche il Corvo. Denominazione, quest’ultima, dovuta alla presenza sul fastigio del portale di un corvo in rame di ragguardevoli dimensioni. Una opera notevole divenuta, in pratica, il simbolo di Solarolo. Chiusa questa piccola, ma necessaria parentesi sulla denominazione di Solarolo dè Maggi, e tornando al rinvenimento del cadavere del 1568, va aggiunto che agli inquirenti non fu possibile stabilire né l’identità del morto né tantomeno quella dell’omicida. Il mese seguente, il conte Giulio Rangoni che, nella lettera inviata al podestà di Cremona si dichiarava “Servitore di S.A. affezionatissimo et l’ho mostrato al tempo delle guerre con i miei fatti e’sto anco al suo servicio”, specificava che il luogo in cui era stato rinvenuto il cadavere era sotto la loro giurisdizione, al contrario di quanto dichiarato dagli agenti del duca Ottavio Farnese. Il nobile, nel dare la colpa ai ducali della sottrazione del corpo e di averlo portato indebitamente a Roccabianca, denunciava anche le continue violazioni della frontiera fatte dai soldati parmensi “che sempre – scriveva – passano il Po senza averne diritto”. Un altro episodio molto emblematico riguarda invece un processo per “turbata giurisdizione territoriale” intentato nel 1764 contro il Comune di Motta Baluffi. Tutto era nato dopo che un soldato delle truppe austriache di stanza nella villa di Motta Cremonese aveva tentato di disertare. Di fatto nulla di eccezionale visto che gli stessi atti processuali indicano come frequenti i tentativi di defezione. Tuttavia, in questo caso, il soldato aveva passato il confine per chiedere ai due traghettatori di Stagno di Roccabianca, i fratelli Giuseppe e Battista Pallavicini, di essere portato sull’altra sponda. Dopo il rifiuto motivato dal fatto che i due, come si legge nel fascicolo processuale “erano avvezzi a questo tipo di traffico” e quindi sottoposti a controlli frequenti, l’austriaco si era nascosto in un boschetto emerso dopo una esondazione del Po sotto la giurisdizione di Roccabianca. Senza curarsi del fatto di commettere una violazione territoriale, un gruppo di energici abitanti di Motta Baluffi, con tanto di bastoni e roncole, guidati dal console Bastelli e dal casaro, si erano spinti nell’isolotto, catturando, dopo averlo disarmato del fucile, il soldato che avevano poi ricondotto a Casalmaggiore dove aveva sede il quartier generale del reggimento. Una vicenda, questa, che senz’altro dimostra i problemi che appunto esistevano nella delimitazione dei confini, ma è anche parecchio interessante sia per i tanti toponimi dei luoghi riportati nella descrizione dei fatti inviata al ministro Du Tillot, che per i cognomi dei personaggi coinvolti nella vicenda (tutti molto frequenti, tuttora, nei luoghi rivieraschi). Tra i testimoni figuravano infatti: Lodovico Andreoli, Michele Guarenghi, Antonio Maria Rossini detto “Fogliata”, Gianna Zerminesi (moglie di uno ddei barcaioli) ed i coniugi Germinati. Questi ultimi erano negozianti a Roccabianca dove avevano l’appalto del sale, del tabacco e dell’acquavite, e commerciavano olio e sapone, che trasportavano al mercato di Castelponzone. Sempre in sede di processo i due dichiararono “di aver visto il soldato tedesco di statura piuttosto grande, vestito con marsina bianca, calzettoni e calzini alla Prussiana, schioppo e sciabola, che veniva correndo sulla Possessione di Motta Parmigiana verso il Po, e pensammo subito che fosse un disertore”. Tutti i testimoni, in modo unanime, affermarono che i soldati tedeschi erano soliti passare il confine per bere acquavite e per acquistare tabacco in terra parmense. Non si è a conoscenza della condanna inflitta al soldato, ma i due battellieri furono arrestati e rimasero detenuti per oltre due mesi nelle carceri di Roccabianca, accusati di aver rifiutato di traghettare il milite austriaco”.
Passando a tempi più recenti, tragico fu il destino di Francesco Venturati, padre di don Gottardo Venturati (parroco di Motta Baluffi dal 1942 al 1952). Il 26 dicembre 1944 splendeva il sole a Motta Baluffi ma la giornata si trasformò presto in tragedia. Infatti, mentre nel pomeriggio sull’argine non poche persone passeggiavano, nel centro del paese si trovavano diversi mezzi militari tedeschi, visto che un nutrito gruppo di soldati aveva occupato case. A passeggio, col sigaro in bocca, si trovava anche Francesco Venturati diretto all’osteria dove avrebbe raggiunto alcuni amici, ma all’improvviso all’orizzonte arrivarono alcuni caccia alleati e, alla vista dei mezzi tedeschi, virarono e si misero in posizione di tiro. Subito la gente che era sull’argine si gettò a terra nelle busche scavate appositamente per difendersi dal bombardamento aereo. Pare che qualcuno avesse anche gridato a Francesco Venturati di mettersi al riparo, ma l’uomo avrebbe risposto che gli alleati non sapevano cosa farsene di un vecchio come lui, continuando il suo percorso verso l’osteria. Le raffiche alleate inevitabilmente partirono; nessun tedesco venne colpito, mentre l’anziano padre del parroco, all’altezza della macelleria fu colpito a morte ed alcuni proiettili si conficcarono letteralmente in un muro di via Roma. Una tragedia che sconvolse tutta la comunità rivierasca, già provata non solo dalla guerra stessa ma anche da quanto accadde il 4 dicembre dello stesso anno. Una giornata ricordata come nebbiosa, con una abbondante coltre nevosa a terra. In quel periodo erano in corso i lavori di costruzione di una strada nei pressi della cascina Ronchetto (quella in cui, fino a poco tempo fa, sorgeva l’Acquario del Po). Si lavorava ugualmente, nonostante la neve e il freddo, e con un fuoco si teneva al caldo il cibo e si cercava di ripararsi dal freddo. Verso le 9 del mattino un aereo alleato sorvolò la zona sganciando un ordigno che provocò la morte di cinque persone (quattro di Cella Dati ed una di Reboana) e ne ferì parecchie altre. Al lavoro si trovavano, in tutto, circa 700 persone che cercarono, vanamente, di tornare a casa portando con loro i morti. Tentativo vano, appunto, perché i soldati tedeschi puntarono loro i mitra costringendoli a proseguire il lavoro. Sull’accaduto ci sono da tempo diverse versioni; una di queste sostiene che l’aereo avesse visto il fumo del fuoco acceso dagli operai spuntare dalla nebbia; altri ipotizzano che il pilota volesse liberarsi del fardello della bomba cercando di scaricarla in Po. Stando agli archivi americani dell’Us Air Force pare che quel giorno non fossero comunque programmate missioni particolari nella zona del Po, bombardando solo se ne valeva la pena. E’ quindi plausibile che un bombardiere alleato, venuto a conoscenza dei lavori in corso nei pressi della cascina Ronchetto, possa avere sganciato la bomba alla vista del fumo.
Purtroppo, in quanto a fatti tragici, la storia di Motta Baluffi e, in particolare, di Solarolo Monasterolo non si esaurisce qui. Infatti nell’arco di appena sette anni, due giovani di Solarolo, il 17enne Adriano Formica ed il 19enne Libero Ballarini, tra il 1958 ed il 1965 sono stati portati via dalla forza devastante della natura, entrambi colpiti da fulmini. Il primo, Formica, 17 anni appunto, lavorava come contadino alla Cascina Quinzani ed era piena estate quando, nel 1958, insieme all’amico e collega Giuseppe Poltronieri, furono sorpresi da un violento temporale mentre si trovavano su un carro agricolo. Poltronieri trovò rifugio nascondendosi sotto al carro. Formica, purtroppo, aveva in mano un attrezzo (sembra una forca) e venne colpito da un fulmine che non gli lasciò scampo. Straziante fu la scena della madre che, stringendolo a sé, lo portò a casa, in vicolo Prebenda. Analogo destinò tocco, nel 1965, a Libero Ballarini, classe 1946. Viveva ai “Boschi” (così viene denominata dagli abitanti del paese la zona golenale) e, durante un tranquillo pomeriggio d’estate, si recò a pescare con un amico al “Budri”. Anche in questo caso arrivò un temporale estivo ed un fulmine colpì in pieno Ballarini. Subito l’amico che era con lui lanciò l’allarme ed i soccorritori si precipitarono sul posto ma per lui, che oggi riposa nel cimitero del paese (insieme alla madre Teresa Mazzotti, scomparsa molti anni più tardi, nel 2007), non c’era più nulla da fare.
Eremita del Po
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commenti
Jim Graziano Maglia
24 gennaio 2025 21:21
Grazie Paolo.Una vera e propria "full immersion" di storie ,di vissuti,di personaggi ,di fatti più ilo meno tragico,che non conoscevo sia a livello locale(risiedo a Motta Baluffi dal 1957...)che del circondario padano-rivierasco...Un meticoloso quanto informativo e coinvolgente tuo articolo(una sorta di tesi storico-letteraria) che sicuramente appassionerà i tanti ed auspicati lettori che sicuramente coinvolgerà.Per non parlare poi di alcune foto di "esterni" di Motta Baluffi che ben conosco ..anche se per ragioni varie (principalmente professionali) ho vissuto più d'altre parti,pur mantenendo sempre la residenza.Così come nei miei ricordi,grazie alla tua straordinaria scrittura, il nome di Libero Ballarini, è riemerso in tutta la sua tragicità,sebbene allora fossi un 'bucolico' ed imberbe adolescente.Pertanto grazie ancora e in attesa di un tuo prossimo arricchimento giornalistico,nel nome Santo di Francesco di Sales,Protettore dei giornalisti,oggi ricordato(solo un caso?),ti formulo i miei più cordiali saluti.
Rosella
25 gennaio 2025 02:33
L'istinto innato di rovistare nel passato collettivo messo al servizio della ricostruzione e narrazione di accadimenti specifici iscritti a un baule di ricordi che nemmeno noi residenti abbiamo mai aperto. Davvero notevole!