16 agosto 2021

Ascelino da Cremona alla corte del Gran Khan, vent'anni prima di Marco Polo

Marco Polo è da molti considerato come uno dei più grandi esploratori di tutti i tempi. Ma prima che con il padre Nicolò e lo zio Matteo giungesse in Cina nel 1271, era stato preceduto da un frate domenicano cremonese, Ascelino, che nel 1247 fu il primo italiano ammesso al cospetto del Gran Khan.

Alla fine del 1236 un esercito mongolo, ingrossato da contingenti turchi, per ordine di Ögödei successore del grande Gengis Khan diede inizio all'invasione dell'Europa, spingendosi fino in Polonia, in Ungheria, in Slesia, nei Carpazi, seminando ovunque terrore e devastazione. La sorpresa fu totale, le resistenze ben presto infrante, e, senza la morte di Ögödei l'inverno del 1241, che fece rifluire l'armata mongola, non si può dire quel che sarebbe stato dell'Europa, che visse da allora nel terrore di un ritorno degli uomini delle steppe. Ecco perché una delle questioni principali che figurarono nell'ordine del giorno del Grande Concilio, indetto a Lione dal papa Innocenzo IV nel 1245, invitava a cercare il "rimedio contro i Tartari". Per questo si decise di inviare degli emissari presso il capo dei Mongoli, onde persuaderlo a convertirsi al cristianesimo, invitandolo, se non altro, a porre fine agli attacchi. I tre legati ad Tartaros furono i domenicani Andrea di Longjumeau e Ascelino da Cremona giunti al cospetto del comandante tartaro il 4 agosto 1247, e il francescano Giovanni di Pian di Carpine. Sulla missione di Ascelino, legato intransigente che rifiuta di genuflettersi di fronte al generale Baiju o Baiothnoy sfuggendo per miracolo alla condanna a morte, siamo informati dalla relazione del suo compagno Simone da St. Quentin. Ad accompagnare il nostro Ascelino, oltre i già citati Andrea di Longjumeau e Simone, furono i frati Alberto ed Alessandro a cui si aggiunse poi Guiscardo da Cremona. Attraverso la Siria, la Mesopotamia e la Persia, giunsero fino nella regione della Corasmia, a sud-est del lago di Aral. La cronaca del viaggio comparve la prima volta tradotta in italiano nel 1537 col titolo: "Opera dilettevole da intendere nella qviale si contiene doi itinerari in Tartaria per alcuni frati dell'ordine mirare e di San Domenico cioè frate Giovanni e frate Simone mandati dal papa Innocentio IV nella detta provincia di Scithia per ambasciatori" stampata a Venezia da Antonio de Nicolini da Sabio in 8°, e 56 fogli, con una incisione in legno sul frontespizio. Questa edizione italiana rarissima, passò poi nella raccolta del Ramusio Viaggi e Navigazioni, in appendice  della 2ª edizione del 1574, e nelle successive.

"L'anno del Signore 1247, nel giorno della translazione di san Dominico, primo padre de' predicatori, frate  Ascelino , mandato dal papa per ambasciatore, arrivò ne l'esercito de' Tartari, cioè nella Persia, dove era Baiothnoy capitano". Inizia con queste parole la narrazione di Simone da San Quintino. Il capitano siede vestito d'oro in un padiglione circondato dai suoi dignitari. Alcuni di essi, accompagnati da un consigliere e da interpreti, vengono inviati a conoscere i nuovi venuti. Le parole di Ascelino, che si professa emissario del più grande sovrano del mondo,il papa,  destano immediatamente lo sdegno dei dignitari imperiali, che chiedono al frate come mai non sia a conoscenza del loro potere. Ma impertubabile il nostro frate spiega semplicemente di esser venuto a chiedere la cessazione delle violenze contro i cristiani. Detto fatto gli ambasciatori tornano al padiglione ed informano il comandante della cosa, poi, cambiatisi d'abito, tornano dai frati e chiedono che doni abbiano portato con sè. Ovviamente i frati rispondono di non aver portato nulla. Nuova ambasceria dei consiglieri e degli interpreti, nuovo cambio d'abito e nuova spedizione dai frati che a loro volta insistono perchè sia consegnata al comandante la lettera di papa Innocenzo IV. In realtà, spiega il cronista, che l’insistenza degli ambasciatori tartari era dovuta semplicemente alla necessità di avere informazioni sulla preparazione di una nuova crociata di cui avevano avuta notizia attraverso i commercianti veneziani. Tornati dunque a mani vuote gli ambasciatori si rivestono un’altra volta e si recano di nuovo dai frati con un'altra richiesta, decisamente più difficile da soddisfare delle precedenti: l’unico modo per poter consegnare le lettere è  sottomettersi all’adorazione del comandante. La richiesta lascia i frati imbarazzati, combattuti tra il peccato di idolatria ed il pericolo di lasciarci la pelle, ma giunge in loro aiuto frà Guiscardo cremonese. Come racconta il cronista, Guiscardo era esperto delle tradizioni mongole, dal momento che era vissuto per sette anni in Georgia, nella città chiamata "Triplheis", per cui non si lascia intimorire e rassicura i compagni:

"Di far idolatria a Baiothnoy nulla dubitate - dice - però che non intende voler questo da voi, ma, in segno che 'l papa gli sia soggetto e tutta la Chiesa romana, che per comandamento di Chaam credono soggiogare, vuol li sia fatto questa riverenzia da qualunque capita qui a lui con ambascierie". Nulla da fare: la decisione dei frati è irrevocabile. Piuttosto di omaggiare il comandante tartaro si farebbero decapitare. Tocca ad Ascelino informare gli ambasciatori della loro decisione, dicendo che i frati sarebbero semplicemente disposti a chinare il capo in segno di rispetto, ma addirittura a baciare i loro piedi nell’eventualità che decidessero di convertirsi. Gli ambasciatori, frementi d'ira, corrono a riferire la cosa al comandante che ordina di uccidere immediatamente i frati. I consiglieri però non vanno d'accordo sulla pena da infliggere. Racconta il cronista: "Alcuni de' suoi consiglieri dicevano: 'Non amazziamo tutti, ma solamente due, e gli altri mandiammo indietro al papa'. Era l'opinione d'alcuni scorticar il principale, ed empita la pelle di paglia mandarla per li altri al pontefice; altri volevano che due frustati per tutto l'esercito s'occidessero, e li compagni riservassero fino alla venuta de' Francesi. Alcuni dicevano di menar per l'esercito a veder la potestà e moltitudine di gente, e ponergli nanti le machine che iacevano nel piano, e così paressino uccisi non da loro, ma da quelli in strumenti". Alla fine prevale il parere del comandante tartaro di decapitarli. Ma, quando la sentenza pare ormai irrevocabile ecco arrivare la prima delle sei mogli di Baiothnoy ed i consiglieri preposti alla cura degli ospiti. La moglie fa leva sull'avidità del marito, che se si diffondesse la notizia dell’uccisione rischierebbe di perdere tutti i doni dei potenziali visitatori. Ed uno dei consiglieri gli ricorda: "Non ti ricorda come si adirò verso di me Chaam sopra la morte di quello messo che comandasti l'ammazzasse, il core del quale, cavato dalle viscere, per metter paura agli altri che venissero qui e udissero questo, mel facesti portare nel pettorale del cavallo per tutto l'esercito publicamente? Se mi comandarai ch'io ammazzi quelli, non gli ammazzerò, ma son per fuggire da te e, conservando la mia innocenzia, velocemente andar a Chaam e accusarti della morte sua nella corte plenaria, come malefico e inaudito omicida". Il comandante tartaro è perplesso e rimanda gli ambasciatori dai frati per sondare il terreno in cerca di qualche altra onorevole via d'uscita dall'impasse. Al che Ascelino, togliendosi il cappuccio: "Così - dice - faremo, e questo è il modo di onorar i nostri maggiori, e così a Baiothnoy non altrimenti, benché ne fusse fatto violenza, siamo per fare". Inizia una lunga discussione sulle "tecniche" di adorazione, intanto il tempo che passa e l'interesse crescente verso i frati gioca a loro favore. Gli ambasciatori chiedono come i cristiani esercitino l'adorazione e perché pur disposti ad odorare "legni e sassi" si rifiutino invece di venerare una persona in carne ed ossa come il loro comandante. E Frà Ascelino, per nulla intimorito, è pronto nella risposta: "Li cristiani non adorano legni e sassi, ma il segno della croce formato in quelli, per il nostro Signor Giesù Cristo sospeso in essa, il quale l'ha ornata delle membra sue come di preziose gemme e col suo sangue consecrata, dove acquistò la nostra salute. Ma il vostro signor a niuno modo per le ragion sopradette potemo adorare, quantunque con ogni tormento fossimo cruciati". Resta agli ambasciatori un'ultima chance e, consultato il comandante, giocano dunque il tutto per tutto: che i frati vadano alla corte del Khan, vedano la sua potenza e le sue ricchezze e gli presentino le lettere del papa e riferiscano a lui, una volta ritornati a Roma, quanto hanno visto con i loro occhi.

Ma frate  Ascelino rifiuta anche questo compromesso. La disputa prosegue per l’intera giornata ma alla fine, però, i frati l'hanno vinta. Gli ambasciatori richiedono le lettere del papa da inoltrare a Baiothnoy, le mostrano al comandante e poi propongono ai frati, con l'aiuto di interpreti, di tradurle prima in persiano e poi in mongolo perché possano essere comprese. Narra ancora Simone di San Quintino; "Allora frate  Ascelino , con tre suoi compagni e con l'interpreti e scrittori del prince, dilongossi dalla moltitudine degli astanti ed espose le lettere a' translatori di parola in parola, cioè scrivendo li notarii persiani quello che da' Turchi, Greci e frati li era detto.

Per tanto, transcritte le lettere e in tartaresco lette a Baiothnoy, e ritenute col sigillo appresso di sé, mandò li baroni con uno cancellier grande e sollenne di Chaam che al presente si partiva, li quali dissero: 'Comanda a voi Baiothnoy che si debbino elegger due li quali vadino a Chaam con questo suo servitore, che sicuramente si condurrà sino alla sua corte; e venuti daranno le lettere alla sua presenzia, e ciò che aranno veduto della sua gloria riferiranno al papa'." Ma Ascelino è un duro: spontaneamente non andranno mai alla corte del Khan, dovranno legarli e costringerli con la forza per separarsi dai loro confratelli. Non si lascia blandire neppure dal cancelliere che, giunta la sera, chiama i frati e legge loro le lettere che il Khan ha inviato perché siano fatte conoscere in Occidente. Dopodichè possono far finalmente ritorno ai loro alloggiamenti, distanti un miglio dal padiglione del comandante. Dopo quattro giorni stanchi di attendere i due cremonesi Ascelino e Guiscardo tornano a corte e chiedono di avere le risposte alle lettere papali ed il salvacondotto per poter fare ritorno in Italia, Ma i baroni non sembrano intender ragioni. I frati aspettano l'intera giornata ma non succede nulla. L'attesa si protrae anche nei giorni successivi "scherniti da' Tartari e riputati da quelli como vilissimi garzoncelli, né degni d'aver risposta, anzi come cani". Per nove settimane i frati attendono pazientemente udienza. "Ma li frati, con umiltà sopportando la sua malizia e indegnazione, mutarono con ingegno la necessità in virtude", aggiunge il cronista Simone. La sentenza di morte viene sospesa per cinque settimane, vengono scritte le lettere per il papa e informati gli ambasciatori e si decide di rilasciare i frati "il giorno di s. Giovambattista; ma il terzo giorno seguente rivocò quello aveva deliberato, dicendo aver inteso come veniva un grande e solenne ambasciatore da Chaam, figliuolo d'Iddio, detto per nome Augutha". Secondo quanto si raccontava questo sarebbe stato il nuovo signore delle Georgia, ma erano molti quelli che speravano che, in realtà, con la sua venuta si sarebbe risolta la spinosa questione dei frati ostaggi. Nel frattempo i frati “Stavano fermi e immobili, avendo per sostentazion del corpo un poco di pane e acqua a bastanza; e alcuna volta, per non averne, digiunando fino a sera mangiavano latte di capra e vacche, forse ancor alle volte di cavalle, e più spesso avevano acqua pura; e per non esser a sufficienza mescolavano col latte agro, senza far menzione alcuna di vino".

Ma si avvicina l'inverno e Ascelino teme che, con la brutta stagione, possa perdere il passaggio sulla nave che gli consentirebbe il ritorno a casa. Si reca dunque a trovare il gran consigliere della corte pregandolo di sollecitare il comandante al rispetto delle sue promesse. Ma proprio quando sembra che Baiothnoy sia ben disposto nell'assecondare le richieste del frate ecco giungere all'accampamento lo stesso giorno Augutha in persona. Tutti si dimenticano un'altra volta dei nostri poveri frati. Sette giorni durano i festeggiamenti per l'arrivo del potentato georgiano. Finalmente "l'ottavo, che fu la festa di santo Iacobo, diedero licenzia a' frati che si partissero con le littere di Baiothnoy e Chaam, che dicono lettere d'Iddio, e insieme con messaggieri che mandavano al papa". Il viaggio della delegazione papale all'accampamento mongolo era durato un anno. Ma per Ascelino la missione si protrasse per ben tre anni e sette mesi. Frate Alessandro e frate Alberico stettero con lui poco meno di tre anni; frà Simone di San Quintino, il nostro cronista, due anni e sei settimane; frà Guiscardo cinque mesi. "Sono, come si dice, da Achon insino a quello esercito de' Tartari, in Persia, 58 diete".

Fabrizio Loffi


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


Giovi

17 agosto 2021 10:56

W Federico II , W il torrazzo e anche l'elefante