28 novembre 2021

I migliori artisti del Terzo Reich per il primo film su Stradivari

Era il novembre del 1936 quando, in previsione delle celebrazioni del bicentenario stradivariano che si sarebbero tenute l’anno successivo, il comitato che si era appositamente costituito, tra le altre iniziative, proposte anche l’idea di realizzare un film su Antonio Stradivari, che si sarebbe dovuto girare interamente tra le vie di Cremona. La proposta fu fatta propria anche dall’Ente provinciale del Turismo, appena costituito sotto la presidenza di Tullo Bellomi. Se ne discusse nell’ultima seduta di quell’anno, ma poi non se ne fece nulla.

L’idea, tuttavia, non era per nulla originale. I cremonesi erano stati bruciati sul tempo dai tedeschi che, il 25 agosto 1935, avevano distribuito nelle sale cinematografiche “Stradivari” il primo film dedicato al grande liutaio, affidato al regista Géza von Bolvàry, con un cast che annoverava i migliori attori del momento. Una produzione franco-tedesca realizzata con grande dispendio di mezzi, cui seguì in ottobre, la versione francese intitolata “Stradivarius”.

Quasi novant’anni fa, dunque, venne realizzato il primo vero film, di oltre un’ora e mezza, con protagonista Stradivari ed i suoi violini, con una trama che, per alcuni versi, ricorda i contenuti del celebre “Violino rosso”, girato effettivamente nelle strade e nelle piazze di Cremona sessant’anni dopo, nel 1995, dal regista canadese François Girard.

Siamo nel 1914, poco prima della guerra mondiale, quando Sandor Teleky, un ufficiale austriaco, virtuoso del violino, viene in possesso per una eredità lasciata da uno zio di un prezioso strumento, che poi si scoprirà essere stato realizzato da Stradivari. Una leggenda vuole però che ogni possessore di quello strumento non riesca a conquistare la donna amata. L’ufficiale, innamoratosi di una musicista italiana non ricca, Maria Belloni, dà le dimissioni e accetta una scrittura in America per sposarla. Lo scoppio della guerra impedisce le loro nozze e divide i due fidanzati. Sandor torna al suo reggimento e non dà più notizie di sé per quattro anni. A Milano la giovane è corteggiata da un ufficiale medico, Pietro Rossi, che, ironia della sorte, è venuto in possesso del prezioso violino mentre cura l’ufficiale austriaco, raccolto gravemente ferito. Quando i due uomini si riconoscono innamorati della stessa fanciulla, l’ufficiale italiano, che ha la prova dell’affetto che la donna nutre per il suo primo fidanzato, si ritira lealmente ricongiungendo i due giovani. L’annuncio dell’armistizio pone fine alla tragedia bellica. Il film, prodotto da Fritz Fromm, fu distribuito dalla Boston Film di Berlino, ed ebbe un discreto successo grazie soprattutto al nome del regista ed al cast prestigioso.

Geza von Bolvary, regista ungherese naturalizzato austriaco, è stato particolarmente attivo in Germania e Austria a partire dagli anni Venti. Dopo una carriera da giornalista freelance ed attore, ha lavorato come regista dapprima per la casa di produzione Star Film, dove conobbe l’attrice ungherese Ilona Mattyasovszky che sposò nel 1923. Successivamente, nel 1922, fu assunto con un contratto di quattro anni dall’Emelka, la futura Bavaria Film di Monaco. Trasferitosi a Berlino, venne messo sotto contratto dalla casa cinematografica tedesca Fellner & Somlo per la quale diresse dal 1926 al 1928. Abbandonò la compagnia tedesca per trasferirsi a Londra dove lavorò circa un anno per la casa cinematografica britannica Associated British Picture Corporation (BIP). Nel 1930, diresse Due cuori a tempo di valzer, con Walter Janssen e Willi Forst, il suo primo lavoro apprezzato dalla critica e dal pubblico a livello internazionale. Con questo film, inaugurò un genere cinematografico che andò molto in voga tra gli anni trenta e gli anni quaranta, ovvero l’operetta musicale viennese di cui fu il principale rappresentante e per il quale si avvalse della collaborazione, oltre che del citato Forst, dello sceneggiatore Walter Reisch e del compositore Robert Stolz. Tra il 1923 ed il 1933, si dedicò soprattutto alla direzione di pellicole del genere commedia leggera, scoprendo talenti come Zarah Leander, Hilde Krahl, e Ilse Werner.

Il film di von Bolvàry si basava su una sceneggiatura di Ernst Marischka, altro pezzo da novanta di quegli anni. Specializzato in commedie musicali e in operette, fratello di Hubert Marischka, è famoso soprattutto per aver diretto i tre film dedicati a Sissi, l’imperatrice d’Austria e regina di Ungheria, interpretati da Romy Schneider tra il 1955 e il 1958. Marischka scrisse i versi di Vergiß mein nicht, la versione tedesca della celeberrima Non ti scordar di me di Ernesto de Curtis. Ernst scrisse la sua prima scenaggiatura per Alexander Kolowrat, un pioniere del cinema austriaco che a Vienna aveva fondato una propria casa di produzione, la Sascha Film.: Der Millionenonkel, film diretto da suo fratello, era una grossa produzione spettacolare che gli aprì la strada del cinema. Passò presto anche dietro la macchina da presa e firmò il suo primo film da regista nel 1915. Nella sua carriera, diresse trentacinque film. Ma il suo lavoro principale restò per tutta la vita quello di scrittore: specialista nel genere brillante, scrisse numerosi romanzi e commedie musicali. Lavorò in Austria, Germania, Italia, Francia e anche per gli Stati Uniti. Hollywood riprese alcuni dei suoi soggetti e delle sue sceneggiature come L’eterna armonia, film biografico su Chopin diretto da Charles Vidor e Parata di primavera diretto da Henry Koster del 1940 e interpretato da Deanna Durbin.

La parte del protagonista, Antonio Stradivari, fu affidata ad uno dei più apprezzati attori del regime, Veit Harlan che, come regista, rappresentò una delle figure chiave della cinematografia tedesca del Terzo Reich: sue sono alcune tra le più importanti opere di sostegno al nazismo, come Jud Süss (1940; Süss l’ebreo), Der grosse König (1942; Il grande re), per cui vinse la Coppa Mussolini per il miglior film straniero alla Mostra del cinema di Venezia, e il colossale Kolberg (1945; La cittadella degli eroi). Figlio dello scrittore Walter Harlan, studiò recitazione con M. Reihnardt, debuttando in teatro a Berlino nel 1915 come attore e l’anno successivo come assistente alla regia. Fu l’introduzione del sonoro, e dunque la possibilità del dialogo parlato, a favorire il suo tardivo esordio nella regia cinematografica che avvenne non casualmente con l’adattamento di una commedia, Krach im Hinterhaus (1935), che era stata da lui diretta a teatro. Prese il via così una prolifica carriera di autore, e spesso anche sceneggiatore, di film fondati soprattutto su grandi interpretazioni d’attore.

Un altro grande attore, Gustav Frölich, uno dei preferiti del regista austriaco, interpretava il ruolo dell’ufficiale Sandor Teleky. Per un trentennio fu uno degli attori più popolari del cinema tedesco, incarnando il personaggio dell’eroe positivo. Sorriso franco, sguardo diretto, atteggiamento spigliato e mondano, rivelò di avere il physique du rôle ideale per le commedie leggere, sentimentali e romantiche. Il suo primo ruolo di protagonista fu in Metropolis (1927), quando Fritz Lang gli affidò il personaggio del figlio dello scienziato, dittatore della megalopoli. Negli ultimi anni del cinema muto interpretò due significativi film di Joe May, Heimkehr (1928; Il canto del prigioniero), dove è un soldato prigioniero di guerra che torna in patria, e Asphalt (1929; Asfalto), in cui è un vigile urbano filisteo e borghese che si innamora di una ladra, mostrando di trovarsi a proprio agio nell’ambito del dramma psicologico e intimista.

Protagonista femminile del film, nel ruolo di Maria Belloni, Sybille Schmitz, prima diva del genere “fantasy”, femme fatale ed attrice enigmatica, dotata di una bellezza esotica, lontana anni luce dagli stereotipi della maliarda bionda e algida del cinema nordico. Era entrata nell’immaginario collettivo grazie ad una pellicola di due anni prima, “Vampyr” diretta dal danese Carl Theodor Dreyer nel 1932, cui aveva fatto seguito “The Master of the World” girato esattamente due anni dopo. Il film, già nel titolo, annunciava una storia di sortilegi e necrofilie. Nella parte di Leone, figlia di un castellano perseguitato da un vampiro che ne assedia le notti, la Schmitz si rivelò interprete di rara intuizione drammatica, passando, come in delirio, dai sorrisi di fanciulla ingenua alle smorfie di una creatura assetata di sangue.

Forse in quell’occasione la sua interpretazione si notò grazie anche all’accorta regia di un maestro del cinema danese, ma in seguito la forte espressività della Schmitz saprà emozionare anche lo spettatore più impassibile. Il film più interessante interpretato dalla Schmitz resta però Fährmann Maria (La barcaiola Maria), del 1936. Con enfasi espressionistica la Schmitz traghettava i passeggeri da una riva all’altra del fiume, inseguita da apocalittici cavalieri. Le molte situazioni drammatiche, la danza di Maria con la morte, la preghiera dei soldati scandita dal ferito febbricitante, venivano smorzate dal lieto fine, con cui Maria trovava la patria e l’amore.

Di certo il viso dell’attrice condizionò molto le sue apparizioni: impossibile immaginarla nei panni di una Gretchen spensierata con quello sguardo inquietante. Per lo più dette vita a caratteri di donne problematiche: fu George Sand in Valzer d’addio di Chopin (Abschiedswalzer, 1934), spia tenebrosa in Hotel Sacher (1939) e astuta principessa in Il capitano di ventura (Trenck, der Pandur, 1940). Ma la sua interpretazione più riuscita va individuata in La tragedia del Titanic (Titanic, 1942), rievocazione del famoso disastro del 1912 in cui il gigantesco transatlantico venne inghiottito dalle acque.

Fabrizio Loffi


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