Il convegno internazionale per i 500 anni della Chiesa di Santa Maria di Campagna e il ruolo di Piacenza nell'Italia nel Cinquecento
Quando fu posta la prima pietra della Basilica di Santa Maria di Campagna Piacenza - sotto il dominio dello Stato Pontificio - era una città importante dell’Italia del ‘500. E la zona dove ora sorge l’attuale santuario, sulla rotta della Via Francigena, aveva una grande forza di attrazione prima legata al culto dei martiri e poi mariano, quest’ultimo testimoniato dalla protezione della Madonna di Campagna invocata da Papa Clemente VII, nel 1527, per affrontare la minaccia del Sacco di Roma ad opera dei Lanzichenecchi. Questo uno dei tanti aspetti emersi dal convegno internazionale che si è tenuto oggi, sabato 9 aprile, nella Biblioteca del Convento di Campagna, nell’ambito delle Celebrazioni dei 500 anni del tempio retto dai Frati Minori, promosse dalla stessa Comunità francescana e dalla Banca di Piacenza e avviate domenica scorsa con la Messa solenne presieduta dal Cardinale Re alla presenza dei Ministri Guerini e Garavaglia e del Presidente Consob Savona.
La prospettiva internazionale nella quale la zona dove sorse il santuario era al tempo inserita, è stata trattata dal medievalista Franco Cardini, che ha citato gli episodi del Concilio di Piacenza della primavera 1095 («fatto fondamentale per le Crociate, molto più importante di Clermont») e l’incontro di Lucca fra Papa Urbano II e alcuni Principi francesi, alla presenza della contessa Matilde di Canossa e da Ivo Musajo Somma, dottore di ricerca in Storia medievale, che ha sottolineato come il Concilio di Piacenza fu una dimostrazione di forza per Urbano II e rappresentò l’avvio del fenomeno “crociate” in seguito al Sinodo di Clermont.
Scendendo alla scala locale, la forza di attrazione è strettamente legata al ruolo di santuario, prima legato al culto dei martiri e poi mariano, della zona ove oggi sorge Santa Maria di Campagna. Attraverso un controllo incrociato tra differenti fonti, Valeria Poli (curatrice scientifica del convegno), ha individuato nell’attuale edificio le tracce dell’antica cappella e del pozzo dei martiri, che trovano conferma nella lettura della fabbrica e nella documentazione grafica. Si tratta del risultato della volontà della Fabbriceria, che risulta emanazione di una componente eminentemente civica.
I rapporti di potere con il Duca e con i Frati, ai quali verrà assegnato il santuario, sono stati ricostruiti da Graziano Tonelli (già direttore dell’Archivio di Stato di Parma) grazie alla ricerca condotta sui documenti relativi alle controversie insorte dal 1605 al 1675, quindi ancora nel pieno governo farnesiano, tra la Congregazione della Fabbrica ed i Minori Osservanti.
La chiesa piacentina di Campagna, come ha evidenziato Carlo Mambriani (Ordinario di Storia dell’Architettura dell’Università di Parma), presenta molti aspetti comuni a Santa Maria della Steccata a Parma: la dedicazione mariana, la pianta centrale a quincunx coronata da cupola e i suoi riferimenti teorici, l’epoca di costruzione, l’eccellenza di architetti e pittori coinvolti e il ruolo cruciale della Comunità locale nelle vicende di genesi, sviluppo e gestione della fabbrica.
Alessio Tramello, progettista scelto dalla Fabbriceria nel 1522, reinterpreta con vivacità il lascito “lombardo” del maestro Bramante, probabilmente ignorandone o quasi le profonde novità romane. Bruno Adorni (già Ordinario in Storia dell’Architettura alle Università di Milano e Parma) ha precisato che però alla koinè lombarda Bramante aveva già dato un grande contributo di rinnovamento spaziale e architettonico, di cui Tramello sembra interpretare gli aspetti più innovativi.
Tra i debiti culturali di Tramello, oltre a Bramante, Jessica Gritti (Docente di Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica al Politecnico di Milano) ha ricordato anche Cesare Cesariano, del quale ha ricostruito i contatti con la cultura architettonica a Piacenza nel primo quarto del Cinquecento e non solo rispetto alla commissione al pittore milanese della pala per la chiesa di Sant’Eufemia e del suo presunto passaggio piacentino nel secondo decennio del secolo. Cesariano, infatti, potrebbe essere entrato in contatto con artisti e committenti legati alla città e ai territori limitrofi in diverse occasioni della sua carriera, che si individuano attraverso tracce presenti tra le righe del suo volgarizzamento del De architectura di Vitruvio.
Completato il cantiere architettonico, nel 1528, si avvia il programma iconografico affidato inizialmente al Pordenone. Edoardo Villata (in collegamento dall’Università di Shenyang, Cina), ha evidenziato come a Piacenza il pittore rinunci agli effetti di spettacolare illusionismo, prospettico e aprospettico, a favore di una più distesa vena narrativa nelle cappelle laterali e di una decorazione che, lungi dall’unificare lo spazio come nelle opere precedenti, sottolinea ed enfatizza la partitura architettonica nel tiburio. Si tratta di una svolta radicale e apparentemente imprevedibile, tesa a sottolineare le valenze decorative degli affreschi piuttosto che quelle drammatiche.
Caterina Furlan (già Ordinario di Storia dell’Arte moderna all’Università di Udine, grande esperta del pittore friulano) ha dal canto suo focalizzato l’attenzione su vari aspetti e problemi connessi con la “pittura” del tiburio da parte del Pordenone, sulla base di una rilettura dei documenti, dell’esame dei disegni esistenti (copie incluse) e di altri elementi, tra cui alcune inedite riprese fotografiche ad alta risoluzione, eseguite da Marco Stucchi, relative alla decorazione della lanterna.
Matteo Facchi (Università di Trento) ha infine ricostruito le vicende del gisant (scultura funeraria) raffigurante il beato Marco Fantuzzi, attualmente conservato in Santa Maria di Campagna. Il frate, francescano osservante, morì in città nel 1479 nel convento di Santa Maria di Nazareth. Nel 1626 le sue spoglie furono traslate nella basilica mariana e la sua tomba divenne subito oggetto di grande devozione popolare, per cui il padre guardiano fece costruire un sepolcro in marmo. Nella realizzazione della tomba è in qualche modo coinvolto Lazzaro Palazzi, scultore e architetto milanese, che è documentato attivo a Piacenza nel 1480. Nell’altare è inserito un meccanismo che permette di sollevare e rendere visibile il corpo del beato Marco dentro alla sua urna.
Ai relatori è stata consegnata - a ricordo della giornata di studi - La Medaglia della Banca di Piacenza, che ad inizio convegno aveva portato il suo saluto con l’intervento del condirettore generale Pietro Coppelli.
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