Il terribile segreto del Battaglione
Cà del Secco oggi non esiste più, ma il suo nome è legato ad una delle più cruente ed inutili battaglie dell'epoca viscontea, nota come la “battaglia di Sommo”, combattuta la mattina del 12 luglio 1427 da circa settantamila uomini armati al servizio del Ducato di Milano, della Repubblica di Firenze, della Repubblica di Venezia, del Ducato di Savoia e delle signorie di Mantova e Ferrara. Tra gli storici locali l'episodio d'arme non ha avuto molta eco e l'unico che ne parla è Lodovico Cavitelli nei suoi Annales (1588) che descrive “Casale de Sicis, nunc de Malumbris à civitate Cremonae per miliaria tria distans”, dove si era accampato con le proprie truppe Niccolò Piccinino, alleato di Francesco Sforza. A Sommo si era posizionato invece Francesco Bussone detto il Carmagnola, comandante dell'esercito della lega veneta, che aveva da poco abbandonato il Duca di Milano. Se non fosse stato superato per fama dalla Battaglia di Maclodio avvenuta pochi mesi dopo in ottobre, il terribile scontro combattuto tra Sommo con Porto e Cà del Secco, sarebbe passato alla storia per il gran numero di condottieri che vi parteciparono: le cronache del tempo ricordano il Conte Giorgio da Crema, Lodovico Michelotti, Lionello da Perugia, Raniere del Frigio, Bianchino da Feltro, Giovanni di Messer Marino, Petrolino dal Verme, Niccolò Fortebraccio, Fornaino da Bibienna, Rinaldo da Provenza, Bartolomeo da Gualdo, Riccio da Viterbo, Bernardo Morosini, Antonello da Siena, Guerriero da Marsciano e molti altri.
E' questo il motivo per cui la battaglia di Sommo è stata studiata soprattutto dagli esperti di araldica perchè all’epoca, oltre alle bandiere ufficiali, cioè quelle di nazione e del comandante in capo, si inalberavano anche gli stendardi dei capitani o signori. Guerniero Berni, autore nel 1472 del “Chronicon Eugubinum” descrive minuziosamente i nomi di quanti nell'esercito portavano gli stendardi: “Il Conte Carmignola tre Stendardi, il Biscione, Stendardo degli Scaglioni, ed un Stendardo a quartieri; la bandiera di san Marco, un’altra Bandiera della Lega dove era San Marco, il Giglio e la Croce Bianca del Duca di Savoia”. E di seguito aggiunge altri tredici possessori di bandiere: “Il Signor di Mantova, Il Signor di Faenza, Il Signor Giovanni da Camerino, Lo Stendardo del Marchese di Ferrara, Il magnifico Berardino de i Ubaldini, Niccolò da Tolentini, Pier Gian-Paolo Orsini, Il Signor Orsino Orsini, Il Signor Lorenzo da Codignola, Messer Pietro da Trani, Il Conte Aloisio dal Verme, Taddeo Marchese, Talvino Frolano”. Giovanni Cavalcanti, lo storico fiorentino che più di tutti ci fornisce particolari sulla battaglia nelle sue “Istorie fiorentine” composte in carcere, dove fu rinchiuso per debiti nel 1429, descrivendo l'arrivo dell'esercito milanese nei pressi di Sommo, scrive: “L’aria, pe’ tanti loro gonfaloni, pareva alle viste degli uomini fusse cangiante; conciossia cosa che le tante insegne erano di tanti diversi colori, che l’aria e la terra, con tutte le cose, parevano cangianti”.
Cavalcanti e il veneziano Giovanni Simonetta (Historie, Venezia 1544) sono i cronisti che indicano con più precisione il luogo della battaglia: il primo come “alla cà de Secca”, il secondo “alla Casa del Secco”. La località Summum è citata anche dal nostro Bartolomeo Platina, noto per essere l'autore del De Honesta Volputate, nelle sue “Historiae Mantuanae”. Il Cavalcanti precisa che il campo degli alleati era situato a Somma odierno Sommo con Porto, frazione del comune di San Daniele Po e che la casa del Secco era più avanti verso Cremona, dove c’era una ampissima e profonda fossa. Il Simonetta dice che il Carmagnola, come era sua abitudine, aveva circondato il campo con dei carri, quasi fossero un muro, dal lato del nemico e non lontano dai carri c’era una fossa molto difficile da passare. Ai bordi di questa si schierarono gli alleati e lì si svolse la parte iniziale dello scontro. Potrebbe essere un'ipotesi suggestiva identificare il luogo dello scontro poco lontano dall'attuale località Battaglione, dove in effetti in passato furono ritrovati frammenti di armi antiche che alcuni attribuirono ad uno scontro avvenuto nel 200 a.C. fra i coloni latini ed i Galli, ma che sicuramente sono di molti secoli posteriori. Alla battaglia parteciparono circa settantamila uomini, divisi fra i due eserciti, anche se i cronisti che se ne occuparono forniscono cifre spesso molto differenti tra di loro. Il Cavitelli, ad esempio, elenca 42.000 armati per i veneziani e 21.000 per i milanesi, il Platina parla di 37.000 soldati della lega veneta, escludendo i servi. C'erano poi i cavalli, i vivandieri, ed i marinai, in numero oscillante tra i 12 ed i 18 mila per entrambi gli schieramenti per quanto riguardi i primi, tra seimila e diecimila per i secondi ed i terzi. Un dispiegamento di forze impressionante.
L'esperto di araldica Massimo Predonzani alla battaglia di Sommo ha dedicato un corposo saggio pubblicato sul portale villaggiomedievale.com. I primi a muoversi furono i milanesi, animati dalla presenza dello stesso duca e comandati da Carlo Malatesta signore di Pesaro, da poco nominato capitano generale dal Duca su consiglio di Francesco Sforza. Quasi tutti i cronisti concordano nel dire che l’accampamento dei veneziani e alleati era protetto da una cinta di carri come usava il Carmagnola, il quale però questa volta fece uscire parte delle genti e li fece attestare dietro ad una fossa che si trovava più avanti, verso il nemico. Arrivati sul posto i milanesi rimasero nel dubbio se conveniva passarla oppure no. Secondo il Simonetta, i capitani viscontei Agnolo della Pergola e Guido Torelli, più vecchi ed esperti consigliarono di attendere che fossero i nemici i primi ad attraversare l’ostacolo, ma gli altri condottieri, desiderosi di venire alle mani, si misero a passare, primo tra tutti Francesco Sforza seguito da Cristoforo da Lavello e da Ardizzone da Carrara. Lo storico fiorentino Giovanni Cavalcanti è più preciso, e scrive che il Carmagnola “lungo quel burrato, pose assai gente a contendere che i nemici non passassino,.. e a quel luogo era assai vicino un bosco spinoso e salvatico, il quale in su gli argini di quella strada si stendeva; nel quale otto mila fanti, con balestra, lance ed altre armadure, il franco Carmagnola vi mise”.
Il primo ad attaccare fu Agnolo della Pergola ma visto che era difeso “colle balestre e con le giuste lance” che colpivano i soldati ordinò che fossero i suoi contadini a rimediare “al guastamento de’ suoi”. Egli infatti oltre la sua compagnia aveva come seguito, come riferisce sempre il Cavalcanti già dal 1426, un infinito numero di villani armati di scuri e di roncigli che usava per farsi aprire la via in mezzo a boschi selvatici o per farsi costruire ponti per attraversare fiumi . Velocemente questi contadini armati di pale, zappe e vanghe furono spinti dai fanti di Angelo sulla sponda del fosso con l’ordine di ricoprirlo. Questi si ritrovarono così con i nemici di fronte che li colpivano con verrettoni e lance e dietro con i soldati alleati che li spronavano percuotendoli alle spalle, non trovando scampo da nessuna parte. Fu una carneficina. “Agnolo faceva torre i morti; e non avendo egli riguardo de’ feriti, ma ciascuno faceva gittare nel fosso; e ricoprire subito di terra. E vi era tal padre che ricopriva il figliuolo; e tal figliuolo che ricopriva il padre; e così il zio il nipote, ed il nipote il zio, e l’un fratello l’altro; e così ogni cosa era crudeltà e omicidio”. Un vero e proprio massacro descritto crudamente dal Cavalcanti che conclude: “La crudeltà d’Agnolo fece tanti villani in quel fosso gittare, che con la riva del fosso tutto il pareggiò; e co’ cavalli sopra a que’ corpi, l’umano posticcio calpestando; passò, e sopra le nostre genti cominciò forte a battagliare”.
Lo scontro tra i due eserciti avvenne in aperta campagna tra la fossa e i carri: Antonello da Milano, capo squadra dei viscontei, con i suoi dall’ala sinistra attaccò i nemici al fianco e senza trovare resistenza entrò negli alloggiamenti della Lega uccidendo in parte gli uomini disarmati messi a guardia dei padiglioni, in parte facendoli prigionieri e mettendo il resto in fuga. Nel frattempo il grosso dei milanesi avevano spinto gli alleati dei veneziani fino ai carri dove il Carmagnola fu gettato da cavallo scatenando subito un’aspra lotta tra i nemici che cercavano di prenderlo e i suoi che lo difendevano. Alla fine i suoi famigli riuscirono a farlo montare su di un altro cavallo perdendo però molti di loro che furono fatti prigionieri.
Quando si sparse la voce che il Carmagnola era stato preso altri soldati milanesi seguendo seguendo lo stesso percorso fatto da Antonello entrarono nel campo dei collegati e si misero a saccheggiare tutto, specialmente gli alloggiamenti del signore di Mantova. Udito questo, il Carmagnola mandò subito truppe in soccorso al campo e i saccheggiatori, che erano senza alcun capo, furono messi in fuga. Dovette ritirarsi anche Antonello da Milano portandosi dietro alcuni prigionieri. Circa 500 milanesi furono fatti prigionieri attorno agli alloggiamenti.
La battaglia durò l'intera giornata innalzando nugoli di polvere al punto che non si distinguevano gli amici dai nemici e si era costretti a riconoscersi a voce. Fu pertanto necessario suonare le trombe a raccolta e ciascuno dei contendenti ritornò ai propri alloggiamenti. Lo stesso Cavalcanti racconta che la giornata era caldissima e che le donne cremonesi facevano la spola portando acqua ai combattenti milanesi, ma soprattutto con il gran caldo si corrompevano velocemente i corpi dei caduti: “e molti uomini dell’una parte e dell’altra vi morivano, e non meno di disagii che di busse. Il fiato del sangue, col puzzo delle tante carogne , fu cagione di molti morti, perocchè i cavalli sbudellati, e le interiora, mescolatamente, degli uomini e delle bestie, pel gran caldo, erano subitamente corrotte”.
Secondo il Cavalcanti, però, l'esito dello scontro non fu determinato dalla polvere ma dagli ottomila fanti che il conte di Carmagnola aveva nascosto nelle boschine vicino alla fossa, che con lance e balestre colpivano i soldati minalesi che non riuscivano a sfondare le linee nemiche. Tutti i cronisti sono concordi nel dire che le perdite furono ingentissime da entrambi le parti, un vero e proprio massacro, che si concluse senza vinti né vincitori. Con questo scontro Cremona fu salva e, lieto di questo, Filippo Maria Visconti ritornò a Milano da dove mandò Ladislao Giunigi figlio del signore di Lucca a Vercelli, per respingere un attacco delle truppe congiunte di Amedeo di Savoia e di Giangiacomo marchese del Monferrato, operazione portata a termine con successo. Il conte di Carmagnola invece, vista la difficoltà di prendere Cremona, si spostò a Casalmaggiore e susseguentemente nel bresciano, sempre seguito dai milanesi e infine a Maclodio, dove otterrà una delle sue più importanti vittorie della sua carriera. Ma è sopratutto ancora il Cavalcanti a porre l'accento sul massacro dei contadini inermi, a punto che anche i fanti fiorentini, stanchi di uccidere gente disarmata, si spostavano lungo la fossa cercando combattenti veri: “Ed alcuno de’ nostri, a cui pietà ne veniva, accennava in un luogo e dava in un altro: dove i nostri vedevano l’arme, percotevano; e dov’erano i panni, riguardavano”.
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