20 febbraio 2022

All'Italia serve un deciso cambio di passo e un ricambio d'aria

Che i ripetuti applausi tributati al discorso d’insediamento di Mattarella nei cruciali passaggi sull’urgenza delle riforme contenessero un retrogusto di innervosita ed equivoca trasversalità l’abbiamo sospettato un po’ tutti. E la realtà si è fin troppo presto incaricata di darci ragione. E’ il caso della riforma della giustizia.
Non appena la questione è transitata dal piano retoricamente unanimistico dei buoni propositi a quello ben più concreto e spinoso del passaggio ai fatti e alle scelte vincolanti ecco rispuntare il vecchio andazzo: draconiani a parole, bizantini nei fatti. Già avanza la selva dei ‘se’ e dei ‘ma’.…veti incrociati, calcolate prudenze, consumata arte di svuotare le potenzialità innovatrici di qualunque riforma sottoponendola al trattamento ‘rieducativo’ dei distinguo e delle ben dosate vaghezze in grado di farne la classica botte nuova in cui versare indisturbati il vino vecchio. Il costume è risaputo. Nel
complicato sistema Italia non c’è istanza seriamente riformatrice che non sia costretta a vedersela con l’antico retaggio di infinite quanto
coriacee resistenze corporative. Se la politica è, sotto tutti i cieli, arte del compromesso in Italia lo è più che altrove. Se guardiamo al passato, nessuno dei decisivi passaggi che dal secondo dopoguerra hanno guidato la nostra modernizzazione è stato esente da pressioni e vincoli conservativi che tuttavia non hanno impedito, per nostra fortuna. di pervenire a più che onorevoli compromessi. Ma quello era, appunto, il passato.
 
Il problema che si pone oggi è se – col fiato sul collo delle crescenti povertà da un lato e dei creditori europei dall’altro – disponiamo ancora di margini di manovra e di tempo per riprendere il vecchio andazzo. Nei nuovi schemi di gioco  imposti dalle circostanze certe tradizionali furbizie italiche non solo non sono più paganti ma rischiano di trasformarsi nell’anticamera della nostra Caporetto. Il che è ovviamente chiaro a tutti gli attori politici in commedia ma non è detto che si traduca in scelte conseguenti. Su due questioni, di differente natura ma analogo ruolo strategico ai fini della ripresa
economica, sarà il tempo a dirci molto presto se l’ottimismo è lecito. La prima è l’accennata riforma della giustizia, urgente per infinite
ragioni ma soprattutto per restituirci adeguata credibilità e capacità attrattiva agli occhi degli investitori internazionali dei cui capitali abbiamo impellente bisogno. Guai a cedere alla tentazione di gettare fumo negli occhi dell’Europa con un formale contentino, giusto per dimostrare che
l’Italia ha eseguito i compiti a casa e messo mano alle riforme. Magari l’Europa ci casca. Ma quel che fa la differenza è che non ci
cascherebbero i mercati e saremmo daccapo. L’altro tema nell’occhio del ciclone riguarda invece lo scontro sui famosi super bonus per
l’edilizia che, a fronte della consistente rimessa in moto di un settore notoriamente strategico, registra però un giro di frodi stimato sui 4,4 miliardi di cui 2,3 già sequestrati. Conservare il bonus, correggerlo, smontarlo? La posizione di Draghi, con significativa sponda di un ministro Giorgetti sempre meno salviniano, non pare prestarsi a dubbi interpretativi: l’edilizia è ormai in grado di farcela da sola senza bisogno di droghe dopanti. Superata
l’emergenza, al paziente si toglie l’ossigeno e si vede se è in grado di respirare da solo. In questa banalissima metafora stanno i termini,
nudi e crudi, del dilemma contro cui inevitabilmente, e auspicabilmente, il sistema Paese andrà a sbattere e sarà costretto
prender partito.
 
Per ora la politica si è necessariamente concentrata su procedure di distribuzione della ricchezza. La fase due, che un Draghi improvvisamente restio a nuovi scostamenti di bilancio ci sollecita a intraprendere, deve concentrarsi sulle procedure di produzione di ricchezza. Alcuni dati fanno riflettere. Dal recente rapporto della Caritas sulla distribuzione del reddito di cittadinanza nel 2021 emergono non solo significativi squilibri a danno del centro Nord ma soprattutto la sproporzionata fetta andata a discutibile beneficio di giovani maschi single del Sud. il problema del confine fra giusto e
ingiusto, fra doveroso sostegno al bisogno e distruttivo assistenzialismo emerge nella sua imbarazzante portata. E l’alternativa -forse l’ultima barriera realmente identitaria fra destra e sinistra – diventa ineludibile: in una fase come l’attuale è più strategico dare a chi ha bisogno o dare a chi ha merito? Cloroformizzata da anni di eccezionali emergenze, la faccenda non può evidentemente dormire in eterno se non al prezzo di trasformare il sistema Paese in un distributore di temporanei sollievi assistenziali necessari a mitigare povertà e bisogni di cui non riesce a rimuovere le cause strutturali. Assegni di sopravvivenza al posto del lavoro che non c’è. E’ profezia fin troppo facile dire che se la politica fallisce questa prova le sarà ben difficile risalire la china di una crisi di legittimazione che viene peraltro da lontano. Va cercata infatti nello sgretolamento dei blocchi sociali che in passato
affidavano ai rispettivi partiti di riferimento l’interpretazione e la tutela dei propri interessi. Proletariato industriale fedele al Pc, ceto medio alla Dc, nord est della piccola e media impresa terreno di caccia della Lega e così via. Persino il blocco sociale leghista è in via di sfaldamento. Il che la dice lunga su natura e profondità della crisi. La filiera che gestiva la rappresentanza degli interessi delle diverse categorie sociali è saltata insieme a tante altre componenti del passato, a cominciare dall’ assetto del mercato del lavoro.
Fra partiti e tessuto sociale è scattato un meccanismo perverso: al partito manca la terra sotto i piedi di uno stabile insediamento sociale e non sapendo come ricostruirlo, s’illude di cavarsela parlando d’altro….dai gay alle mascherine tutto fa brodo. L’elettorato mangia la foglia e, ovviamente, aumenta la sua disaffezione alla politica. Come se ne esce? Non senza una scossa che ispirata a una logica finalmente meritocratica tenda la mano a chi ha più filo da tessere in fatto di coraggio, operosità e capacità di rischio imprenditoriale e ricrei un nuovo blocco sociale in grado di fare da
volano alla ricostruzione del nostro tessuto industriale e produttivo.
Un tessuto massacrato da inadeguatezza di classi dirigenti ben prima che un bastardissimo virus gli desse il colpo di grazia.
Lo scontro sul super bonus edilizia va dunque molto oltre il caso specifico e diventa confronto politico, finalmente politico, fra visioni diverse del nostro futuro e delle condizioni necessarie a rimetterlo in sicurezza. Scatenando prevedibili tensioni sia fra i partiti che al loro interno lascerà molti feriti sul campo, ma il prezzo varrà il risultato se si capirà che, concesso per anni il megafono all’Italia dei bisogni a costo di imporre la sordina all’Italia dei meriti, è tempo ormai di un deciso cambio di passo e ricambio d’aria.
vittorianozanolli.it
Ada Ferrari


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