7 maggio 2022

Arte in Italia: la salvezza è nelle salsicce, nelle piante di fico e nella periferia

L’Italia è il paese dell’arte e dei fichi, crescono dappertutto senza averli piantati e non bisogna fare altro che raccogliere i frutti quando sono maturi, diceva il Daverio citando Purgatori.

Ed è proprio così: l’arte in Italia cresce ovunque senza aiutarla, nei luoghi più improbabili e nascosti, a prescindere dallo Stato, dai denari, dai progetti. L’arte in Italia è quasi una pianta infestante, come il fico.

In tantissimi stati europei gli artisti vengono finanziati e mantenuti, eppure si avanzano dei depositi pieni di ciarpame inguardabile. Qui in Italia, dove gli artisti non li aiuta praticamente nessuno, gli artisti sono ovunque. E danno anche frutti molto abbondanti, e a volte pure di gran qualità.

Il perché ha mille ragioni e forse nessuna: più probabilmente come diceva l’artista svizzero tedesco ma toscano di adozione, David Spoerri, è semplicemente un miracolo. Sta di fatto che è un miracolo che continua ad accadere. E nei luoghi più insperati, inarrestabile e improbabile come la crescita del fico.

L’altra sera sono sto agli estremi confini della metropoli, in una città-non-più-città fatta di capannoni  malandati e grandi stradoni mescolati a edifici residenziali di assurde mattonelle colorate e cascine abbandonate ricoperte di edere. Un luogo non luogo fatto di sinistri anfratti dove invece di annidarsi il pericolo si annida la speranza. In quella che era una vecchia officina sotto un enorme e surreale copertura di ferro e plastica, un gruppo di dieci ragazzi ha aperto uno spazio d’arte supercontemporanea. Pochi soldi, ma entusiasmo da vendere. Anzi, direi più una rigorosa coscienza del proprio desiderio personale e ruolo sociale. E siccome sono amici, invece di un bel  niente ti offrono salsicce arrotolate cotte su una brace arrugginita che affumica l’aria bagnata del diluvio maggiolino: in quella salsiccia supercontemporanea c’è il talento sano della comune parigina. Chez Plinio l’hanno chiamato, in omaggio a un personaggio di Ettore Scola. Nel rigore dolcissimo del sapere il fatto loro, come dei veri missionari gesuiti della periferia, stanno e fanno spinti dalla passione e affidati all’amicizia. Poteva essere un film di De Sica o Jean Vigo, di quel realismo che faceva diventare poeti gli operai e cantanti i pescatori: questi ragazzi fanno poesia di quei pezzi di città che sono stati abbandonati dal centro chirurgoplastificato dal mercato globale. Negli anni ’70 stavano in Brera al bar Jamaica, lì dove oggi si vende a 20.000 euro al metro quadrato. Ecco, la nuova Brera è la periferia estrema, e gli esempi sono numerosissimi, compreso, concedetemelo, la mia Cittadella al confine con Sesto San Giovanni.

La nostra speranza sta tutta lì. In queste lande periferiche cucite tra di loro peggio dei corpi del dottor  Frankenstein si sta spostando la cultura. Si sposta perché il centro è diventato inavvicinabile e totalmente markettizzato. Si sposta perché l’arte è come il fico, cresce dove meno te lo aspetti. E per crescere deve far fatica, o non è arte, o non è fico. E dà i suoi frutti generosamente, lasciando che li colga chiunque abbia di che avventurarsi agli estremi confini della curiosità.

A pochi metri da lì, settimana scorsa, altri due pazzi sognatori (anche se un po' meno ragazzi anagraficamente) lasciano una rivista internazionale ormai importante che avevano fondato, dedicata agli archivi e alla memoria, per crearne un'altra, e la chiamano “X” ( https://www.x-n1.com/ ): un pugno in pancia che dà un po' di nausea e non capisci cos’è, ma capisci che ti somiglia, che somiglia a quello che ci sta capitando intorno: è cupo e senza senso, ma è il nostro tempo. La presentano in un capannone mezzo abbandonato, avvolto da un fumo rossastro che sembra l’inferno di Dante, con un DJ giapponese vestito da diavolaccio e due DJ nigeriani che sembrano rapper americani, e fanno una musica che è come la rivista, come il nostro tempo: una cacofonia che però ti fa sentire a tuo agio, perché è il tuo tempo. In questo scenario a metà tra Blade Runner e uno snaff-movie, coi ragazzi che dondolano meccanici all’unisono alle lame dell’elettrotecno nippo-nigeriana, ho una illuminazione: la vecchia Europa non è finita, è ancora avanti a tutti, è in piena automutazione, cambia pelle -dolorante ma istintiva-verso nuovi mondi; è l’unico sintetizzatore possibile di tutte le distonie e i suoni dirompenti che i nuovi giganti mondiali, l’Oriente e l’Africa, stanno generando. E lo è perchè tutti loro scimmiottano noi, che siamo sfiniti perché ci siamo già passati, e forse stiamo un po' morendo a un’altra vita. Come il serpente che cambia pelle per non soffocare, e che mentre lo fa diventa bruttissimo.

E’ l’Avanguardia, che per fortuna non è morta nemmeno lei. Gli Avanguardisti di inizio ‘900 avevano la sana ambizione di mettersi davanti alle masse operaie e impiegatizie per indicargli un cammino d’arte-vita, anche se quelli non al capivano, e forse non al capivano nemmeno gli stessi avanguardisti. Oggi le masse operaie non ci sono più, e nemmeno quelle impiegatizie, tutto è fluido e individuale. E risicato. L’Avanguardia di oggi allora è un’Avanguardia logistica, periferica, che esiste se sguscia via dal formattato per tentare l’improbabile. Sperimentare, rischiare, cambiare pelle, cambiare schema, seguire l’istinto creativo e crescere sui muri della periferia invece che nelle aiuole borghesi dei parchi. Come i fichi.

Non lo stiamo capendo, ma lo stiamo facendo. C’è ancora speranza.

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

(la foto del professor Martelli è di Irina Mattioli)

Francesco Martelli


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