Attenti al demonio: ci vuole rubare il tempo!
In questo ultimo scorcio di anno liturgico che ci ha permesso di approfondire il Vangelo di Matteo – domenica 3 dicembre, con la prima di Avvento, inizieremo a meditare quello più diretto e ruvido di Marco – la liturgia ci sprona a riflettere sul valore del tempo che ci è concesso e sulla nostra capacità di vivere il nostro presente con intensità, con preveggenza, da protagonista e non da spettatori passivi. Il beato Piergiorgio Frassati, uno dei grandi santi piemontesi del Novecento, innamorato di Maria e delle montagne – era un assiduo frequentatore del santuario di Oropa e dei suoi stupendi sentieri – aveva coniato un motto molto semplice ma efficace: “Vivere non vivacchiare”. Nella sua breve esistenza egli, infatti, non si è lasciato vincere dalla routine, non si è fatto schiacciare da una abitudinarietà grigia e indolente, ma ha cavalcato la vita, appassionandosi alle cose che faceva, alle persone che incontrava, ai progetti che pianificava! Aveva a cuore le sorti del mondo, degli altri, della società in cui era immerso e questo perché si sentiva destinatario di un amore privilegiato da parte di Dio e percepiva di appartenere ad una storia e ad un popolo!
Uno dei grandi mali del nostro tempo è certamente quello della solitudine e non mi riferisco solo a quel senso di isolamento e abbandono che provano gli anziani o i tanti fragili della società, ma al fatto che non ci si sente più appartenere a nulla: né alla comunità civile, né a quella religiosa o ad un partito politico, ad un sindacato, ad un’associazione culturale o di volontariato. Questa “non appartenenza” genera sfiducia – soprattutto in sé stessi -, disimpegno, menefreghismo, ricerca esclusiva del proprio godimento e del proprio benessere anche a discapito di chi vive vicino. L’altro o gli altri vengono percepiti come degli estranei, se non addirittura degli intralci alla propria realizzazione personale, alla propria libertà! Il fenomeno sempre più diffuso delle baby gang e di quella piccola ma odiosa microcriminalità – i vandalismi contro la cosa pubblica sono in aumento - che comincia ad imperversare anche nei nostri piccoli paesi di provincia dice questa fatica a identificarsi con una comunità e a sentirsi promotori e responsabili del bene comune. E questo isolamento si è certamente acuito con l’attuale rivoluzione digitale della quale non abbiamo ancora chiaro gli effetti sull’uomo e sulle sue relazioni. Indubbiamente il digitale sta distorcendo la capacità dell’uomo di percepirsi nel presente, dentro una realtà concreta fatti di rapporti reali e dove spesso non si è in grado di comprendere quanto gravi e pervasive possano essere le conseguenze di certe azioni che si compiono: nella realtà il tasto “backspace” non c’è!
Nel Vangelo di questa penultima domenica dell’anno liturgico, Gesù, attraverso la parabola dei talenti, ci spiega che il primo grande straordinario dono di Dio è il tempo! Ad un ottimo esorcista, don Ambrogio Villa, dell’arcidiocesi di Milano, il demonio, durante una preghiera di liberazione, gli confidò: “Io rubo il tempo alle persone!”. Ed è vero! Uno dei grandi peccati di oggi è proprio sprecare il tempo: buttandolo via in attività in utili e dannose o usandolo per fare il male.
Se ci pensiamo bene il tempo è il “luogo” della manifestazione di Dio all’uomo: è, infatti, nel tempo che Dio si rende vivo e operante a favore del popolo d’Israele. Gli ebrei incontrano Jahvè nella loro storia fatta di schiavitù e di libertà, di peccato e di grazia, di entusiasmo e di avvilimento. Essi hanno capito che egli è buono e misericordioso non mettendosi a tavolino e spremendosi le meningi, ma vivendo la loro quotidianità, facendo esperienze buone e cattive… abitando il tempo! E in fondo il modo in cui noi “usiamo” del tempo dice il nostro approccio alla vita, le nostre passioni, le nostre ambizioni, il nostro desiderio di incidere sulla realtà. Il tempo, soprattutto quello feriale, svela il cuore dell’uomo: il suo essere fedele, coerente, attendibile, affidabile, ma anche creativo e propositivo. Vivere bene il tempo donato significa riconoscersi parte di una storia, avere una identità, appartenere a qualcuno! Non siamo frutti del caso, non siamo votati alla solitudine, non siamo schiavi di un presentismo che nega il passato e che non è capace di elevare lo sguardo al futuro.
Colpisce dell’uomo protagonista della parabola la fiducia, al limite dell’ingenuità: egli lascia parte dei suoi avere a questi servi senza indicare come impiegarli. A loro è chiesto di utilizzarli in piena libertà e creatività. Dio è così anche con noi: ci propone un progetto – la vocazione – che può renderci davvero felici, ma poi lascia a ciascuno non solo la scelta di aderire o meno, ma come concretizzarla. Alla fine, quando il padrone dei talenti torna da questo lungo viaggio – Dio, in un certo senso, deve allontanarsi da noi perché noi possiamo davvero esercitare la nostra libertà –, chiede conto ai suoi servi di come hanno impiegato i suoi beni. A noi chiederà come abbiamo impiegato il nostro tempo – solo per noi o anche per gli altri? -, se ci siamo sentiti parte di una storia condivisa, se ci siamo appartenuti gli uni agli altri.
La cosa più brutta che ci potrà capitare al termine della nostra vita sarà guardare indietro e dover ammettere sconsolati di avere “consumato il tempo inutilmente”. Una vita sprecata fa più paura della morte! E Satana, nel profondo dell’inferno, gongolerà!
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