In ascolto della voce del Pastore
Sono solo quattro i versetti del Vangelo secondo Giovanni che la liturgia ci fa ascoltare in questa quarta domenica di Pasqua. Quattro versetti che fanno parte di un discorso più ampio in cui Gesù, a Gerusalemme, nel Tempio, nei giorni in cui si celebra la festa della dedicazione del luogo di culto per eccellenza della fede ebraica, risponde ad una domanda dei Giudei che gli chiedono se egli sia o non sia il Cristo. Di fronte alla richiesta di questi uomini, Gesù afferma che solo coloro che gli appartengono ascoltano la sua voce. Solo chi si compromette con lui, in lui può riconoscere il Messia, il Cristo: per questi uomini che si pongono a distanza da lui non servono né parole né opere per smuoverli dalle loro precomprensioni e dai loro preconcetti. E tuttavia, parlando con loro Gesù va ben oltre quella che è la loro domanda. A chi gli chiede se egli sia il Cristo, Gesù afferma di essere “una cosa sola con il Padre”, cioè di tenere con il Dio che ha parlato ad Abramo e a Mosè lo stesso posto divino, la stessa identità. Per un cristiano si tratta di un’affermazione nota. Quante volte nella preghiera parliamo a Gesù e parliamo al Padre chiamandoli entrambi Dio e Signore? Quante volte si sente dire (e forse diciamo) che Gesù ha creato il mondo, indicando così, senza quasi rendersene conto che davvero “Gesù il Padre sono una cosa sola”?
Tutt’altra cosa è invece per un ebreo di ieri o di oggi affermare che esiste qualcuno uguale a Dio. Per la fede ebraica (così come per la fede islamica della quale sempre più spesso incontriamo fedeli) Dio è l’infinitamente unico, senza alcuno uguale a Lui. Nessuno può porsi accanto a Dio e se lo fa l’accusa è quella di blasfemia, di bestemmia, come è accaduto a Gesù dopo queste sue affermazioni.
Mi si perdonerà il lungo preambolo, ma mi sembrava indispensabile per non perderci in questi pochi versetti, tanto semplici quanto profondi per la nostra fede. Colti nel loro più ampio contesto è ora possibile fare nostra qualche particolare suggestione che la parola del Vangelo che ascoltiamo ci offre in questa domenica tradizionalmente detta “del buon Pastore”.
Andando in ordine nella lettura del testo, la prima suggestione che cogliamo è l’invito di Gesù ad essere “ascoltatori della sua voce”: le mie pecore ascoltano la mia voce. Letto nella nostra lingua si tratta di un’affermazione che dice qualcosa che può essere presente o che è chiamata a divenire presente per la vita. I discepoli di Gesù, qui indicati con la metafora delle pecore, sono coloro che si mettono in ascolto della voce del Signore Gesù, Maestro e Pastore. Si tratta di un ascolto quotidiano, familiare, amichevole, innamorato, appassionato, anche quando la sua voce è dura e tagliente, impegnativa ed esigente. Gesù ci dà la vita eterna perché ha parole di vita eterna, come ha detto Pietro qualche capitolo prima, sempre nel Vangelo secondo Giovanni (cfr. Gv 6, 68). Qualche volta per la mia vita mi chiedo se realmente ascolto la voce del Signore o mi illudo di conoscerla già, di sapere già chi lui è e quel che mi vuole dire. Oggi la Parola mi sprona a spogliarmi delle mie certezze, per accogliere parole non mie, parole vere, che provengono dalla pienezza di chi ha la vita eterna e che può donare alla nostra vita questa pienezza.
Proseguendo nella lettura Gesù ci dona una certezza di straordinaria consolazione: ciascuno di noi è custodito e protetto dalla tenerezza e dalla forza delle sue mani (mani del Padre e mani del Figlio). Dalle sue mani non ci strappa la violenza del ladro o la ferocia del lupo, dalle sue mani non ci strappa la debolezza della nostra esistenza, la poca fermezza della nostra volontà che spesso desidera quel che piace, piuttosto che quel che le fa bene. Nelle sue mani siamo custoditi, difesi, perdonati. Questo è quello che fa il buon Pastore, questo è quello che fa un padre amabile e amorevole che vuole il bene e il meglio per i suoi figli, anche se non tutti sono buoni come potrebbero essere, come lui desidera che siano. Eppure a nessuno fa mancare il suo amore.
Gesù ci può dire tutto questo perché Egli è con il Padre “una cosa sola”, come l’Evangelista già ci aveva detto all’inizio del suo racconto. Colui che è nel seno del Padre è Colui che conosce il Padre e del Padre ci può parlare non per sentito dire ma per “esperienza”. Gesù conosce Dio, essendo egli stesso Dio. questa è la grande pretesa del cristianesimo, la grande sfida che la nostra fede lancia al mondo e rivolge al cuore di ogni uomo. Una sfida che non è una contesa, ma una proposta, una provocazione per dare qualità di vita eterna alle nostre vite che si muovono nel tempo degli uomini e talvolta dal tempo umano sono travolte. Si tratta di una sfida che ha le stesse qualità della pace che il Risorto dona ai suoi discepoli, mostrandosi a loro vivo. Quelle qualità che ci ha ricordato Papa Leone nelle sue prime parole da pontefice: disarmata, disarmante, perseverante, una sfida che propone e offre vita, senza mai venir meno ma anche senza mai obbligare. Guardando al Signore, uno con il Padre, il cristiano accoglie ogni giorno la provocazione di un Dio talmente vicino da farsi uomo, di un Dio talmente Dio da voler gli uomini uniti a lui nella sua vita divina: oggi, mettendosi in ascolto della sua parola, oltre il tempo, vivendo per sempre in Colui che ha sconfitto la morte.
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