11 febbraio 2024

Come siamo distanti da quel "se vuoi..."

Si sa che la lebbra è una tra le malattie più terribili, dolorose e umilianti. Nonostante l’impegno di quel gigante della carità che fu Raoul Follereau, oltre che di centinaia di donne e uomini di buona volontà – operatori sanitari e missionari - il morbo è ancora diffuso in alcune zone dell’Asia e dell’Africa. Sarebbero bastati, diceva Follereau, i dollari necessari per acquistare due bombardieri per debellare definitivamente la malattia, ma nessun governante fu disposto a stanziare la cifra!

Al tempo di Gesù contrarre la lebbra significava essere considerati dei “morti che camminano”. Esiliati dalla comunità, questi individui vivevano soli e abbandonati, in grotte e capanne, lontano dai villaggi: si sostenevano grazie alla carità dei familiari o di persone misericordiose che portavano loro cibo, sempre stando a distanza. Se incontravano qualcuno, dovevano gridare “impuro, impuro”, così da mettere in guardia circa il rischio di contagio, che era altissimo! 

Per gli ebrei malattie o disabilità erano considerati una sorta di castigo di Dio per le colpe personali  o addirittura per quelle dei padri o delle madri: nell’episodio della guarigione del cieco nato è sintomatico che i discepoli prima di manifestare sentimenti di pietà e compassione, si domandino se avesse peccato lui o i suoi genitori (cfr. Gv 9, 1-7). Delitto e castigo!

Possiamo solo immaginare il cuore devastato di questi reietti che dovevano sopportare un dolore atroce – la malattia divora la carne inesorabilmente -, senza il conforto di una presenza amica e soprattutto senza la consolazione di Dio. Esseri umiliati e condannati, senza più un briciolo di speranza! 

Lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle durante la pandemia per Covid19: quando si è soli il dolore appare ancora più lancinante e invincibile e restano come tristi compagne solo l’angoscia e la disperazione. La condivisione della sofferenza lenisce, relativizza, attenua…

Il lebbroso, protagonista di questo Vangelo di metà febbraio, non è un fatalista, non si lascia imprigionare da un destino segnato, ha il coraggio di alzare lo sguardo e di dirigerlo verso chi può dargli un’altra possibilità di vita: la notizia delle tante guarigioni che Gesù ha compiuto, poco prima, alla porta di Cafarnao, si è certamente diffusa nel territorio circostante ed è arrivata alle sue orecchie.

E Gesù, di fronte alla situazione miserevole di quest’uomo, si arrabbia vigorosamente: nella traduzione CEI si parla di “compassione”, ma in realtà gli esegeti preferiscono usare il verbo “si adirò”. C’è sempre la tentazione di presentare un Gesù molto tenero, a volte zuccheroso… Cristo, in realtà, mostra sempre sentimenti forti, decisi, virili, mai contro gli uomini, ma sempre contro il peccato o le situazioni che avviliscono la dignità e la grandezza della persona! Gesù si arrabbia perché da una parte incrocia una malattia che aggredisce senza pietà una persona e dall’altra perché constata che la legge che l’ebreo si è dato incrementa la sofferenza e l’umiliazione, invece che lenirle e risolverle.  Ecco perché il primo gesto che compie è tendere la mano al lebbroso – azioni contrarissima alla legge ebraica! – così da stabilire con lui un rapporto di vicinanza, così da colmare quella distanza che gli uomini pii avevano decretato senza misericordia. Una distanza che non era solo di natura sanitaria, ma appunto religiosa.

Gesù è venuto nel mondo per liberare l’uomo da tutto ciò che lo atterra e lo mortifica, da tutto ciò che gli impedisce di entrare in relazione con Dio e con i fratelli, da tutto ciò che umilia la dignità.

Colpisce la delicatezza del lebbroso: egli avrebbe potuto manifestare rabbia e risentimento per un destino atroce, avrebbe potuto rivendicare una felicità che è diritto di tutti, avrebbe potuto puntare il dito contro una religione che disumanizza, invece si accosta a Gesù con decisione, ma anche con signorile garbo. Giganteggia quel “se vuoi” che precede “puoi purificarmi”. Egli ha compreso che Gesù ha il potere di sanarlo dalla lebbra, ma non gli forza la mano. Quest’uomo è come se si consegnasse totalmente a Cristo, è come se dicesse: “Mi fido, fai di me ciò che vuoi perché so che qualsiasi cosa tu compirai sarà per il mio bene!”. Marco, dopo la suocera di Pietro che sanata si mette subito a servire, ci presenta un altro grande modello di fede: non un sacerdote, non uno studioso della legge, non un “esseno” tutto dedito alla Scrittura e alla preghiera, ma un impuro, un vinto, uno sconfitto. Il lebbroso, prima ancora di essere guarito, gusta qualcosa di più grande: la salvezza. Egli è un salvato perché non pone condizioni a Dio, ma accetta tutto quello che Dio ha in serbo per lui. La sua è una preghiera che non costringe, non condiziona, non pretende, la sua preghiera è una totale apertura di cuore!

E la nostra preghiera com’è? È abbandono o è pretesa? È fiduciosa o è presuntuosa? È umile o è superba? Non a caso nell’unica “orazione” che Gesù ci ha consegnato, prima delle richieste – il pane e il perdono - egli ci ha insegnato a dire: “sia fatta la tua volontà?”. Ma ci rendiamo conto che tutte le volte che recitiamo il “Padre nostro” chiediamo a Dio di coinvolgerci nei suoi e non nei nostri progetti, di fare quello che ritiene più giusto e non quello che pensiamo noi? Proprio noi che dopo aver detto “sia fatta la tua volontà” gli spieghiamo per filo e per segno come pianificare il nostro futuro. Ipocrisia, distrazione, leggerezza? Mah… come siamo distanti da quel “se vuoi…”.

Claudio Rasoli


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commenti


Miriam Gregori

11 febbraio 2024 16:06

E’ stata data una luce a questo passo, che fa aprire gli occhi su una realtà , credo, molto comune che ci conduce su una strada sbagliata e pretestuosa.
Siamo fragili, ma nella posizione di preghiera ci riesce facile “dare delle dritte” a Dio, forse perché nella vita abbiamo raccolto qualche successo e non vogliamo vederci perdenti; si arriva a pensare che Dio già non sappia ciò di cui abbiamo bisogno.
Affrettiamo quindi la supplica secondo i nostri desiderata e … “Ti raccomando sia fatta la mia volontà’”.
Per quanto riguarda quella mano stesa di Gesù, parlando ad ampio raggio, oggi si è molto prudenti, direi schivi, viviamo in una società che non ci permette molto ottimismo e tendiamo così spesso a ritirare la nostra mano.