26 novembre 2023

Gesù Cristo, un impasto di contraddizioni affascinanti!

È come se si aprisse un imponente portale e ci ritrovassimo a contemplare un meraviglioso affresco, come quello che Michelangelo ha dipinto nella Cappella Sistina, carico di colori vivissimi, di corpi che si aprono alla gloria dell’amore e di altri che si contorcono negli spasimi di una vita imbruttita dall’egoismo e dall’odio. Al centro Cristo, possente e glorioso, con la mano alzata come a fermare il tempo e a tracciare una discriminante, una separazione.

In questa ultima domenica dell’anno liturgico celebriamo la festa di Cristo Re contemplandolo come il giudice del mondo, il ricapitolatore della storia, lo scrutatore del cuore umano. Eppure il suo giudizio non verterà tanto sulla venerazione che l’uomo gli ha mostrato, sulla devozione che gli è giustamente dovuta, sul riconoscimento della sua grandezza e onnipotenza, ma sulla cura prestata ai più piccoli e fragili, sullo sguardo che ciascuno di noi avrà avuto sul povero, sull’affamato, sul carcerato, sul malato, sullo straniero. Saremo guardati come noi abbiamo guardato gli altri!

Gesù non è certo malato di protagonismo, anzi egli ama nascondersi tra le pieghe della fragilità e dell’indigenza: fugge di fronte agli onori, ma si carica di tutti gli oneri di chi ama per primo. Egli non riesce a rinunciare a quella Croce che è stato lo stigma di tutta la sua esistenza terrena: continua a restarci inchiodato fino a quando l’ultimo uomo sulla terra non sarà riconosciuto nella sua dignità e nella sua grandezza, fino a quando il violento e l’arrogante non riconosceranno di aver sprecato la loro esistenza, di aver sbagliato tutto. È interessante notare che negli anni liturgici dedicati a Marco (anno b) e Luca (anno c) la liturgia di Cristo Re ci presenti Gesù durante la sua passione: il primo ci racconta del dialogo tra Gesù e Pilato e il secondo ci consegna l’atto estremo della sua crocifissione, mentre esala lo spirito. Due testi che correggono il nostro modo di intendere la regalità di Cristo – nel segno del servizio e dell’immolazione di sé e non della gloria e potenza – e che per certi versi cozzano con la scena che ci viene proposta in questa ultima domenica di novembre. In realtà si tratta di immagini complementari, l’una arricchisce e corregge l’altra e viceversa! 

Lo avevano capito anche gli artisti che hanno fatto della nostra Cattedrale la Cappella Sistina della Valle Padana. Quando si entra nel massimo tempio cittadino si è come rapiti dal Cristo Pantocratore (cioè Onnipotente) di Boccaccio Boccaccino che si impone nella scena del catino absidale. Un Gesù, ben piantato, siede solenne sul trono, con il libro aperto, attorniato dai santi della tradizione cremonese: Marcellino, Imerio, Omobono e Pietro esorcista. Ammirando questa opera d’arte, realizzata tra il 1506-1507, si viene investiti da un senso di piccolezza, quasi di spavento di fronte alla forza e all’imponenza del divino. La reazione, per gli uomini e le donne di quel tempo che non erano poi così avvezzi alle immagini come lo siamo noi, doveva essere di timore – il giudizio di Dio, inesorabile, raggiungerà tutti -, ma anche si rassicurazione, di protezione – la storia, nonostante il male che sembra imperversare e farla da padrone, troverà la sua ricapitolazione, il suo senso ultimo, solo in Dio! -.

Poi, uscendo, lo stesso fedele che aveva ricevuto un messaggio rassicurante e minaccioso al suo ingresso, si imbatte nel grandioso affresco della controfacciata che raffigura la crocifissione di Cristo. La straordinaria opera del Pordenone, appesantita da un cielo torvo, è un groviglio di corpi e di voci, di urla e di bestemmie, di sfide e di minacce, di disperazione e di solitudine. I ladroni si contorcono nell’ultimo spasimo che prelude la fine, la terra si squarcia, schiantata dal dolore per la morte di Dio, Maria, quasi svenuta per l’atroce destino del Figlio, è confortata dalle pie donne, il centurione, in primo piano, raffigurato come un lanzichenecco, indica, come inebetito, un Cristo, composto nella sua dignità, ma pur sempre sofferente, inerme, fragile. Un senso di pietà e di impotenza, di mestizia e di gratitudine assalgono lo spettatore. È proprio l’immagine di un Dio che si incunea - come la Croce nella terra ruvida del Golgata - nell’abisso di malvagia mostruosità dell’uomo, per portare la luce, tenue ma inesorabile dell’amore, del perdono, della speranza. Di fronte a questo Dio che raccoglie le ultime forze per esalare l’ultimo respiro, non si può che provare stupore e compassione. E non si può negare che solo l’amore sconfitto e umiliato, ma allo stesso tempo vivo e fecondo, può cambiare le sorti della storia o almeno può confonderla nelle sue tronfie certezze, nelle sue plateali arroganze!

Ebbene noi abbiamo bisogno di entrambi questi “Cristi”! Quello potente e glorioso che ci assicura che Lui è il senso, il significato, la sorgente e il termine ultimo della realtà, del tempo, della storia, e quello confitto al legno della Croce: lo sconfitto, l’impotente, l’amante. Dio è questo impasto di contraddizioni, di paradossi… per tale ragione ne subiamo il fascino per la sua grandezza e maestosità e contemporaneamente proviamo compassione, tenerezza e gratitudine per questa sua prossimità alla nostra vita, fino all’effusione del sangue.

 

Claudio Rasoli


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