Gli archivi: verità fisica e realtà virtuale al tempo della pandemia
C’è una scena che ha fatto la storia del cinema, nel film La Grande Illusion di Jean Renoir: il capitano Von Rauffenstein, ufficiale e aristocratico tedesco, recide l’unico geranio di tutta la sua fortezza per commemorare il suo parigrado e prigioniero francese Boeldieu, anch’egli aristocratico, che è stato costretto suo malgrado a fucilare in quanto eroico responsabile della fuga di alcuni soldati francesi, figli di contadini, che invece si salveranno scaltramente.
E’ forse questa la più poetica rappresentazione di quel cambiamento epocale che fu la prima guerra mondiale: la società delle corti aristocratiche viene spazzata via e sostituita dalla società delle masse. Mirabilmente comprese da Ortega y Gasset ne La Ribeliòn del las masas, si affacciano sull’Europa le grandi ideologie di massa, che vedono un solo “leader” a capo del suo popolo, senza intermediari, senza aristocrazie. Hitler, Mussolini, Stalin: capi assoluti che governano una massa omogenea attraverso enormi ed anonimi apparati statali. Nasce la burocrazia (dal franco-greco bureau-kratòs): il sistema di potere degli uffici statali.
E ha inizio così anche la rivoluzione degli archivi, un tempo parenti minori delle grandi Cancellerie che dichiaravano guerra e sancivano pace tra le aristocrazie europee, in un gioco elegante e complesso di trame e poteri: con l’avvento della burocrazia gli archivi diventano strumento imprescindibile del potere assoluto, che per attuare il proprio disegno ideologico trasmette milioni di ordini scritti ai propri grigi apparati statali. Ordini che vanno conservati fisicamente in luoghi deputati: gli archivi appunto.
E mentre le Cancellerie emanavano documenti redatti in un perfetto linguaggio politico, ritualmente al servizio del proprio principe, gli archivi si formavano per sedimentazione di masse enormi di scarni documenti, destinati solo a trasmettere decisioni e attuazioni delle stesse, e dunque necessariamente “veritieri”.
Ecco perché oggi gli archivi, loro malgrado, sono divenuti primaria fonte di verità storica. Verità, molto più che memoria, che è invece la parola che più comunemente associamo agli archivi. Il censimento fascista degli Ebrei nel 1938 o le purghe staliniane degli anni ’30: perfino i più vergognosi crimini di stato lasciano traccia negli archivi, perché anche quei crimini per venire commessi necessitano di ordini da trasmettere. E da conservare.
Ma c’è un’altra parola che trova negli archivi un fondamento: identità. Quando Napoleone nomina Francois Daunou “Gard des Archives”, con il compito di portare a Parigi tutti gli archivi dei regni conquistati dall’Impero e fondare un grande Archivio d’Europa, questi gli raccomanda di portare via gli antichi statuti dei comuni italiani, onde evitare che in futuro potessero ritrovare fondamento moti e idee di indipendenza. Ecco che dunque, in maniera assolutamente interessante, si innesta la terza parola che leghiamo all’archivio: luogo fisico.
Per quale motivo Napoleone riteneva necessario sottrarre la carta fisica per stemperare le pretese di indipendenza degli stati italiani? Perché in fondo il contatto con il passato è molto più reale ed impressionante quando si entra in contatto con qualcosa che si può toccare, come un documento: è lo stupore che si legge sul viso di ogni visitatore cui si mostrano dei documenti antichi, la sensazione di trovarsi fisicamente davanti alla storia, la conferma che quanto ci è stato narrato è realmente accaduto.
Il che apre una questione oggi abissale: che succederà con il digitale? Ripenso per esempio alle lettere di fuoco tra Paolo Grassi e Giorgio Strehler quando discutevano il destino del Piccolo Teatro…Tra vent’anni qualcuno avrà modo di leggere uno scambio di e-mails per raccontare una vicenda simile..? Qualche anno fa in Finlandia, per segnalare ai posteri lo stoccaggio di scorie nucleari, che hanno 500 anni di radioattività, si scelse di mettere una pergamena scritta a matita in varie lingue dentro una colonna di piombo: pergamena e grafite sono dunque ancora oggi considerati i due supporti più universali e resistenti al tempo, e non il digitale?
Chi scrive ha con il digitale un rapporto controverso: lo ritengo uno strumento straordinario di divulgazione di incontro e di conoscenza, ma assolutamente non un sostitutivo della carta e in generale della realtà fisica, anche nei rapporti sociali. Tanto è vero che oggi, su questi contenitori incredibili che sono i social, i canali digitali e gli smartphones imperversano i revivals degli anni ’80. Perché? Cosa resterà di questa nostra contemporaneità così fluida e bulimica, che divora miliardi di immagini al secondo e che dimentica tutto subito? Cosa potremo realmente giudicare di questa pandemia che a volte pare essere più mediatica che clinica, più virtuale che fisica? Che cosa resterà di tutti questi incontri “da remoto” in luoghi virtuali? Rischiamo veramente di rimanere bloccati al ‘900 per avere delle testimonianze storiche in qualche modo dirette? Ci attende davvero l’incubo “settantottino” del lavoratore monade isolato davanti ad un computer dentro la propria anonima stanza?
Domande che ad oggi ci paiono più paure ansiose che reali pericoli. Ma come diceva Alfred Hitchcock “chi scappa, fa molta più paura del “perché” scappa”…
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di Archivistica all’Università degli Studi di Milano
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