Il mondo ha bisogno di meglio
In quanto italiani siamo giustamente orgogliosi delle opere d’arte che ci circondano, della bellezza in cui siamo immersi, spesso inconsapevolmente. Se non tutte le opere sono state create “per la maggior gloria di Dio”, certamente moltissime sono a Lui riconducibili perché a Lui orientate. Qualcosa di simile valeva per il Tempio di Gerusalemme, luogo dell’incontro di Dio con il suo popolo, restaurato, ampliato e arricchito di spazi e cortili da Erode il Grande, che aveva intrapreso questi lavori forse anche come celebrazione di sé, per porsi accanto al ricordo dei grandi re di Israele che il Tempio lo avevano voluto e costruito, Davide e Salomone.
Il Tempio, “ornato di belle pietre e di doni votivi” (Lc 21,5), era opera maestosa che suscitava l’ammirazione di quanti vi si recavano in pellegrinaggio. Per gli israeliti che vi celebravano il culto, inoltre, era un luogo di consolazione, uno spazio in cui essere sicuri accanto alla presenza di Dio: i romani non vi entravano, i pagani ne erano esclusi, i pubblici peccatori non vi accedevano, i rapporti sociali erano ordinati perché fino ad un certo punto arrivavano le donne, oltre solo gli uomini.
Il luogo ispirava “trascendenza”: dalla terra portava in cielo.
Tuttavia Gesù sentendo l’elogio di questo luogo dice: “Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta” (v.6). Queste parole suscitano la curiosità degli ascoltatori che a Gesù chiedono: “quando?”. Nel momento in cui Luca scrive, c’è una risposta precisa, poiché si tratta di un evento già accaduto: il Tempio fu distrutto ad opera di Tito, nell’anno 70.
Gesù non risponde alla domanda, perché le sue parole non intendono riferirsi ad un “quando” della storia, ma a “come” stare nella storia. Per questo sono vere e buone anche oggi, riascoltandole da cristiani.
Il cristiano sta nella storia guardandosi dalle mode: le mode dei valori effimeri, le mode della cultura, le mode della soddisfazione personale, le mode della pubblicità e dei doveri imposti dalla mentalità corrente. Gesù mette in guardia da falsi messia che si pretendono autorità (“sono io”), offrendo salvezze a buon mercato: per stare bene, per essere felici, per ritrovare se stessi, svendendosi a qualcuno o al qualcosa. Proposte di libertà che imprigionano con catene che ci si forgia da soli: cliccando, curiosando, provando, iscrivendosi. Si svende la propria libertà quando non si riesce a controllarsi e si deve saperne di più, guardare di più, provare di più. Insaziabili e svuotati, si diviene schiavi senza rendersene conto, poiché le servitù volontarie affasciano più che la fatica per l’autentica libertà a servizio del bene, per la verità, per la giustizia a tutti riconosciuta.
Il cristiano sta nella storia in mezzo a situazioni complesse: guerre, rivoluzioni, terremoti, carestie, pestilenze. La barbarie dell’uomo e la violenza della natura non sono segni della fine, sono situazioni che accadono: “prima devono avvenire queste cose” (v. 10), dice Gesù. Si tratta di accadimenti che il cristiano abita, da credente, da uomo e donna di fede e di speranza. Le fatiche del mondo sono il luogo e il tempo dei miracoli, prima di tutto quello della carità che porta soccorso, che cura le ferite, che si fa vicina a chi è nel bisogno con la consolazione e il pane. Avevamo un sogno: debellare la guerra, superare la fame, vincere le malattie e la morte. Ci rendiamo conto che non ci siamo ancora riusciti, che forse non ci riusciremo mai: le guerre ancora si iniziano, la povertà è ancora una dura realtà per tante, troppe persone; le malattie colpiscono anche oggi, adulti e persino bambini. Non potendo vincere la storia, con le sue spigolose concretezze, si è chiamati ad abitarla e a guardarla con uno sguardo diverso: quello della speranza nel Signore risorto. Non facciamo nuovo il mondo, non possiamo; abitiamo il mondo con uno stile nuovo, questo lo possiamo fare, anche se molti non lo capiscono e lo deridono.
Il cristiano sta nella storia, pertanto, consapevole dell’incomprensione che si manifesta ogni qualvolta si va controcorrente, con la possibilità che essa giunga alla persecuzione. A volte c’è qualcuno che esplicitamente blocca, altre volte si tratta solo della fatica che prova chi va al contrario rispetto ai più. La persecuzione è fuori di sé, ma è anche dentro di sé, perché a volte è dentro sé stessi che si perde la convinzione di quel che si vive e di quel che si crede: “Chi me lo fa fare?”. Perché pregare quando sembra non servire a nulla? Perché rispettare la fedeltà nel matrimonio, la castità nel fidanzamento, l’onestà sul lavoro, la sincerità con le persone, la lealtà nei rapporti e nelle amicizie, i propri doveri verso la società? Perché non fare come fanno tanti? C’è solo una risposta possibile a questa domanda: per fede. Solo affidandosi a Dio e fidandosi di Gesù ha senso perseverare, anche quando tutto e tutti dicono il contrario, quando la fatica si fa sentire, lo scoraggiamento colpisce, l’opposizione sembra insopportabile.
È solo a partire dalla fiducia sempre rinnovata in chi ha vinto la morte che diventa possibile sopportare ogni fatica per dare al mondo il meglio ciò di cui ha bisogno.
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