La gratitudine, il respiro grande della fede
Se il nostro cuore non coltiva quotidianamente la gratitudine rischia di inaridirsi e di incupirsi, di lasciarsi stritolare dagli ingranaggi della abitudinarietà. La gratitudine nasce dalla meraviglia di sentirsi favoriti in maniera inaspettata e, spesso, immeritata.
Grato è il cuore che sa cogliere in profondità tutte le sfaccettature della realtà in cui è immerso: il superficiale, il rozzo, il distratto vivendo costantemente a pelo d’acqua non assaporano la profondità e la ricchezza dell’esistenza, trascinano la propria vita in una grigia routine dove non c’è spazio per l’imprevisto e le novità.
Grato è il cuore che è ben piantato nel “presente” e lo accetta con tutte le sue sfide, contraddizione e potenziali, senza, cioè, rimanere imprigionato nei rimpianti per il tempo passato che come tutti i tempi ha le sue pecche come le sue grandezze e senza nessuna fuga in avanti verso un futuro immaginifico ed illusorio.
Grato è il cuore umile che sa che la felicità, la pienezza del vivere, la realizzazione della propria umanità non è solo il prodotto del proprio impegno, ma il risultato di un vero e proprio lavoro di squadra! Siamo quello che siamo – con i nostri pregi e i nostri difetti – grazie ad un lento processo di maturazione che vede tanti attori impegnati: da Dio ai familiari, dagli educatori e maestri agli amici financo i nemici e quanti creano solo difficoltà e impedimenti. Nel vocabolario cristiano non ci può essere spazio per certe frasi dal sapore tronfio e arrogante come “Mi sono fatto da solo!”: una persona del genere è portata a credere che il merito del proprio successo è solo suo, delle sue forze, delle sue intuizioni e fatiche! Una persona così superba e altezzosa non riuscirà mai a dire “grazie” e ad avere uno sguardo incantato sulla realtà!
Grato è il cuore che ha uno sguardo eucaristico sul mondo che, cioè, considera ciò che lo circonda un dono da accogliere con riconoscenza e non una preda da catturare a tutti i costi, soprattutto a discapito del prossimo e della natura. Grato è il cuore delicato, discreto, attento, che non dà mai nulla per scontato, ma che è capace di emozionarsi dinanzi ad un piccolo fiore tra il cemento o per la carezza di una persona amata.
La gratitudine è il grande respiro della fede perché la fede si nutre, cresce, matura proprio a partire dalla gratitudine, dal riconoscere, cioè, di essere continuamente abbracciata da un amore immeritato, da un “favoritismo” senza precedenti: è indubbio che sulla terra l’uomo, ogni uomo, è il favorito di Dio! E di fronte a questa situazione di privilegio assoluto non si può che provare una gioia indicibile, una irrefrenabile contentezza. È come vincere alla lotteria senza aver acquistato il biglietto! Certo poi bisogna andare ad incassare il premio e amministrarlo con intelligenza e oculatezza. E il nostro premio è la vita che non ha fine, la figliolanza divina, l’essere chiamati a gustare le vette sublimi dell’amore!
Nel Vangelo di questa domenica, seconda di ottobre, cioè che manca ai primi ospiti è la capacità di stupirsi, cioè di andare in profondità: essi sono talmente accecati dalla superficialità del vivere, dalla frenesia delle cose che devono fare, dai progetti che devono portare a compimento da non accorgersi della grandezza dell’invito di cui sono destinatari. Essi cercano una felicità che mai potrà appagarli e non si rendono conto di averla a portata di mano! E quello che capita anche a tanti cristiani: preferire le cose del mondo con l’illusoria speranza di trovare in esso un significato plausibile per vivere, ignorando che solo Dio è il senso ultimo di tutto, della vita e della morte, della sofferenza e della gioia. E chi è immerso in quest’ottica miope e limitata non avrà altro destino che le fiamme dell’inferno, cioè il fallimento totale della propria umanità.
Nella parabola di Matteo ciò che colpisce è, comunque, l’ostinazione del Re nel voler celebrare e festeggiare le nozze tra suo figlio e questa sposa che mai viene citata e descritta. In poche battute Gesù descrive la storia della salvezza, la storia cioè di un amore mancato, non corrisposto, soprattutto da chi in Israele – molti dei capi dei sacerdoti e dei farisei – usano Dio come strumento per affermare sé stessi e la propria visione sul mondo! E questa storia parte da Israele, ma ha come suo destinatario ultimo l’umanità intera: ed ecco allora altri servi – prima erano i profeti adesso sono gli apostoli – inviati fino alla fine delle vie – cioè ai confini del mondo – a chiamare tutti, i buoni come i cattivi. Dio - credo che ormai lo abbiamo imparato bene - non ne fa una questione morale, ma di fiducia. A Dio, cioè, non importa se siamo bravi o cattivi, ma se ci fidiamo di lui e facciamo quello che ci dice: in questo modo anche il cattivo, se animato dalla sincerità, diventerà buono!
È chiaro però che questo invito bisogna prenderlo sul serio: l’abito della festa, richiesto per il banchetto, non è l’altro che la consapevolezza di essere chiamati a qualcosa di grande, di bello, di impegnativo, che richiede la messa in discussione di sé stessi e la disponibilità a cambiare. L’abito della festa può proprio essere inteso come la risposta grata ad un invito ad una festa strepitosa, dove poter godere di buon cibo e di una compagnia di amici senza uguali.
D’altra parte anche la storia cristiana ci insegna che non ci si converte per paura del giudizio divino, ma mossi dallo stupore di aver incontrato un Dio che ha perso la testa per noi e che ci continua a regalare le cose più belle! Ci si converte spinti dalla gratitudine, il respiro grande della fede!
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