10 giugno 2022

Pregiudizi e luoghi comuni sui referendum

I referendum (che in Italia sono soltanto abrogativi e con il quorum) sono da sempre invisi ai partiti politici. Soprattutto al partito più partito degli altri: il Pci-Pds-Pd. Non è un caso che la legge attuativa dell'art. 75 della Costituzione – che affida ai cittadini la seconda scheda elettorale, quella referendaria – sia stata approvata con ben 24 anni di ritardo e soltanto per “risarcire” il mondo cattolico dopo l'approvazione della legge sul divorzio.

Nonostante gli innumerevoli ostacoli burocratici che rendono assai difficile la presentazione di quesiti referendari (ai quali si sono aggiunti i criteri sempre più estensivi di inammissibilità da parte della Corte Costituzionale) è innegabile che i referendum hanno cambiato la storia di questo paese sia sul fronte dei diritti civili e sia sul fronte del sistema politico. Basta ricordare il referendum sulla preferenza unica del 1991. Quindi con un Sì o con un No spesso si cambia, anche in modo radicale.

Forse proprio per questo il “sistema” (il sistema dei partiti, il sistema informativo, il sistema delle corporazioni spesso intoccabili, ecc.) ha sempre cercato di boicottare lo strumento referendario. Operazione oggi più semplice a causa della crescente disaffezione alle urne dei cittadini che rende sempre più difficile il raggiungimento del quorum.

Pertanto affossare i referendum, di questi tempi, è un gioco da ragazzi. Basta, da una parte, staccare la spina del servizio pubblico informativo (terra di conquista dei partiti) e, dall'altra, screditare le proposte referendarie facendo ricorso a veri e propri luoghi comuni. Eccone alcuni: 

a) i referendum devono riguardare solo grandi temi o macro-principi (divorzio, aborto). Mi chiedo: ma la Giustizia, e quindi il buon funzionamento della giustizia, non è un grande problema che interessa tutti i cittadini? Marco Pannella la definiva la più grande questione sociale del nostro paese. E' nell'interesse di tutti avere una giustizia giusta, efficiente e competente;

b) i quesiti referendari sono troppo tecnici e quindi incomprensibili. Si dimentica però che il tecnicismo dei quesiti è reso obbligatorio dalla natura abrogativa del referendum ma non impedisce la comprensione della materia. E' sufficiente andare a rileggersi i quesiti referendari riguardanti l'aborto e le centrali nucleari, autentiche complicatissime 'lenzuolate'. Eppure era chiaro a tutti su che cosa si votava. Lo stesso si può dire dei quesiti sulla giustizia. Anziché perdersi nei tecnicismi è sufficiente andare al cuore delle questioni sollevate dai referendum che mirano a: mettere fine alle correnti e ai giochi di potere in magistratura; impedire le porte girevoli fra PM e giudici; dire basta ai magistrati che giudicano altri magistrati; dire basta ad un uso politico della giustizia; dire basta innocenti in carcere. Il confronto pubblico andrebbe fatto su questo;

c) le riforme si fanno in Parlamento e non per via referendaria. Magari. In realtà i governi e i parlamenti che si sono succeduti prima e dopo il “referendum Tortora” del 1987 (clamorosamente tradito) non hanno mai avuto la volontà politica di riformare in modo strutturale la Giustizia, anche se la crescente e pericolosa perdita di credibilità della magistratura sta determinando una presa di coscienza pubblica sempre più diffusa.

I referendum del 12 giugno, al di là dell'esito numerico, hanno già determinato un primo importante risultato: rompere l'inerzia politica e innescare finalmente quel drastico e ampio processo di riforma della giustizia italiana, auspicato anche dalle massime istituzioni europee.

consigliere generale del Partito Radicale

Sergio Ravelli


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