Presepe, soprammobile o provocazione?
In questi giorni di festa occupiamo un po’ del nostro tempo a contemplare il presepio: la rustica capanna che appena ripara il bambinello dalle braccia sempre tenacemente aperte sul mondo, Maria protesa verso di lui per percepire il tenero respiro, Giuseppe aggrappato al nodoso bastone, forte e mite, taciturno e coraggioso e poi il bue e l’asinello, i pastori, le pecorelle che brucano il muschio ancora odoroso, la cometa che brilla accanto a tante piccole stelle.
Ma come lo guardiamo il presepe? Come un’opera d’arte? Magari arricchita da congegni di ultima generazione che regolano il flusso dell’acqua o l’alternarsi della notte e del giorno! Come un giocattolo o un ricordo dell’infanzia che serve solo a suscitare emozioni antiche? Come una bella rappresentazione che riassume i tanti buoni sentimenti che coltiviamo in questi giorni di luci e regali? Oppure guardiamo al presepe come una provocazione, la più grande provocazione della storia umana? Sì, perché il presepe dovrebbe servire, non tanto ad abbellire le nostre case, ma per farci meditare più seriamente sulla nostra fede cristiana! Perché il presepe, prima di essere un segno culturale identitario è un atto di fede.
E allora cosa vediamo nel presepe?
Anzitutto la madre, Maria, lieta e assorta nella comprensione dell’ora ineffabile e dolce che sta vivendo; la Vergine dall’animo sereno e dal cuore gonfio d’amore! È una immagine che sembra sfidare la sfrenata ricerca di noi stessi - stigma di questo tempo scellerato -, di un godimento puramente egoistico, di quella logica di possesso dell’altro che spesso sfocia nella violenza e nel disprezzo. Maria, con il suo cuore puro, ci insegna che si può e si deve amare senza cercare nulla in cambio, se non la gioia del donare. La giovane donna di Nazareth ci indica la bellezza dell’amore casto, cioè fedele e libero, al quale ancora e nonostante tutto il mondo si inchina commosso e stupito.
Vediamo poi un padre, Giuseppe, muto e pensieroso dinanzi al miracolo di una nuova vita. Questo uomo essenziale e giusto ci insegna come accostarci al mistero di Dio: con rispetto e meraviglia. Due atteggiamenti essenziali per il credente! Il rispetto potremmo tradurlo anche con il termine antico di santo timore di Dio, tanto insegnato un tempo dalle nostre buone nonne. Timore, non paura! Timore di fronte alla maestà divina che si fa piccola e inerme, di fronte a un Dio sempre imprevedibile, ma infiammato di passione per l’umanità. E poi la meraviglia: non c’è fede senza stupore, senza la capacità ogni volta di rimanere a bocca aperta di fronte all’agire di Dio, il quale non solo si fa uomo, condividendo in tutto la nostra umanità, ma si spinge fino a sacrificare la sua vita sulla croce: una delle morti più atroci ed ignominiose che la storia conosca.
Vediamo, quindi, un bambino, avvolto in fasce che tanto assomigliano al lenzuolo funebre nel quale sarà avvolto il corpo martoriato del Crocifisso. Dio si manifesta nei segni miti e inermi di un neonato! Una bella provocazione per chi fa della prepotenza, della violenza anche solo verbale, della superbia, della ricerca ossessiva della propria immagine, della continua autoaffermazione personale l’unico programma di vita. Una grande provocazione per chi pensa che solo con la forza è possibile costruire un mondo più giusto e migliore. La più grande rivoluzione della storia resta quella cristiana! Una rivoluzione ancora in divenire, non del tutto compiuta, ma potente perché possiede armi incomparabili: l’amore, la compassione, il perdono.
Vediamo, infine, una stalla, con un bue e un asinello, qualche pastore con il proprio gregge. In questo modo la divina sapienza ci sprona a superare l’adorazione della ricchezza, vista come la sola fonte e l’unica misura del prestigio umano, a scegliere sempre e comunque la via dell’umiltà, dell’essenzialità, di una saggia austerità che conduce a quella condivisione dei beni che è la suprema legge del cristiano. Gli antichi padri della Chiesa ammonivano: “Il nostro superfluo, è il necessario del povero”.
Isaia ci consegna una profezia emozionante: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio”.
Sembra quasi che Dio si affidi a noi, che ci metta il suo Figlio tra le nostre braccia. È come se ci dicesse: “Curalo tu! È nelle tue mani! Puoi accoglierlo nella tua vita, amarlo, servirlo, ascoltarlo, puoi imparare da Lui! Oppure puoi buttarlo via, ignorarlo, vivere come se non ci fosse. A te la scelta”. Che cosa tremenda e meravigliosa: Dio si offre a noi, inerme, nudo, indifeso, unicamente rivestito della tenerezza di un bambino! Si affida a noi perché ci lasciamo plasmare, perché imbocchiamo la via della misericordia, della compassione, dell’umiltà. Ci è stato dato un figlio perché impariamo a prenderci cura gli uni degli altri, perché impariamo a prenderci cura di questo mondo malato, ferito dall’inquinamento e dal peccato. Ci è stato dato un Figlio perché impariamo a diventare grandi, a prenderci le nostre responsabilità, a scegliere mete alte e sante, progetti di bene! Ci è stato dato un Figlio per non restare imprigionati nelle nostre solitudini che spesso ci conducono a ricercare vie sbagliate per afferrare la felicità che tanto agogniamo.
In questi giorni così frenetici e chiassosi fermiamoci un poco davanti al nostro presepe e decidiamo se deve restare un soprammobile o una provocazione!
Buon Natale!
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