Tempo di Avvento, tempo di nostalgia
Quanto è bello l’Avvento! Non solo perché nell’austera delicatezza del colore viola ci fa già intravedere il calore e la forza del Natale, ma perché induce a compiere un viaggio interiore per sondare quali attese, quali desideri muovono il cuore e la vita. Sì, perché l’Avvento non è pervaso da un potente appello alla conversione – come accade nell’altro tempo forte, la Quaresima -, ma dall’invito a coltivare una nostalgia: il compimento della nostra umanità!
Noi tutti sperimentiamo un vuoto, una mancanza: aneliamo all’amore vero, ma ne gustiamo soltanto dei bocconi, ambiamo a relazione autentiche, arricchenti, significative, ma dobbiamo accontentarci degli amici di Facebook, sogniamo un cuore pacificato, avulso da ogni ansietà, preoccupazione, scatti di ira, rancori e ci ritroviamo una interiorità che è un vero e proprio campo di battaglia che provoca ferite lancinanti e durature. Insomma la nostra imperfezione ci umilia e ci rattrista! Tutto nasce dal nostro peccato, dalla nostra umanità incompiuta che testardamente cerca l’infinito nelle cose del mondo - spesso le più meschine e transitorie -, il calore di una relazione nella selva di incontri superficiali e fugaci, la bellezza che non tramonta nei pallidi riflessi di corpi deformi, animati solo dal piacere fine a sé stesso.
Nostalgia di perfezione, dunque, per noi che siamo immersi in quel misterioso eppure affascinante “già e non ancora” che caratterizza tutta l’esperienza cristiana e che dovrebbe far ardere di desiderio il cuore del credente: egli assapora già la vita eterna, la felicità che non avrà mai fine e che nessuno potrà strappargli, ma essa non si è ancora svelata in tutta la sua bellezza e magnificenza. Manca “quel qualcosa” che ci ricorda che siamo perennemente “in cammino”, che siamo sempre “in attesa”. Ecco perché durante l’Avvento, quasi martellante, ritorna quella suggestiva invocazione “Marana-thà” ovvero “Vieni Signore”.
Anche il Creato così magnifico e maestoso rivela la propria finitudine e fragilità e aspetta anch’esso il momento del suo compimento: nei Vangeli dell’Avvento si parla spesso di potenze dei cieli che saranno sconvolte, di segni nel sole, nella luna e nelle stelle, di fragore di mare e di flutti che causeranno angoscia e paura grande tra gli uomini. Non la terra, non le conquiste tecniche o scientifiche, non il progresso digitale e nemmeno l’intelligenza artificiale potranno offrire all’uomo il significato ultimo del vivere e del morire: la salvezza, nella sua totalità, è sempre opera del Cielo! Perché solo il Cielo è la sorgente dell’amore, l’unica forza capace di ristorare, di saziare il cuore dell’uomo.
Per fare esperienza di questa “mancanza”, di questa “nostalgia”, è assolutamente necessario conoscere sé stessi. Una delle grandi malattie del nostro tempo è, senza dubbio, la superficialità, la distrazione, lo sparpagliamento del cuore e forse anche la presunzione di dare tutto per scontato! Affermava Nilo di Ancira, un monaco della Galazia vissuto nel V secolo: “Conosci te stesso prima di ogni altra cosa. Non c’è nulla infatti di più difficile del conoscere sé stessi, nulla di più impegnativo. Quando conosci te stesso allora potrai anche conoscere Dio”. Papa Gregorio Magno rincara la dose: “Quando noi siamo agitati da eccessive preoccupazioni, veniamo condotti fuori da noi stessi, siamo sì ancora noi stessi, ma non siamo più con noi stessi, perché perdendo di vista noi stessi, andiamo vagando altrove”. Fondamentale non perdere di vista se stessi, altrimenti rischiamo di non essere noi a vivere, ma di lasciarci vivere, di essere noi, ma non con noi, bensì fuori di noi. Questa è la prima vigilanza –parola chiave di questo Avvento - che siamo chiamati a porre in essere.
Certo che questa attesa di un compimento, di una perfezione non è mai passiva! Non siamo come i personaggi di Becket in “Aspettando Godot”, non ci troviamo in un’enorme sala di aspetto dove attendere annoiati e stanchi il proprio turno dal dentista. Quel Regno, bramato come liberazione e perfezione dell’amore, può e deve essere anticipato nel presente, attraverso da una parte il rifiuto convinto del peccato che umilia e mutila l’umanità di ciascuno e dall’altra attraverso l’impegno a edificare una società fraterna, solidale e sostenibile.
Il cristiano è ben consapevole che con le proprie forze non è capace di portare a perfezione nulla, che ha continuamente bisogno di Dio per interpretare e governare il proprio cuore e la realtà che lo circonda, ma allo stesso tempo riconosce di aver in dono quegli strumenti necessari per anticipare, per far germogliare, per intravedere quel tempo nuovo in cui avrà stabile dimora la giustizia e la pace. L’attesa cristiana si traduce in un essere totalmente immersi nella realtà in cui si è, accentandola e cercando di cambiarla sempre in meglio. Occorre dunque sconfiggere la tentazione di fuggire – dinanzi alle responsabilità o ai problemi della vita – dal presente rifugiandosi in paradisi artificiali che inebetiscono e anestetizzano la coscienza umana: Gesù condanna senza appello il cuore appesantito da dissipazioni, ubriachezze e ansie della vita (la carriera lavorativa, il proprio corpo, la propria reputazione, i propri beni materiali…). Tutti modi che spingono a deresponsabilizzarsi o a distrarsi!
Oggi una della grande sfida alle quali siamo chiamati come cristiani è quella di vivere il presente accogliendo tutte le contraddizioni, le fragilità, i fallimenti, soprattutto in ambito relazionale, senza insensati arretramenti in un passato ideale che non è mai esistito e senza fughe in un immaginifico futuro che è vivo solo nei nostri sogni. È il presente la sfida!
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