Torna l'idea del Partito della Nazione
L’ultima, ma solo in ordine di tempo, è stata Arianna Meloni, sorella della premier e coordinatrice della segreteria nazionale di Fratelli d’Italia che, in occasione della recente direzione del suo partito, ha evocato per la principale formazione della destra italiana l’ambizioso ruolo di “partito della nazione”. Una sorta di “eterno ritorno” per usare le parole di un editoriale del politologo Massimiliano Panarari che rappresenta una cifra distintiva della politica italiana, delle sue derive personalistiche, della pretesa dei governanti pro tempore di incarnare lo spirito di un popolo (e di un tempo) come se fosse unico, indistinto e indistinguibile. Prima di Fratelli d’Italia, il sogno di plasmare un partito che fosse espressione dell’intera nazione aveva solleticato il Pd renziano, il Movimento 5 Stelle all’apice della sua ascesa, persino la Lega salviniana prima di affogare nei cocktail del Papete. E indietro nel tempo, con ben altro stile e ben altro senso di una democrazia come comunità “tragica”, l’essenza di un partito “nazionale” affondava nelle aspirazioni delle forze popolari della Prima Repubblica, dalla Democrazia Cristiana con il suo equilibrato interclassismo ai Repubblicani e Liberali di ispirazione risorgimentale, fino ai partiti dalla vocazione internazionalista come i socialisti e i comunisti che non disdegnavano affatto l’aggettivo “italiano” nella loro denominazione e il fedele ancoraggio a valori e umori della nazione: la testa alla rivoluzione e i piedi ben piantati nella terra fertile della Repubblica appena costituita. Per non parlare del fascismo con la sua effettiva sottomissione della popolazione a un’unica, grande e artefatta narrazione.
Se nella teoria politologica il “partito della nazione” è una riproposizione sotto altre forme del “partito pigliatutto” (Kircheimer) che abbassa il grado di ideologia per soddisfare e massimizzare quanti più elettori e interessi possibili, nell’era della comunicazione e dei media digitali la formula s’inserisce in quel passaggio dalla “democrazia dei partiti” alla “democrazia del pubblico” evocato da Bernard Manin: “coloro che giungono a farsi eleggere sono individui che padroneggiano meglio di altri le tecniche della comunicazione, tanto che li si chiama figure mediatiche”. Viene pertanto il dubbio, osservando il dibattito degli ultimi 15-20 anni, che dietro l’ambizione di costruire il “partito della nazione” non ci sia la volontà di rappresentare e sintetizzare la complessità di un popolo coi suoi interessi e sentimenti, quanto di annacquare le differenze in una (temporanea) apoteosi del capo. Che più cerca di avvicinarsi agli umori della cittadinanza, più finisce per generare allontanamento, sfiducia, impossibilità di scorgere differenze e fisionomie.
Docente
Università Cattolica del Sacro Cuore
Ce.R.T.A (Centro di Ricerca sulla Televisione e gli Audiovisivi)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
Pierpa
7 febbraio 2025 12:50
Vecchio sogno, o incubo, da Menenio Agrippa e il tristo apologo, ai giorni nostri. Bypassare le differenze di classe (siamo tutti Musk, Elkann, Ferrero?) inserendo tutti nel calderone della "nazione", è il sogno (o l'unico mezzo) dei totalitarismi. Se bastasse la "nazione" (dal verbo nascere, quindi gli individui nati in un medesimo luogo),... invece la nazione è origine di nazionalusmi, pulizie etniche e quanto di "bello" la storia ci ha lasciato. Diverso il discorso di tradizioni, lingue, usi, dove possiamo trovare bellissimi esempi di contaminazioni ed arricchimenti reciproci.