Un contributo come uomo al 25 novembre 2023, giornata contro la violenza sulle donne
Molti come me si chiedono quale contributo possono dare gli uomini dopo la ricorrenza del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, al di là dell’assunzione di un costume etico-giuridico che vede ogni donna come portatrice dei diritti universali sanciti dall’ONU del 1948 e dalla nostra Costituzione, (art.3, redatto da personalità quali Lelio Basso, Massimo Severo Giannini, Aldo Moro, Giorgio La Pira: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”).
Quale contributo posso dare io come uomo? Per me la risposta è: educare tutti all’empatia positiva e sensibilizzare all’ascolto delle storie dell’altra/o, cioè alla piena comprensione degli stati d’animo di chi ci sta vicino, donna o uomo che sia, e alla consapevolezza di ciò che le nostre azioni provocano su chi ci sta accanto, abbandonando il nostro narcisismo paternalistico. E’ una proposta di ascolto profondo, partecipe, reciproco. Che non si impara in una dozzina di ore alle scuole superiori.
Il nucleo vitale di questa mia convinzione è costituito da alcune recentissime pubblicazioni, tutte di autrici, che in questo momento storico-culturale vedono una vera e propria esplosione di creatività, con analisi, saggi, romanzi, su tematiche decisive per l’esistenza e il suo senso, per relazioni positive e arricchenti tra i sessi. A cui si sono affiancate in questo 2023 anche alcune pellicole importanti, dove attrici assai note divengono anche registe, in proposte cinematografiche dove molteplici sfumature della personalità e della condizione femminile vengono indagate con acutezza, e per certi aspetti con spietatezza, nella prospettiva di una emancipazione salvifica da una condizione di sudditanza. Si pensi a Felicità, di Micaela Ramazzotti (che ritengo non sia stato compreso da troppi commentatori nella sua proposta di “felicità”), o a Paola Cortellesi con C’è ancora domani: storie di dolori, di sacrifici, di soprusi a cui le protagoniste sanno opporre una resilienza personale ereditata da generazioni di lotte delle donne per la sopravvivenza nelle relazioni famigliari. Del “sentire” e del “pensare” delle donne abbiamo particolare bisogno oggi più che mai.
Già nella tradizione classica, si pensi al teatro greco, dove appaiono grandi personaggi femminili – Antigone, Medea, Fedra, Elettra, Clitennestra – il dolore delle donne, legato sempre all’amore, divenne il modello a cui riferirsi per esprimere anche le passioni e le sofferenze degli uomini: i personaggi femminili vennero utilizzati dagli uomini “imperanti” per far emergere il “nascosto” del cuore di ogni essere umano, stati emotivi che solitamente erano negati alle persone di sesso maschile, o volutamente celati per stereotipi culturali. Ma anche nella tradizione cristiana, così centrata sul “maschile”, il cuore dolente di Maria divenne la via consolatoria a cui ci si rivolse, in modo che ogni fedele potesse esprimersi, potesse sentirsi compreso nelle proprie indicibili sofferenze. “Non si insisterà mai abbastanza sul genio del cristianesimo che ha legato la sorte dell’amore alla donna” (Julia Kristeva). E aggiungeva: “è nell’espressione del dolore che questo si può riscattare fino a renderlo sopportabile, trasformandolo in occasione di crescita per ciascuno, di nuova umanità per tutti”.
Solo poche volte le donne poterono, in millenni, parlare in prima persona della profondità delle loro emozioni. Voglio citare, tra tutte, Eloisa (sec. XI), sedotta dal suo maestro Abelardo, al quale scrisse lettere appassionate decenni più tardi, quando divenne superiora (Abelardo ed Eloisa, Epistolario, UTET, 2015). Lo rimprovera di aver rotto ogni rapporto con lei: non un cenno né una lettera di conforto in decenni. Da qui l’amara conclusione di Eloisa: “fu il desiderio sessuale a legarti a me e non l’amicizia, fu la passione della carne e non l’amore” (Eloisa, Lettera II). Il tempo dell’amore per Eloisa è il presente, non il passato. Il presente di ogni vero autobiografo: rivivere gli amori nel presente della rievocazione e della scrittura: “Persino durante i solenni riti, quando più pura deve essere la preghiera, le immagini impudiche di quelle voluttà inchiodano tanto nel profondo l’infelicissimo animo mio che mi sento disposta più a quei turpi godimenti che alla preghiera. […] E non solo quello che facemmo allora ma anche i luoghi e i momenti in cui godemmo, e tu stesso, mi siete a tal punto dentro l’animo che agisco come se fossi con te in quel tempo, e nemmeno quando dormo riesco ad avere pace da queste immagini” (Eloisa, Lettera IV). Abelardo non seppe rispondere né seppe aprire il suo animo, ma in una lettera sulle regole della vita monastica femminile, ammise che le donne avevano maggiore capacità d’amore. Fu attraverso una donna che Cristo venne al mondo, esse non lo rinnegarono mai come Pietro, esse curarono e unsero il suo corpo, loro annunciarono la Resurrezione. "Forse non vi è nulla al mondo a cui Dio abbia voluto donare la sua grazia in modo così completo come al sesso femminile...".
Oggi sono ancora una volta le donne ad esprimere in forme sempre nuove le lacerazioni che la vita quotidiana non risparmia a nessuno e le vie segrete dell’amore. La scrittura diventa la strada maestra nel dolore per attraversarlo e trarne sollievo, conquistando una pacificata, se non gioia, almeno serenità nel vivere. Emerge sempre di più oggi l’importanza di quelli che Laura Boella ha chiamato “cuori pensanti” (Cuori pensanti. 5 brevi lezioni di filosofia per tempi difficili, Chiarelettere, Milano, 2020). Una straordinaria metafora di Etty Hillesum, il titolo.
La prima di queste voci da ascoltare è quella di Maria Grazia Calandrone, in Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca, (Torino 2022), testo anticipato nel 2021 da un’altra autobiografia (Splendi come vita, Ponte alle Grazie, Milano 2021). Opere originate da un fatto di cronaca dell’estate 1965. Una bambina di otto mesi è abbandonata in uno dei giardini di Villa Borghese a Roma accompagnata dal biglietto: “Trovandomi in condizioni disperate, non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla compassione di tutti, ed io, col mio amico pagheremo con la vita ciò che abbiamo fatto, o, indovinato o, sbagliato. Galante Lucia in Greco.” Verrà poi adottata, questa bambina, dalla famiglia Calandrone. Una volta diventata adulta, scrittrice, poetessa, Maria Grazia si porrà alla ricerca della madre naturale, dopo il volume per la madre adottiva.
Un viaggio nel dolore di Lucia, nella storia di una donna che ha subito la violenza di una società ancora patriarcale – dove le figlie servivano anche a forza di botte ad ampliare le proprietà famigliari attraverso un matrimonio forzato – ma che ha avuto la forza di dare a lei, la figlia abbandonata, oltre alla vita, una nuova famiglia, un futuro: che prima di morire, l’ha voluta consegnare con una paternità e un nome al senso compassionevole di qualcuno. Può una fine così disperata aprirsi ad un orizzonte di speranza? Questa è la domanda cruciale che percorre tutto il testo, fino a giungere ad una risposta positiva.
Accanto alla voce di Maria Grazia Calandrone va collocata subito quella di Ada D'Adamo, in Come d'aria (Elliot, Edizioni, Roma, 2023). Alla base di questo memoir sta la costruzione di un mondo mentale nel quale comunicare le cose più intime ad una persona, la figlia, che non potrà mai capire. Per Ada d'Adamo tale gesto "insensato" rappresenta per anni una fonte di energia, un modo per non arrendersi. Come scrisse Rita Charon: "E' necessario raccontare il dolore per sottrarsi al suo dominio". A questo dolore se ne aggiunge un altro, quando le viene diagnosticato un tumore che la porterà alla morte, poco prima di ricevere il Premio Strega 2023.
Il testo costituisce una fenomenologia stoica delle umane sofferenze: la maledizione delle diagnosi impietose, l'handicap della figlia, il tumore che ti erode il corpo, il dolore di un amore giovanile finito tragicamente, i sensi di colpa per un aborto, la nuova gravidanza che le porta una figlia cerebrolesa, la paura della solitudine, la solitudine della sofferenza, il tradimento del corpo, che lei aveva esercitato nei suoi trattati sulla danza, gli strazi della chemio, la perdita dei capelli, il busto, per cui perde il contatto col corpo della figlia. E intorno a lei il dolore delle madri di figli handicappati. Donne sovrappeso, donne con gli occhi cerchiati, segnate dai graffi e dai morsi dei figli, i capelli che non vedono il parrucchiere da mesi, anche all'opposto madri-eroine, con superpoteri, truccate e vestite di tutto punto, o anche madri iene sempre in trincea. Il tutto narrato nella convinzione che la cosa più bella sia sua figlia.
Occorre ascoltare anche la voce di Dacia Maraini (Vita mia. Memorie di una bambina italiana in un campo di prigionia, Rizzoli, Milano, 2023) che assume una tonalità diversa. In un esergo si rivolge alla sua vita ormai lunghissima: “vita mia/ che balli e canti/ sulle rovine del passato… / prima di andare/ lasciati capire/ lasciati concepire/ lasciati abbracciare/ lasciati raccontare.” Una scrittura autobiografica che rievoca i momenti terribili della sua infanzia, dai sette ai nove anni, con pacatezza, distacco, serenità, proprie di chi si è lasciata alle spalle le malattie e le atrocità del campo di prigionia giapponese, comprendendo quanto quelle vicende l’abbiano indirizzata verso una più articolata concezione della cultura e dei rapporti umani.
La testimonianza di Dacia sugli anni per la sua formazione conferma una visione pedagogica nella quale la narrazione ha un valore decisivo. In quei mesi di fame, di malattie e indigenze penose, arrivavano sempre racconti ad alleviare le sue paure, ad accantonare la ferocia della loro condizione. I racconti di Miki Uriu, “la sorridente, generosa, seconda madre”: fiabe, stornelli, ninna nanne, filastrocche, che trasmettevano il culto giapponese degli odori, della natura, dei defunti. Gli infiniti racconti della madre Topazia in forma di fiaba, dai Fratelli Grimm alle leggende greche, dalle Metamorfosi alla storia di Re Lear e Cordelia, o anche in forma di poesia. I racconti del padre Fosco, più legati alla scienza e alla filosofia, come le riflessioni sul tempo, che Dacia fa proprie in un’interrotta riflessione sull’apparire e lo sparire delle realtà del mondo, sulla presenza di Dio o la sua assenza, sul significato vero del morire.
Importante anche la testimonianza di Elisabetta Rasy (Dio ci vuole felici. Etty Hillesum o della giovinezza, HarperColllins, Milano, 2023). Etty Hillesum quando viene deportata a Auschwitz, partendo dal campo di smistamento olandese di Westerbork, ha quasi trent’anni. Ne aveva ventisette nel momento in cui dà vita alle pagine dei suoi Diari, pubblicati solo nel 1981, che Elisabetta Rasy ritiene le abbiano cambiato la percezione della vita. Non martire, non teologa né filosofa, Etty Hillesum, ma scrittrice che esprime una certezza: “si deve contribuire ad aumentare la scorta d’amore su questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile”. Se la vita è una dura battaglia “non per questo deve smettere di essere bella e attraente. È questa la sua scommessa, la sua acrobatica sfida, è questo il lascito del suo diario: la bellezza della vita nei giorni dell’annientamento”.
Possiamo così, partendo da qui, tentare di elaborare una riflessione tesa ad arginare il patire – una cura per le tragedie e le malinconie del presente, per riprendere un saggio della cremonese Isabella Guanzini (La filosofia della gioia, Ponte alle Grazie, Milano, 2021) – per impedire che continui a originare altro dolore; ma anche per alimentare in noi le manifestazioni di affetto, che le donne hanno saputo elargire facendo nascere e crescere forme di solidarietà, di tenerezza, anche di gioia pure là dove era difficile che accadesse.
Queste narrazioni al femminile ci insegnano che di amore, dolore, gioia di vivere non si deve parlare in maniera astratta. Non si possono generalizzare emozioni, sentimenti, sensazioni, momenti di vita così profondi, personali, intimi, peculiari: così ricchi di quelle infinite sfaccettature, che sono connaturate ad ogni vita nel loro contesto famigliare e sociale. Bisogna al contrario seguire storie singole, “esistenze” nella loro assoluta individualità. Ascoltiamole, dunque, queste voci, tenendo conto di quanto sosteneva Gianfranco Calligarich alcuni anni fa in un’intervista: “Molti romanzi oggi vengono scritti badando solo alla storia come se si trattasse di un film televisivo dove il linguaggio non conta. E invece in una storia vale solo la voce che la racconta: è quello che ti permette di arrivare al cuore di chi ti legge. Vale il suono della voce, non quello che la voce ti dice”. Noi uomini dobbiamo ripartire da queste voci se vogliamo essere all’altezza dei tempi.
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