31 agosto 2024

Scondaléegor, Chì i gh'è dèent..., Tègna. Astamblàm

GIOCHI INNOCENTI

Iniziamo la presentazione di quelli che abbiamo chiamati "giochi innocenti", per riferirci agli svaghi animati dai bambini fino ai dieci, undici anni, nei quali i rischi di farsi male erano e sono veramente limitati o del tutto assenti.

Sono giochi di una semplicità estrema, provvisti di un fascino misterioso che eccita in modo incredibile la vivacità e la fantasia dei bambini, che trovano nel movimento la ragione più intensa che definisce in modo entusiasmante il "qui ed ora", o per dirlo in altre parole: il loro esserci, il loro vivere in modo sciolto, libero, felice.

Durante questi momenti ludici, lo spazio materiale esterno viene come annullato, diventando predominante nel linguaggio dei corpi la velocità d'esecuzione di tattiche comportamentali improntate al desiderio ed alla voglia dominante di vincere sempre. La carica emozionale diventa come un'aura, una bobina d'energia che accompagna il battito dei cuori dei bambini nel correre avanti e indietro, da tutte le parti, ovunque, in modo straordinariamente infaticabile.

Scondaléegor

Partiamo dunque con il gioco di scondaléegor. Già la definizione offre il filmato di quanto avviene fra i bambini quando si muovono per attivare questo divertimento, chiamato in italiano nascondino o rimpiattino, ed in dialetto, in alcune aree del Cremonese, pure ciàpatoni, oltre a chìita e cùta. L'inquadratura è semplice. Una volta stabilito con la «<conta>> chi deve far la parte del cacciatore, tutti gli altri bambini non devono far altro che tramutarsi in lepri impegnate a nascondersi in fretta.

A proposito di «<conte», è il caso di sperimentarne subito una, attraverso una formula misteriosa.

Ali bàli kutili kutàli

Ali bàli kutili kutàli

stukkali kalu kalàali.

Ali bàli kutili kutò

stukkali kalu kalò.

Un tempo il bambino che doveva star «sotto», col capo appoggiato alle braccia sovrapposte a cuscino, addossate al tronco d'u n albero o su di un muro in strada o in cascina, doveva recitare una filastrocca in attesa che tutti gli altri bambini trovassero il nascondiglio più adatto. Una di queste filastrocche, testimoniata nel Soresinese, la presentiamo qui di seguito:

Ön, du, tri...

Ön, du, tri, quàter,

l'è la spiga de 'l teatèr,

l'è la spiga de 'l furmènt,

chèl che gh'è dènt

gh'è dènt

chèl che gh'è föra

gh'è föra.

Ön, du, tri, cèent

giöghi pö, pö, pö.

Chìta!

(Uno, due, tre, quattro,/è la spiga del teatro,/ è la spiga del frumento/ quello che c'è dentro/ c'è dentro/ quello che c'è fuori/ è fuori./ Uno, due, tre, cento,/non gioco più, più,più/ Chìta!)

La filastrocca veniva pronunciata dal punto base , o tàna, o cùta, o chìta di partenza, da dove si iniziava la ricerca delle lepri nascoste,: gridando appunto chita!, o cùta! o semplicemente via!. Era d'uso che il cacciatore contasse una serie di numeri in proporzione alla totalità dei bambini presenti. Se i bambini fossero stati pochi si contava fino a dieci. Se fossero stati molti, si dava a tutti di nascondersi, e così la numerazione in progressione aumentava. Ad Olmeneta, si usava una formula contratta rispetto a quella del Soresinese. Infatti, veniva urlato:

Chì i gh'è dèent...

Chì i gh'è dèent,

gh'è dèent.

Chì i gh'è fóora,

gh'è fóora. Via!

(Chi è dentro,/è dentro./ Chi è fuori,/è fuori./ Via!)

Nella mia esperienza con i nipoti ed i loro amichetti, ho dovuto saltare il rito della «conta» e rassegnarmi a stare sempre "sotto" nel gioco del nascondino. Qui però oltre a far la parte del cacciatore, mi sono dovuto trasformare spesso in licantropo, ossia nel lupo delle fiabe, con l'annuncio greve e lento di: «Uz! Uz! Sento odor di cristianuz!». Certo, il più delle volte ho dovuto far finta di non vedere le lepri nascoste in modo abbastanza comico, magari dietro ad un palo della luce o addirittura dietro all'albero stabilito come tana. Ossia all'albero davanti al quale io avevo conteggiavo ad alta voce i numeri fino a venti o a trenta, secondo quanto mi veniva richiesto dai bambini stessi, in attesa di dar l'avvio alla perlustrazione del territorio di caccia. Nel gioco della tradizione, invece, il cacciatore deve individuare le lepri nascoste, pronunciando ad alta voce il nome del bambino scoperto e l'indicazione del punto preciso svelato, battendo nel contempo la mano dove ha conteggiato i numeri partenza prima dell'avvio della battuta di caccia. Il bambino che è stato scoperto si porta autonomamente accanto alla base consegnandosi come lepre imprigionata. Ma il gioco non finisce lì. Perché tutti coloro che sono stati catturati possono essere liberati dal bambino che riesce ad anticipare il cacciatore nel battere la mano per tre volte contro il muro o l'albero della base, pronunciando ad alta voce le parole: «Un, due, tre tàna!». Quindi per il cacciatore è sempre un rischio l'allontanarsi troppo dal punto di partenza. Alle sue spalle può sentire all'improvviso, ed in ogni momento, il grido: «tàna, liberi tutti!». Quando questo avviene egli deve ricominciare il gioco da capo. Quando invece il cacciatore riesce a catturare tutte le lepri, avviene che il primo bambino scoperto ne prenda il posto. Si attua così un cambio di ruoli funzioni: il cacciatore di prima si trasforma in lepre e la prima lepre imprigionata lo va a sostituire riattivando il gioco.

Tègna

Il gioco della tègna di Olmeneta era costituito dal semplice rincorrersi per prendersi. Chi stava «sotto» doveva arrivare a toccare un altro bambino, passandogli automaticamente la funzione di cacciatore. E questi, una volta toccato al grido di «Tègna!», doveva riprendere la corsa nei confronti degli altri in fuga, cercando d'individuare subito il bambino meno svelto e meno scaltro fra quelli che si ponevano attorno. Ovviamente il primo a partire doveva essere un predestinato, prescelto dalla magia imperscrutabile della "conta". Nel rione di san Bernardo di Cremona il gioco veniva chiamato ciàpa e scàpa. Dalla mia esperienza diretta di nonno, devo trarre il principio che la tègna o tégna (in cremonese urbano) non sia trasferibile ai nipoti. Infatti tocca sempre a me star «sotto». Il tocco della mia tégna si trasforma immediatamente in un rapidissimo «non vale!» da parte di chi ho toccato, con un'ampia casistica di fantasie pseudo regolamenta inventate sul momento. Un tempo, anziché «non vale!» si diceva «Arimo!», una parola magica che serviva a fermare tutto il mondo. Pure qui, all'inizio, non poteva mancare, e non può essere dimenticata nemmeno oggi la "conta". Ne prendo una intraducibile:

Astamblàm

Astamblàm

tiketiketàm

burabura rataplàm

à stàm blàm!

Nella foto di Giuseppe Morandi, Bambini che giocano a carte

Agostino Melega


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