30 aprile 2025

I giòoch de le löge e di piatòon

I giòoch de le löge, o giochi dei «monelli scafati», erano del tutto particolari. Erano i giochi privilegiati dai ragazzi che vivevano nei rioni popolari della città. Erano un trampolino di lancio, un transito, un veicolo, un mezzo per sentirsi pronti ad entrare nel mondo sconfinato degli adulti. Quei giochi erano visti come una stazione intermedia, posta appena al di fuori dello spazio dell'infanzia e della fanciullezza, dalla quale si poteva constatare la misura della propria forza e della propria scaltrezza. Quei momenti ludici così intensi erano come una piattaforma d'osservazione dal mondo degli adulti, quell'universo così pregnante e ricco d'aspettative, la quale si poteva scrutare in lontananza l'avvicinarsi dell'universo così attraente e magnetico.

Un mondo, quello dei grandi, nel quale tutti ragazzi sono sempre stati vogliosi d'entrare, com'è giusto e naturale che sia. Ma per i ragazzi di strada c'era una ragione in più. Essi desideravano più di altri di uscire dalla prorpria marginalità. E di non voler più essere subalterni a coloro che li sopravanzavano in età. Volevano, insomma, portarsi in fretta alla pari dei grandi, mostrando i lustrini verificabili della loro capacità d'essere svelti, pronti, audaci e forti.

Sì i loro giochi erano veri riti di passaggio, riti di iniziazione cui misurare le proprie energie e la propria scaltrezza. Ad un certo punto, lungo i percorsi evolutivi, ogni bambino, ogni ragazzo sente l'esigenza d'alzare l'asticella del rischio, per constatare semplicemente la propria crescita, la propria abilità, la superiorità  dello status in cui sta vivendo, rispetto all'orizzonte precedente. Per i ragazzi di strada, per le löge, era come voler lasciar presto da parte un abito ormai stretto, un mantello di raccomandazioni genitoriali e parentali ormai logoro ed inappropriato, una camicia di forza che la prima e la seconda infanzia li aveva obbligati ad indossare. Per questo i ragazzi di strada, a volte, contagiavano anche i ragazzi di famiglie più agiate, per tentare di uscire insieme e definitivamente dall'età più balorda che attraversa il cucciolo d'uomo nel crescere per diventare un altro da sé.

Le löge

Ma vediamo di conoscere qualche dato in più relativo alle löge del mondo popolare cremonese. Chi erano dunque? Erano i figli di un mito rurale. Ossia erano i figli un po' scapestrati della Legéera, di quella figura mitica del grano, alla quale sono collegati pure i camàandoi, quei ragazzotti che giravano a zübianèent (a zonzo) per la campagna ad impaurire le contadinelle e a dedicarsi alla raccolta di prodotti naturali appartenenti ad altri. I furti campestri erano la loro picaresca specialità. E si sentivano persino giustificati nell'andare a raccogliere il bottino di stagione (soprattutto la frutta e le verdure degli ortolani), perché avevano appreso in casa una massima fondamentale: «Chél che gh'è in di càamp, lè del Signuur e di Saant (Quel che c'è nei campi è del Signore e dei Santi)». Di loro è rimasto il ricordo in un detto usato ancora oggi, quando ci si riferisce bonariamente a qualche bambino vivace e briccone: «Che lögia chél pütél lé, che lögia!» (Che monello quel bambino lì, che bambino birichino!).

Alla casa protetta per anziani di Annicco, una trentina di anni fa, venni a sapere da una signora là ospite che le löge giravano per i campi mascherandosi con lenzuola. E all'altezza degli occhi avevano due buchi cerchiati di nero e si divertivano molto a stuzzicare e impaurire le ragazze nei campi. Altra testimonianza ce la racconta L.R., una signora in età di Pescarolo, intervistata dalla ricercatrice Uberta Lena:

Quando si tornava a casa alla sera si facevano anche dei brutti incontri perché c'erano i ragazzi che si nascondevano nei fossi per farci paura. A volte si svuotavano una zucca, le facevano due buchi come fossero occhi poi si mettevano dentro una candela accesa.

Nel buio sembrava un teschio che usciva dal fosso.

In città, i monelli di strada d'un tempo, parecchio scafati, o giorno ne combinavano una peggio di Bertoldo e di Marcolfo messi insieme. Essi venivano chiamati, in un modo del tutto specifico, piatòon.

Nelle saghe popolari rimaste a ricordare le loro imprese, non contano i disastri alle finestre delle case e alle vetrine dei negozi nei rioni di sant'Imerio, di san Bassano (Stràada Canòon), di v Aselli, di porta Mosa (pòorta Làadra), di piazza Castello, di sa t'Ambrogio e delle Sabbie,

Ogni rione popolare della città aveva la propria banda di piatòon E si svolgevano pure guerre o guerricciole fra bande di rioni versi, con l'uso delle fionde, dei tirasassi o delle cerbottane, e di archi e frecce, insieme ad altri rudimentali strumenti offensivi.

I piatòon si sentivano in qualche modo depositari dei ricordi lontani di giochi collettivi che erano avvenuti secoli prima addirittura in piazza del Duomo, a Cremona. Sentivano nel sangue il fascino del Palio e della zuffa nonché delle tìighe o botte rituali. La fatidica e storica Battagliola, la Bataióola, cancellata dal calendario delle 'botte collettive' da san Carlo Borromeo, in seguito alle disposizioni controriformistiche del Concilio di Trento, veniva fatta rivivere dai piatòon con le battagliole a suon de còodoi, di sassi di varia grandezza e forma.

Essi praticavano i giochi più maschi e duri. Il gioco era concepito come uno strumento per misurare la propria tempra, e per verificare se i neofiti, i bòcia (i gògn ad Annicco), fossero all'altezza d'essere accolti nelle bande rionali. Certo la presenza dei piatòon e dei loro giochi era contagiosa. Tant'è che pure gli altri rgazzi, come ho già accennato, si divertivano con i giochi di forza, d'audacia e d'abilità. Quando poi succedeva che detti giochi venissero svolti alla presenza di qualche adulto responsabile, tutta l'atmosfera allora cambiava. I piatòon non sentivano invece il bisogno di particolari tutele. Questa era la loro forza ed il loro limite. Ed è un limite che poteva e può essere pericoloso. Bisogna, infatti, star molto attenti ogni qual volta si organizzano momenti ludici per ragazzi ancor oggi, perché la voglia di un gioco che lasci i segni sulla pelle degli altri è sempre molto in agguato. Ho ancor ben vivo il ricordo dell'assalto dei ragazzi di periferia, in un lontano Carnevale dei Màascher, a suon di manganelli e scherzi pesanti in centro città. Quell'assalto fece morire il Carnevale dell'Anffas. Quel giorno, i piatòon novizi, persero la loro partita e la fecero perdere pure a coloro che avevano avuto solo il desiderio di gioire e di divertirsi in modo pulito in quella circostanza. Ma vedremoi dunque questi giochi ruspanti provvisti, al di là di quanto detto, di un fascino arcano. Va precisato, ad ogni buon conto, che la loro pratica non era d'esclusiva spettanza della ditta «Piatòon & C.». A questa ditta abbiamo dovuto far riferimento solo perché l'abilità dei suoi soci, i famosi «sòci de la Bira», era indiscussa, ed è ancora molto ben ricordata, a Cremona, da coloro che si trovano oggi ad avere i capelli argentati.

 

Agostino Melega


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