Giòogùm a balìne? A rìigol, a bùc, a spàna. Una incredibile varietà di competizioni
Bajóole
Il gioco cu' le bajóole, o baline o biilie (con le biglie), ha affascinato intere generazioni di bambini. Un tempo, infatti, non c'era fanciullo o fanciulla che non tenesse in tasca, o in appositi sacchetti di tela, un tesoretto di palline di terracotta colorata che duravano un niente, e poi, in anni successivi, biglie di vetro con all'interno i colori dell'iride. C'erano persino quelle di ferro e di ottone. Ed era un godimento scuoterle ogni tanto, tutte insieme, come per udire un dolce suono amico, suscitando nel contempo l'immancabile invidia degli altri bambini.
Chi possedeva, poi, uno o più buciòon (i biglioni o biglie formato gigante, grosse il doppio rispetto a quelle normali), poteva vantarsene e non poco. Il suo status d'eccellenza veniva riconosciuto e rispettato da tutti. Importanti erano i patti preliminari alla contesa e le convenzioni di cambio riguardanti il bottino finale. Come ad esempio stabilire quante biglie di coccio valessero una biglia di vetro, o addirittura quante biglie valessero un solo biglione. Ai giocatori, che dovevano stare chinati verso terra, si richiedeva soprattutto destrezza nel muovere la pallina con l'indice e il pollice, o con il medio e lo stesso pollice, al pari di una molla, o piccola catapulta, attraverso il classico pizzicotto, chiamato petigos o petigòt (a Cremona), pitigòt (a Pieve San Giacomo), tigòt (a So- resina), góga (a Crema).
I giochi con le palline erano molteplici, con un sacco di varianti. Qui ricorderemo solo quelli più diffusi: riigol o triàangol, büzela, mücél, buc, spana, ucióol e piòlo. Quando s'iniziava a giocare a biglie le ore scivolavano via che era una meraviglia. Era un tempo senza tempo. Ne è rimasto il ricordo nel modo di dire: giòogum a baline? Per significare: la tiriamo per le lunghe? A proposito, a Crema, il biglione veniva chiamato gàia.
A rìigol
Vediamo dunque il primo di essi, il gioco a riigol, che ha preso il nome dal gioco delle bocce, nel quale andàa sö de riigol significa tirare la boccia facendola rotolare.
Si faceva un cerchio o anche un quadrato, al cui centro ciascun bambino depositava un numero uguale di biglie. Si lanciava quindi raso terra una biglia o ancor meglio il biglione nel bel mezzo del cerchio o del quadrato: le biglie che il tiratore riusciva a gettare fuori dal cerchio erano vinte.
Nel rione di Sant'Ambrogio di Cremona, era d'uso disegnare in terra la figura del triangolo, dal quale è derivato il nome stesso del gioco: triàangol, appunto. In questo caso rionale, l'avvicinamento alla figura geometrica era progressivo. Si partiva da una distanza prestabilita definendo pure le diverse stazioni di tiro successive. Anche qui tutte le palline buttate fuori dal triangolo divenivano di proprietà del tiratore, il quale doveva stare attento a non far rimanere la prorpia biglia all'interno della figura geometrica. Pena la perditra del bottino fino ad allora incamerato.
A büzéla
La giocata, detta a büzéla, vedeva di solito due soli competitor quali scavavano in via preliminare, ai piedi d'un muro o di un albero, una buchetta grossa come un pugno. Quindi, si faceva "conta" per stabilire chi dovesse iniziare gioco, magari usando formula magica di Giànga buràanga:
Giàanga buràanga
Giàanga buràanga,
tàch a la stàanga,
gica burica,
la fùrca t'impica,
leòon,
speròon,
dèenter,
fóora,
tùca,
e và.
Il tiratore designato dall'imperativo in dialetto del verbo andare, chiedeva all'avversario il numero di biglie che voleva fossero spinte in direzione della piccola cavità. Dopodichè, egli ne metteva a disposizione un numero identico, spingendo le proprie biglie o quelle dell'avversario verso la buchetta, da una distanza di due o tre metri. Se le biglie che riusciva a mandare in buca erano in numero pari, egli si impadroniva di tutta la posta. Se invece non riusciva nell'impresa e giungeva in buca con un numero dispari, le biglie venivano tutte traghettate nelle tasche di chi, fino a quel momento, non aveva mosso un dito. Ovviamente, vi era sempre il modo di recuperare la sconfitta nel giro successivo, quando le parti venivano invertite.
Va pure ricordata la variante della büzéla in cui intervenivano vari giocatori a turno. Chi riusciva ad entrare in buchetta, tirando la biglia da una certa distanza fissata con un segno tracciato per terra, vinceva tutte le altre palline in gioco.
A mücél
Nello schema detto a mücel, o müciin o galél, era il bambino predestinato dalla «conta» a costruire un mucchietto di biglie a forma di piramide, con quattro biglie sue, di cui tre formavano la base e la quarta la sommità. Ascoltiamo, dunque, il ritmo sonoro della fase preliminare, proprio di uno scioglilingua magico:
Enghile pènghile
Enghile pènghile,
bufa tiné.
Abile, fàbile, dominé.
En, pèm, bùf, luf,
straus, raus.
Dèenter, fóora,
passa e va!
Quindi egli si predisponeva, a far da arbitro, con le gambe aperte sopra la posta del mucchietto, aspettando con ansia che gli altri bambini sbagliassero totalmente i loro tiri dalla distanza di circa due metri. Infatti, nel tiro a raso delle biglie, se gli altri bambini riuscivano a far cadere anche una sola pallina del mucchietto, tutte le biglie in gioco finivano nelle loro tasche. Se invece il mucchietto non veniva colpito, e rimaneva intatto, tutte le biglie dei tiri falliti diventavano di proprietà del titolare del mucchietto.
Poteva anche avvenire un forte rilancio del rischio, da parte di chi non era riuscito, dopo vari tentativi, a colpire il mucchietto da lontano. Questo bambino deluso chiedeva allora al titolare del mucchietto di provare in modo del tutto diverso. Ossia di mettersi in posizione eretta e a gambe aperte sopra la piccola piramide, per far cadere la propria biglia in modo perpendicolare sul galél, sulla pallina posta al vertice del mücél. Se il bambino non azzeccava il tiro nemmeno in questo modo, egli veniva escluso dal gioco.
A bùc
Uno dei giochi più semplici con le biglie era quello chiamato buc, oppure, in alcuni luoghi del contado di Cremona, impachèta. II confronto veniva vinto dal tiratore che riusciva a toccare la biglia dell'avversario con la propria pallina spinta a raso col pitigòs. Oltre ad impadronirsi della biglia impattata e colpita, egli aveva pure la possibilità di vincere la posta della puntata, ossia un gruzzoletto di altre quattro o cinque palline messe in palio, ma non sempre, durate l'accordo stabilito nei patti preliminari.
A spána
Un altro diffusissimo gioco con le biglie era quello che prendeva il nome dalla misura entro la quale la pallina doveva avvicinarsi a quella dell'avversario per aver partita vinta.
Quel nome, chiarissimo nella sua funzione, era spána o spanèta. Infatti era proprio la lunghezza della mano dei bambini a definire la vittoria o la sconfitta. Ma poiché tale lunghezza non poteva essere univoca, variando da bambino a bambino, sovente ci si accordava stabilendo a priori che la spanna da prendere per riferimento fosse quella di chi aveva appena colpito la pallina. Così si evitavano discussioni e baruffe.
A ucióol
Il gioco de'l'ucióol (dell'occhiello) non era per niente facile. Una volta giunto alla distanza prestabilita per l'acquisizione della pallina dell'avversario, per il tiratore non era ancora finita. La regola prevedeva un supplemento di abilità. Il giocatore doveva alzarsi in piedi e portare la propria biglia all'altezza dell'occhio destro. Quindi doveva simulare, con la mira dell'occhio, la logica del filo a piombo, facendo collimare l'oggetto in mano rispetto alla pallina a terra. E così, con la messa a fuoco dell'obiettivo, e tenendo il respiro per un attimo, lasciava cadere la propria biglia, con la speranza di centrare il piccolo bersaglio sottostante. Se non ci riusciva, perdeva la biglia lasciata andar giù senza la precisione del provetto agrimensore.
A piòlo
Si disponevano le biglie a terra, in lunga fila, come in una processione guidata a destra dalla biglia più grossa, dal biglione, appellata per l'occasione piòlo, che dava pure il proprio nome all'intero gioco. Le biglie della fila erano quelle messe a disposizione in parti uguali dai tiratori, che stabilivano la posta e di conseguenza la lunghezza del segmento di biglie da bersagliare.
Una volta messisi d'accordo sulla distanza di tiro dalla quale partire, si faceva la «conta» con i numeri: uno, due, tre, ecc., fino a quello totale indicato dalla somma delle dita poste in evidenza, dopo aver tenuto il pugno chiuso e in movimento oscillatorio, al termine della formula cantilenata che tutti conoscevano:
A le boombe de 'l canòon
A le boombe de 'l canòon
pàasta söta e macheròon,
bìm bùm bòom!
(Alle bombe del cannone,/pasta asciutta e maccheroni/bìm bùm bòm!).
I contendenti iniziavano il lancio a raso delle biglie in modo tale da tagliare in due la fila. Venivano così vinte dal tiratore tutte le palline presenti alla sinistra della biglia colpita. Agli avversari rimanevano gli avanzi, disposti in seguito in file ridotte di lunghezza. Se il tiratore riusciva a colpire il piòlo in prima battuta anche nelle successive, tutte le palline della fila diventavano sue. Ad esempio: ammettiamo di avere di fronte una fila di dodici palline, e che la prima biglia lanciata vada a colpire la quarta palla della fila partendo da sinistra. Ebbene la quarta, la terza e la conda biglia vengono acquisite dal tiratore.
E il biglione, il piòlo? Questo è escluso dal bottino. Per vincerlo sogna assolutamente colpirlo. Ma colpendolo finisce la partita, il tiratore si mette in tasca il piòlo con tutte le biglie al seguito. Certo, si può ripartire poi con un'altra partita e con un'altra fila con un nuovo biglione posto là davanti a tutte le altre biglie. Si può giocare, insomma, fino a sera senza soluzione di continuità. È evidente che anche a me non dispiacerebbe giocare a biglie tutto un pomeriggio fino al tramonto, come si faceva una volta cortili e per strada. Ma questo rimane solo un sogno. Con i nipoti non ho mai provato questa emozione.
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