16 maggio 2025

Cüüla Müüla o Cavallina

Già il modo di definire il gioco, a Cremona, con l'appellativo di cüüla müüla, chiamato da altre parti cavallina (a Trigolo) e cavallina bianca (Casalmaggiore), offre la stura a riferimenti mentali per nulla garbati. I due termini accoppiati costituivano, semplicemente, la domanda e la risposta attraverso le quali venivano cadenzati i ritmi del gioco. Era un divertimento che veniva animato da ragazzotti che non temevano i pericoli sottesi. Infatti ci si poteva far male, anche fratturare qualche osso. Chi scrive, all'età di tredici anni, preso dal fascino del proibito, si ruppe tre unghie della mano destra sulle montagnole dei giardini pubblici di Cremona. Dopo un salto finito male, le unghie uscirono dalla loro sede. Che dolore! Ne porto ancora oggi i segni.

Ma lasciando da parte i ricordi poco felici, vediamo ora come si svolgeva quel passatempo 'virile' Ci si divideva in due squadre, che venivano selezionate con la «conta». Ma non era più un conteggio da bambinetti. La stagione delle filastrocche era già stata lasciata alle spalle. Si era ormai grandi abbastanza per usare sistemi energici, razionali ed aritmetici. Per cui si contavano le dita che ognuno «buttava giù» in cerchio mostrandole agli altri. E si usava il numero uscito dalla somma delle dita per iniziare la «conta» selettiva. E quindi i candidati della squadra A e della squadra B uscivano uno per volta da quei giri, da quei tocchi numerici sui petti di ognuno dei giocatori. Uno per volta, uno di qua e l'altro di là.

Il giocatore che aveva effettuato la «conta» era di fatto promosso sul campo come capo di una delle due squadre, diciamo la squadra A per intenderci meglio. L'altro capo usciva invece attraverso una seconda  "conta", effettuata fra i giocatori della squadra B. Terminata questa pratica, si tirava a sorte chi dovesse star «sotto», con un «pari o dispari» preceduto dalla formula: «A le boombe del canòon, bìm, bùm, bòm!”. Ci si allontanava, insomma, dall'infanzia, usando però ancora i suoi strumenti di rito.

Quindi, la squadra che doveva star sotto, la squadra B, costruiva in modo plastico, con i corpi dei propri giocatori, il dorso della mula Il capo di questa squadra si poneva ben ritto con la schiena contro un muro o contro un albero a far da palo, o, per dir meglio in chiave figurata, a far la testa di ponte della mula. Questo capo abbracciava, da tale posizione, il primo dei componenti la sua squdra, chinato a schiena in giù. Questi, a propria volta, gli stringeva le braccia sui fianchi.

Gli altri dietro, a catena, o mettevano la testa all'ingiù, in mezzle gambe di coloro che avevano davanti, oppure posizionavano la testa di lato, sui fianchi di chi li precedeva, in modo tale da evitare di prendere calcioni da parte dei componenti la squadra A, che sarebbero saltati sulle loro schiene di lì a poco.

Va detto però che il salto ed il tonfo sulle schiene, dei giocatori chinati ad angolo retto, avveniva ad un preciso comando o lasciapassare verbale, come ho accennato prima.

Infatti, il capo della squadra B chiedeva ad alta voce: «Cüüla?». Dall'altra parte il palo, o meglio il capo della squadra A, verificato l'assestamento adeguato dei suoi, rispondeva deciso: «Müüla!». Ecco che allora, uno alla volta, i saltatori della squadra B ce la mettevano tutta per scardinare la dorsale delle schiene avversarie. Ma non era finita con il tonfo d'inizio fatto di tutta forza. I saltatori avevano la possibilità, infatti, di effettuare altri tre balzi per avvicinarsial palo e lasciare lo spazio a coloro che avrebbero scaricato il loro peso subito dopo, uno dietro l'altro, su quel groviglio di corpi. Durante i tre balzi si cercava inoltre di lavorare, con le gambe, i fianchi di quelli "sotto", schiacciandoli a più non posso.

Quel gioco rude, sicuramente violento, vedeva alla fine il quadro plastico di due biscioni sovrapposti. Quelli della mula sotto, e gli altri, i fantini, sopra. Questi non badavano a delicatezze per schiantare il dorso di quell'animale da soma. Certo, quello era un animale di pura fantasia, ereditato dall'estro giocoso degli avi. Un animale che non poteva nemmeno scalciare ma solo subire, cercando di resistere fino in fondo, e di non mollare mai. La squadra B doveva solo aver pazienza e non badare ai colpi, per poterla far pagare fino fondo, subito dopo, a quelli della squadra A.

Confesserò qui che questa pratica ludica non la insegnerò mai miei nipoti, i quali mi chiedono di frequente del perché delle mie ghie messe così male. E la mia risposta è sempre la solita: «È stato per aver giocato ad un divertimento proibito, una cosa che avrei mai dovuto fare».

Agostino Melega


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