Ho avuto la fortuna di conoscere “Nonno Egidio” come molti allora lo chiamavano alla fine degli Anni Novanta. Abitava, in una vecchia casa di ringhiera, un angolo di quella Milano ormai quasi completamente scomparsa. Arzillo e vivace, alla soglia dei novant’anni, non viveva certo solo di ricordi e rimpianti di una vita passata tra anelli, cavalli con maniglia e parallele, quegli attrezzi che sono gioia e dolore per ogni ginnasta, ma anche memorie di una vita passata assai gagliardamente, sempre in difesa delle proprie idee e convinzioni, sempre in lotta contro tutto e contro tutti, contro la ingiustizie del mondo e,forse, a volte, anche contro se stesso.
Egidio Armelloni si muoveva ancora con insospettata agilità e prontezza. Raccontava di avere un solo grande rimpianto, anche se ha sempre tentato di nasconderlo non solo agli altri, ma soprattutto a se stesso, la mancata partecipazione alle Olimpiadi di Los Angeles, quelle del 1932, quelle che passarono alla storia dello sport come le “Olimpiadi degli Italiani”.
Le chiamarono così perché mai come in quell’occasione gli azzurri avevano ottenuto tante medaglie d’oro, ben dodici, classificandosi immediatamente alle spalle dei fortissimi padroni di casa. Se non si toccarono i tredici ori di otto anni prima ad Anversa, ci furono, però, ben dodici argenti e undici medaglie di bronzo a dar corpo ad una spedizione che, per numero di partecipanti, era stata nettamente inferiore alle precedenti ed aveva, per contro, affrontato un numero di iscritti ben più numeroso ed agguerrito.
Fattore decisivo all’ottenimento di quei risultati, fu senza dubbio il clima derivato dalla nuova mentalità indotta dal governo fascista, che considerava ogni vittoria sportiva come simbolo e glorificazione della bandiera e dell’onore nazionale, strumento di prestigio che portava una vera e propria esaltazione da parte di tutti gli enti politici in favore dello sport.
Probabilmente, fu proprio quella mentalità che, per assurdo, impedì che a quelle medaglie se ne aggiungessero altre che erano alla portata proprio di Armelloni e, forse di qualcun’altro come il canottiere Bolzoni, portacolori della Baldesio.
“Probabilmente” solo perché, nella storia dello sport ci sono molti campioni che mai sapremo dove sarebbero potuti arrivare se fattori esterni non gli avessero tarpato le ali impedendo loro di trovarsi nelle migliori condizioni di forma e nel più favorevole momento agonistico, nella gara più importante della loro carriera, quella della vita, insomma, propio come accadde al nostro campione.
Egidio Armelloni, nato a Soresina nel 1903, figlio di Giuseppe, un operaio socialista massimalista che sin dalla scissione di Livorno aveva abbracciato il comunismo e lavorava come magazziniere, è stato uno degli allievi più seguiti e coccolati da quel maestro di vita e di sport che fu Giuseppe Mazzolari, poliedrico creatore e scopritore di talenti sportivi come nessun altro in provincia di Cremona ai tempi suoi.
Armelloni, proprio in quel mese di luglio del 1932, quando si disputavano i Giochi di Los Angeles. era considerato il ginnasta più forte dell’intera compagine italiana, però quando il Conte Biancamano salpò da Napoli portandosi via i 102 atleti della compagine italiana, Egidio non c’era, anche se tutti lo consideravano la colonna portante della squadra di ginnastica che era costituita quasi esclusivamente da atleti della Pro Patria, la sua società, che avrebbe mietuto allori in America ripetendo i fasti di Anversa.
Armelloni rimase a casa: proprio lui che gli sportivi chiamavano “Il Peppin Meazza della ginnastica”, lui che probabilmente sarebbe tornato con una manciata di medaglie.
A bloccarlo in patria era stato proprio quel Fascismo con la cui mentalità si era immediatamente scontrato: uomo tutto d’un pezzo, senza mezzi termini, non aveva accettato compromesso alcuno. Era addirittura finito in carcere, a Gaeta, con la infamante accusa di antifascismo e la sua carriera sembrava finita perché, al termine del servizio militare, aveva dovuto scontare due anni di prigione e, dopo l’amnistia, altrettanti di libertà vigilata.
A Los Angeles i suoi compagni di squadra dominarono la competizione olimpica strappando l’oro nel concorso a squadre. Si trattava di Neri, Guglielmetti, Lertora, Capuzzo e del più grande di tutti, Corrias. Neri, addirittura, tornò in patria con tre medaglie d’oro (individuale, parallele e concorso a squadre), Gugliemetti vinse nel volteggio al cavallo, mentre alle parallele, la specialità preferita di Armelloni, nella quale stava una spanna sopra a tutti, arrivò il bronzo di Lattuada, il quinto e sesto posto di Capuzzo e Tognini.
Dovette accontentarsi, lui che era il migliore di tutti, di leggere i risultati sulla “Gazzetta dello Sport” ma, a dire il vero, a Los Angeles, probabilmente, avrebbe potuto andare: in fin dei conti, era libero da qualche mese, dal 20 ottobre dell’anno precedente, quando, in occasione del decennale della Marcia su Roma, gli era stata concessa la libertà vigilata ed era tornato ad allenarsi riprendendo in pieno la sua attività di ginnasta e raggiungendo uno stato di forma apprezzabile.
Gli sarebbe bastato firmare una lettera di sottomissione per tornare a vestire la maglia azzurra. Il regime avrebbe chiuso un occhio (e forse due) davanti alla possibilità di vincere un oro olimpico, ma a lui non riusciva proprio di stare in pace con se stesso e con la propria coscienza tradendo quelle idee che avea da sempre portato avanti: situazione difficile per uno che faceva dello sport, al pari delle sue convinzioni politiche, una ragione di vita.
Nonno Egidio, del resto era sempre stato della convinzione che mai il passaporto sarebbe stato concesso ad un tipo come lui che, ogni qualvolta un pezzo grosso del regime capitava a Milano, sentiva bussare alla porta: arrivava un poliziotto e l’accompagnava in Questura ove veniva trattenuto fino a quando il gerarca avesse lasciato la città.
Si era sentito attratto dalla ginnastica sin da ragazzo. Lo avevano affascinato da sempre le evoluzioni e i salti mortali degli acrobati che si esibivano nei piccoli circhi che ogni tanto capitavano a Soresina: allora si esercitava a fare il salto mortale gettandosi dai rami di una pianta o facendo la verticale. Quando, nel 1924 in città poté assistere ad una esibizione dei ginnasti azzurri guidati da Giorgio Zamponi che pochi giorni prima avevano dominato gli avversari alle Olimpiadi di Anversa, il suo destino fu segnato. Gli era rimasti impresso soprattutto quel Mario Corrias che della squadra era il più giovane, un ragazzino ancora, ma che di lì a poco sarebbe diventato suo compagno di squadra, allenatore e maestro. Il giorno seguente, infatti, era già a disposizione del Maestro Mazzolari che gli fornì i primi rudimenti della preparazione fisica, ma presto Egidio s’accorse che alla sua corte si prediligeva l’atletica leggera. Decise allora di trasferirsi a Biella ove gli era stato offerto un posto di lavoro come garzone di drogheria e dove sperava di poter frequentare la Pietro Micca, una delle storiche società della ginnastica, ma le sue speranze andarono deluse: in drogheria svolgeva tutti i mestieri possibili, poi la moglie del droghiere pretendeva che pulisse in casa, lavasse i piatti e via dicendo. Non c’era più tempo per la palestra. Non mollò: l’entusiasmo dei suoi sedici anno lo indusse a cambiare ancora, così si ritrovò a fare il meccanico, a Milano, in una fabbrica di macchine per caffè e, contemporaneamente, il ginnasta alla Pro Patria.
Era il massimo per un ragazzino precoce ed affamato di sport. Si gettò immediatamente su tutti gli attrezzi ripagando immediatamente la fiducia accordatagli, palesando progressi enormi alla sbarra ed una insolita propensione al cavallo con maniglie, oltre che al corpo libero, ma furono subito le parallele ad attrarlo e per quella specialità pareva veramente tagliato.
Mario Corrias lo notò immediatamente e prese a seguirlo: tra i due nacque un rapporto solido, di amicizia e di rispetto. Ginnasta composto: già dopo un paio di anni era il miglior giovane in società e lo dimostrava conquistando il titolo di campione lombardo juniores.
Nel ‘29, quando la Pro Patria decise di inserirlo in prima squadra, sbaragliò subito il campo, classificandosi primo assoluto tra i non olimpionici ai campionati italiani. Quinto assoluto.
Non la spuntò nella conquista del titolo italiano, nè mai ci sarebbe riuscito in tutta la sua lunga carriera, neppure nel 1938, quando i campionati si svolsero a Cremona nella Palestra di Via Massarotti e avrebbe dato qualsiasi cosa per vincere davanti ad un pubblico che lo acclamava, solo perché sistematicamente rifiutava di iniziare l’esercizio con il saluto romano, il che lo penalizzava ogni volta di mezzo punto, un vantaggio troppo pesante che concedeva ad avversari che, tra l’altro erano i migliori al mondo.
Nel concorso a squadre, invece, per non penalizzare i compagni, ricorreva ad uno stratagemma: salutava appoggiando il braccio sulla spalla del compagno che gli stava davanti. Così metteva a tacere anche la propria coscienza.
Fu proprio agli inizi del 1930, precisamente a Capodanno, mentre si trovava a svolgere il servizio militare in artiglieria da campagna, che venne arrestato dalla Polizia Politica, l’OVRA, con l’accusa di aver fatto propaganda comunista in caserma e di aver partecipato a riunioni del partito comunista clandestino: finì a Gaeta, nel carcere di Forte Boccea. Condanna dura, a tre anni e sei mesi, ma la accettò con la serenità di chi è pienamente convinto della giustezza delle proprie convinzioni (del resto ereditate dal padre), addirittura onorato e deciso a difenderle fino in fondo, a qualunque costo.
A dire il vero, il Fascismo, sentiva il bisogno di portare a Los Angeles un’atleta come lui, capace di vincere per l’Italia una medaglia e allora gli offrì una via di scampo proponendogli di firmare una lettera di libertà. La siglò con queste parole: “Io sono italiano e mi sento italiano, per questo non sono fascista,” Savino Guglielmetti, il leggendario vincitore di due ori a Los Angeles, è l’unico amico rimasto accanto all’antico campione dopo tanti anni e tante battaglie sportive vissute insieme. Guglielmetti è sempre stato del parere che Egidio, in California, avrebbe fatto molto meglio di lui. “Era più forte di me - ripeteva spesso a chi lo intervistava - anche se io ero più freddo. Purtroppo pagava spesso a caro prezzo la sua emotività, ma in quegli anni era proprio lui il più forte di tutti.” Così quando il Conte Biancamano salpò da Napoli per portare in America la pattuglia dei 132 atleti olimpici italiani, Armelloni non c’era.
Alla gioia e all’emozione di una partecipazione olimpica, però, non volle proprio rinunciare e fu allora, quando udì il racconto esaltante delle gesta dei compagni rientrati da Los Angeles che capì di potersi ancora mettere in discussione per i Giochi di quattro anni dopo a Berlino: era un tarlo che lo rodeva a incessantemente, lo lasciava senza respiro.
Mario Corrias, che dopo le Olimpiadi era diventato allenatore alla Pro Patria, lo volle ancora con se e due anni dopo lo fece debuttare in azzurro ai mondiali di Budapest. Fu solo 19°, ma evidentemente la sua perfetta macchina atletica provata da quei due anni di galera e da una vita forzatamente lontana da quelli che erano i canoni che lo sport ad alto livello pretendeva, minata anche da tante vicissitudini esterne, cominciava a dare segni di cedimento. Tenne duro, ad ogni modo. Dopo essere stato escluso dai mondiali del ‘35 per le solite ragioni politiche, a Berlino non poterono lasciarlo fuori. Con lui c’erano Corrias, che era stato promosso allenatore della nazionale, Guglielmetti a difendere i due ori conquistati a Los Angeles ed un altro giovane talento della Pro Patria, Fioravanti. Non ripeterono l’oro di quattro anni prima: furono solo quinti a squadre, Guglielmetti undicesimo nel concorso individuale, Armelloni trentaseiesimo e Fioravanti poco più indietro.
Tornato definitivamente in libertà, alternando gli allenamenti alle fatiche quotidiane della famiglia, alle risse e alle botte coi fascisti, al lavoro da operaio alla Siemens, aveva ripreso gli allenamenti fino a rientrare in nazionale ed essere inviato sia ai Giochi del 1936, ove riuscì ad ottenere il quinto posto nel concorso a squadre. Poi la guerra e la lotta nelle formazioni partigiane, ma tenne duro.
A Londra, dodici anni dopo, aveva ormai quasi quarant’anni e i compagni di squadra lo chiamavano scherzosamente “Compagno Popov”. Probabilmente il risultato ottenuto a Berlino non lo convinse neppure, ma quel giorno la sua Olimpiade lui l’aveva vinta: l’avervi partecipato era più d’una vittoria pur in mezzo a quel tripudio di fiaccole e croci uncinate che non gli andavano a genio. Tutta la squadra si era allenata poco e male. La ginnastica italiana dopo i trionfi di Anversa e Los Angeles, attraversava un momento di difficile involuzione: mancavano talenti nuovi e si era ancorati a vetusti sistemi di preparazione che altre nazioni avevano ormai dimenticato stravolgendo il mondo e le gerarchie della ginnastica.
Si avvicinava il secondo conflitto mondiale: per Armelloni tanti altri giorni difficili si stavano profilando all’orizzonte, naturalmente al di fuori del mondo dello sport.
L’umiliazione più grossa gli venne proprio dalla sua società, la Pro Patria, da quella società i cui colori aveva indossato per quasi vent’anni a prezzo di sacrifici indicibili.
La sua amatissima Pro Patria gli fu improvvisamente contro. Era il 1944 quando due dirigenti del sodalizio bussarono alla sua porta. Gli ordinarono di restituire la divisa: non era più degno, per loro, di farne parte. Fu l’oltraggio peggiore che avesse subito, non tanto al suo dichiarato antifascismo, quanto alla sua dignità di uomo e di atleta, al suo modo di vivere, alla sua famiglia.
Aveva conosciuto la prigione e subito tanti altri soprusi con la tranquillità di chi conosce i rischi che sta correndo e, naturalmente, li accetta, ma quella maglietta era stata per lui un emblema, una seconda pelle che gli avevano strappato di dosso, che s’era tolto, quasi con rammarico, solo per indossare quella azzurra.
L’azione degli odiosi personaggi che avevano violato la sua casa ed il suo onore, lo ferì più di qualsiasi sconfitta, non tanto, fortunatamente, da fargli perdere l’amore per la ginnastica e per lo sport tanto che, a guerra terminata e dopo aver collaborato la sua parte facendo propaganda e tenendo i collegamenti tra Milano e i partigiani che combattevano in montagna, tornò di nuovo in palestra.
Non più alla Pro Patria! Che nel libro commemorativo della sua storia non fa cenno a questo avvenimento e neppure del passaggio dell’atleta, dopo la guerra, ad un’altra formazione, la Mediolanum.
Il vecchio gladiatore riacquistò gli stimoli di un tempo: nessuno, come lui, sapeva togliersi di dosso la ruggine del tempo e a trentanove primavere suonate, a Londra, riapparve in pedana per la sua seconda olimpiade (senza le vicissitudini sue e quelle della guerra che aveva portato all’annullamento di due edizioni, sarebbe stata la sua quinta partecipazione, un vero record per un ginnasta!)
Gli azzurri, infatti, ebbero ancora una volta bisogno di lui, della sua esperienza, della sua proverbiale tenacia.
Quell’aitante signore cui già spuntava qualche filo grigio alle tempie, che da vent’anni faceva l’operaio alla Siemens e ogni sera, con la borsa appoggiata sulla canna della bicicletta andava in palestra a sudare per un paio d’ore, fu ancora della partita in pedana.
Indossò la nuova divisa della squadra italiana con lo scudetto tricolore sul petto al posto del fascio e dello scudo sabaudo e non portava più la sgargiante cravatta rossa sulla camicia nera che per anni gli era stata imposta e neppure se la prendeva se i giovani compagni di squadra lo chiamavano “Compagno Popov” anziché “Fofo”, quello che era stato il suo soprannome in gioventù.
Era un uomo tranquillo e appagato, quasi in pensione, ma tenacemente aggrappato a quella che era stata la passione della sua vita. Strano il suo destino di atleta: s’era presentato a Berlino dopo quasi quattro anni di inattività, a Londra dopo altri otto e dopo una guerra lunga e trascorsa coll’angoscia di chi rischia ogni giorno la vita sua e della famiglia.
A Los Angeles, poco più che ventenne e nel pieno della vigoria fisica avrebbe potuto dare il meglio dei suoi giovani anni e di quel talento di cui madre natura lo aveva dotato. Forse sarebbe stato l’inizio di una carriera capace di proiettarlo nella storia dello sport, nel novero dei grandissimi della ginnastica mondiale.
A Londra sedici anni dopo, recava le stimmate del vecchio campione deciso a non mollare mai a dispetto dell’età e delle tante vicissitudini della vita.
Eppure, la sua carriera non finì a Londra ove, comunque, fu ancora quinto con la squadra. Otto anni dopo, a Genova, scese ancora una volta in pedana, soddisfatto.
A quarantasette anni suonati (era già nonno!) e con lo stesso entusiasmo che da ragazzino l’aveva portato prima a Biella poi a Milano, guidò la sua nuova società, la Mediolanum, al quarto posto nella classifica del Campionato Italiano a squadre.
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