30 settembre 2023

La nostra storia. La sponda sinistra del Po. 1947, i bergamini della Cartiera di Gussola

Nella pianura più bassa e più attigua alla riva sinistra del Po un paese non grande, Gussola, attendeva alle sue occorrenze; la  vasta campagna circostante però non era esattamente pianeggiante, ma lievemente ondulata, talché ciascun appezzamento di terreno, ben delimitato da cavedagne, da fossi e da filari, appariva un poco rigonfio. La morfologia, non naturale, dipendeva dalla tecnica d’irrigazione praticata unicamente a scorrimento nonostante che la terra fosse assorbente e sabbiosa, ma non c'erano mezzi migliori. D’estate, sotto il cielo sereno che l’afa rendeva cinerino, a dorso nudo, sudati e polverosi gli uomini lontano lavoravano solitari nel mezzo dei campi e, spostando sulle spalle, uno alla volta, pesanti e lunghi tubi di ferro, facevano sgorgare l’acqua sul culmine del prato: prima che la terra   l’assorbisse completamente, essa arrivava ai margini estremi delle culture, scivolando e scorrendo sotto l’erba verde e ristorata. 

Il foraggio coltivato era quasi sempre erba medica, cioè una specie di trifoglio, ma più ramificato e con fiorellini a piccoli ciuffi vagamente violetti, che col bel tempo richiamavano dal silenzio festose farfallette gialle e grigiazzurre.

Dei monti non si scorgeva tutt'attorno neanche il profilo, l’intero orizzonte fuori dell'abitato appariva aperto e basso, interrotto solamente dalle sagome dei salici lungo i fossi e dai filari folti o di uva Fortana appoggiata ad alte spalliere di pali o di robusti gelsi capitozzati che alimentavano ancora l’industria della seta; lontano si vedeva il campanile tetragono, in cotto rosso, con il cono sul culmine coronato da una piccola balaustra traforata e da quattro minuscoli pinnacoli. Vagava per l’aria in permanenza un sentore cuoioso, caldo e leggermente pizzicante, che impregnava anche le mani, i capelli e gli abiti poveretti di quasi tutti i contadini paesani, derivava dal letame. Addosso alle persone sembrava un poco indecoroso, ma all’aperto evocava i cortili delle cascine solitarie con le stalle sempre operose e sfocianti verso i campi dove  si elevava il letamaio curato e ben squadrato come la base di un grande monumento. 

Il letame, risorsa preziosa, dall’alba al tramonto veniva rovistato da certe gallinelle col piumaggio lustro, nero e rossiccio: vi razzolavano instancabilmente alla ricerca di larve di mosche e di tafani; stando sui punti più elevati il gallo dai bargigli rossi e la coda rigogliosa vi lanciava a collo teso il suo richiamo veemente, e alla fine, quasi per placarsi, sbatteva le ali con vigore. Il leggero pennacchio di vapori, che fluttuava sulle parti più recenti, lo rendeva vivo e  d’inverno, quando il vapore si condensava, diventando candido e denso, mostrava da lontano attraverso la bruma crepuscolare che lì c’era casa.

La riva sinistra del Po non risultava tuttavia una linea precisa ed immobile: se infatti la stagione era molto piovosa, il fiume terribilmente si allargava fino a lambire, lontano, coi suoi vortici paurosi i fianchi  dell’argine maestro, poi, nei periodi di magra, esso si ritirava nel suo letto più profondo, lasciando scoperte, sulle sponde, larghe distese immacolate di sabbia che il sole rendeva abbagliante e arroventata.

Tra l’argine maestro e il letto del fiume si stendevano i terreni delle lanche o degli specchi paludosi. Migliaia di pertiche fertili di terra molto sabbiosa, coltivata per lo più a pioppo e a granoturco e costellata da piccole e grandi pozze di acqua stagnante irte di canne palustri o ricoperte da  foglioline tonde di erbe acquatiche verdissime, chiamate “ranina”. La sera, d’estate, i bordi delle lanche risuonavano del fragore delle rane che gracidavano tutte insieme e non si sentiva più nessun altro rumore.

Nei punti maggiormente elevati, forse antichi isolotti del fiume quando il suo corso serpeggiava più a Nord, sorgevano da tempo immemorabile alcune cascine, esse si difendevano dalle inondazioni frequenti, circondandosi con piccoli argini quasi rotondi, interrotti da due passaggi, uno per l’ingresso e   l’altro per l’uscita, che in caso di alluvione richiudevano in fretta con il terriccio mantenuto in serbo lì vicino. La cascina chiamata Cartiera era la più importante. La costruzione, modellata come tutte le altre quasi esclusivamente sulle esigenze agricole, ricopriva un vasto perimetro rettangolare. I mattoni in vista, dei cornicioni e dei finti capitelli sui pilastri semiquadri dei fienili e dei portici, anche se sagomati come    l’ornato delle chiese, modanature e lesene, erano solo elementi richiesti dalle consuetudini edili del tempo, costituendo  piccole varianti rispetto ai mattoni squadrati, che venivano ancora tutti formati a mano. 

Il lato della Cartiera che dall’interno guardava a Mezzogiorno era occupato da un edificio a tre piani, dai tratti vagamente settecenteschi, con piccola scalinata centrale e con soffitta arieggiata da finestrine ovali: comprendeva l’abitazione del fattore e l’appartamento riservato al padrone; dietro si trovavano la cappella, intonacata color ocra, e gli orti padronali fiancheggiati dallo stagno e da un piccolo parco ombroso. Il lato sinistro del vasto cortile era occupato dalle stalle per le vacche e il grosso toro di razza pregiata, tutte allineate fianco a fianco davanti alle greppie; sopra c’erano fienili; lungo il lato opposto, di pari dignità con quello di fronte, si aprivano dietro i portici angusti ed ombrosi le porticine per gli alloggi a due piani per i braccianti; questi due lati erano interrotti al centro da un gran portale quadro per il passaggio dei cariaggi; il perimetro si completava sul quarto lato con i fienili dagli archi a sesto acuto, chiusi in alto sui fianchi dai frangisole a crocetta, essi coprivano le cantine e le officine polverose per falegname e per maniscalco, che, come si diceva allora, rappresentavano una bella comodità.

Uno dei centri di attività nelle cascine, secondo quell’economia, era la stalla, che nella stagione calda era animata con medesimo diritto sia dalle mucche che da nugoli di mosche e da frotte di rondinelle che vi facevano il nido sotto le basse volte a crociera, sudice e sempre in penombra.

Gli addetti alle stalle si chiamavano bergamini: nelle ore richieste, barcollando sotto il peso, vi introducevano a spalla enormi forconate di foraggio da distribuire nelle greppie e, per raggiungerle, spintonavano con le anche i fianchi agli animali, emettendo opportune voci di incitamento. Poi c’era la mungitura a mano, l’abbeverata che avveniva o alla pila o con i secchi e infine la raccolta del letame utilizzando la pesante carriola di legno e il vecchio tridente. Così essi lavoravano tutti i giorni dell’anno, sabato e domenica compresi, tranne che la notte di Natale: era consentito festeggiare una stalla miracolosa, solo perché una volta l’anno le bestie potevano attendere qualche ora prima di essere accudite.

A primavera inoltrata sotto l’ombra tremolante e ancora leggerissima di tutti i filari di viti e di gelsi uno scricciolare e un garrire ininterrotto di uccelletti sovrastava il fruscio del vento. Fuori il sole splendeva, ma la stalla alla Cartiera  era in penombra. Attraverso le lame inclinate di luce, che filtrava tra la polvere di fieno, s’intrecciavano i voli delle rondini indaffarate col nido e più sotto, accovacciate, le vacche ruminavano in silenzio; in fondo alla stalla lunghissima  un vitellino neonato, minuto, bianchiccio e dallo sguardo attonito e incerto, tentennando sulle esili zampe tra la paglia, si appoggiava al tepore del corpo della madre. Tutto ciò era quanto vedevano i ragazzini che si intrufolavano guardinghi nella stalla. Il vitello tuttavia per i bergamini era  una aggiunta all’ingrato lavoro che essi conducevano diuturno tra scrosci di piscia e schiacciate di boatte; per il padrone sempre vestito per la festa e con la sigaretta candida tra le labbra era un supplemento di guadagno. (1-continua)

(le foto sono di Antonio Leoni)

 

Giorgio Peri


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commenti


claudio

1 ottobre 2023 18:37

Leggo sempre con commozione e piacere questi spaccati di vita vissuta nel nostro territorio e mi dolgo che purtroppo i nostri figli e nipoti non si rendano nemmeno conto di come fosse la vita allora.

MIchele de Crecchio

1 ottobre 2023 22:26

Giorgio Peri, di Gussola (classe 1944) frequentò con me il liceo classico di Cremona, negli anni a cavallo della metà del secolo scorso. Tra di noi si sviluppò una cordiale amicizia, favorita dalla simpatia con la quale entrambi vedevamo nella scuola e nella società maturare innovazioni e disponibilità che solo pochi anni prima sembravano impossibili. Dopo avere seguito percorsi universitari decisamente differenziati per contenuti e sedi (Giorgio si laureò ingegnere a Torino, io architetto a Milano), i casi della vita ci fecero, dopo vari lustri di lontananza, di nuovo incontrare, rinnovare l'antica amicizia e e confrontare pareri sulla situazione della società italiana, pareri che trovammo singolarmente ancora omogenei.
Saputo che il mio tradizionale amico aveva scritto un gustoso saggio sulla storia recente del suo paese natale (Gussola), non trovai difficoltà a farne pubblicare il testo sull'edizione telematica cremonese dell'"Eco del popolo" diretta da Enrico Vidali. Da allora è passato altro tempo che il bravo Giorgio Peri ha positivamente impiegato perfezionando e integrando il testo precedente. Sono certo che anche la nuova versione del suo lavoro sarà letta da molti ed apprezzata come sicuramente merita. Buona lettura e congratulazioni al mio carissimo amico Giorgio Peri da Gussola. Ringrazio anche Mario Silla, direttore responsabile di Cremona Sera, sempre pronto a tener viva l'attenzione su di un territorio che, purtroppo, sta perdendo sempre di più fiducia in se stesso e nei propri amministratori.