23 agosto 2021

Area Stalloni a Crema, la sua storia e le occasioni mancate

In ogni città ci sono situazioni irrisolte e nodi da sciogliere che per decenni nessuno risolve e nessuno scioglie. Sono le eterne vicende che le amministrazioni di diverso colore politico e di varia composizione antropica si palleggiano da un mandato all’altro; che il pubblico e il privato si rimproverano e si rinfacciano continuamente; che offrono a tutti materia di dissertazione, accusa e geremiade. Anche a Crema esistono realtà di questo genere. Ad esempio quella dei cosiddetti “Stalloni”. Ma che cosa sono, a Crema, gli Stalloni?

Tutto inizia con un monastero di monache: “L’anno 1489 nel giorno di S.ta Orsola fu dato principio ad uno nuovo monasterio di monache sotto il nome di S.ta Maria del Signore”, ci dice Pietro Terni nella sua Historia di Crema del 1557. Però originariamente le monache non sono proprio nel luogo dove oggi ci sono gli Stalloni. Ci si trasferiscono anni dopo, sempre secondo il Terni: “Habandonato il luoco di S.ta Trinitade dove per trenta anni erano habitate, nel Monasterio nuovo dillà dal aqua si mettono”. È un convento con chiostri, chiesa ed edifici vari, su un’area di ben tre ettari, tra la roggia Crema, le mura cittadine e il cosiddetto Quartierone, come attesta l’antica cartografia locale. È l’area degli attuali Stalloni. La storia delle monache di Santa Maria Mater Domini, come vengono chiamate nelle fonti storiche, e del loro ragguardevole convento si sviluppa per tre secoli e ne danno conto anche il Fino, il Bettoni, il Canobio, il Racchetti e il Solera. I benefici, le donazioni e le gratificanti visite pastorali vescovili testimoniano la considerazione cittadina verso questo monastero e aumentano il suo pregio architettonico e urbanistico. Del resto, si tratta spesso di fanciulle della migliore nobiltà cremasca e il Benvenuti sottolinea che “nel loro monastero, detto anche delle illustri dame, i nobili solevano intanare le figliuole quand’essi o non volessero o non potessero sottostare al peso di fornir loro una dote decorosa per maritarle”. È uscita nel 2015 una pubblicazione della Società Storica Cremasca che tratta anche del Monastero di Santa Maria Mater Domini e alla quale si rinvia per maggiori approfondimenti.

Si arriva così al periodo napoleonico, nel quale anche a Crema il clero non è trattato con troppi riguardi. Sappiamo quel che succede a molti ordini religiosi, ai loro conventi e alle loro prebende. Nel 1808 viene stabilita la chiusura della chiesa e del convento di Santa Maria Mater Domini, in base all’art. 5 del Regio Decreto del 10 marzo. Dopo alcuni sopralluoghi del Genio Militare, il complesso è prescelto per essere trasformato in caserma di cavalleria. Anche i monasteri femminili cittadini di Santa Monica e di Santa Chiara vengono soppressi. Ma la scelta cade su Santa Maria per le condizioni del luogo, ritenute ottimali per la destinazione di una forza militare di cavalleria. La trasformazione edilizia avviene tra il 1812 e il 1814. Nel 1817, dopo l’occupazione austriaca, viene deciso il trasferimento in questa struttura dell’Imperial Regio Dipartimento degli Stalloni, istituito a Mantova dall’Austria nel 1714, con l’obiettivo di migliorare le razze equine ai fini militari e in parte civili. Il trasferimento è dovuto all’insufficienza degli spazi a Mantova, alla migliore posizione logistica di Crema, alla razionale funzionalità della nuova sede e all’abbondanza di ottimi foraggi di prato stabile del cremasco. All’inizio l’attività si basa su settantasei stalloni, appartenenti a razze germaniche, ungheresi, austriache e slave, con alcuni soggetti di sangue orientale. Prosegue fino al 1845, poi si interrompe per diversi anni e quindi riprende nel 1859, con l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna, che nel 1861 diventa Regno d’Italia. La nuova denominazione è Regio Deposito Stalloni.

Con la legge 31 marzo 1864 anche il Deposito di Crema, come gli altri Depositi nazionali, passa dal Ministero della Guerra al Ministero dell’Agricoltura. Nel 1868 viene soppresso il Deposito piemontese di Fossano, con il trasferimento di quegli stalloni al Deposito di Crema, che assume dunque competenza territoriale su Piemonte, Liguria e Lombardia (esclusa Mantova). Nei decenni successivi il Deposito cremasco segue le linee direttrici dello sviluppo e dell’incremento zootecnico nazionale, dettate dal fabbisogno sempre maggiore di soggetti da impiegare nelle varie incombenze soprattutto militari ma anche agricole e di trasporto. Per l’arma di cavalleria si selezionano cavalli da sella di complessione più leggera, mentre per l’arma di artiglieria si ottengono soggetti più pesanti per il traino dei carriaggi. Si continua anche il miglioramento delle linee di sangue per l’agricoltura. Già in epoca preunitaria era iniziata a Crema la selezione del cavallo “cremonese” per lavori agricoli e traino leggero, che aveva ottenuto buona reputazione anche nelle province limitrofe. Solo successivamente aumenta l’opzione verso linee genealogiche irrobustite da stalloni di razza bretone e belga, sia per le attività agricole, sia come carrozzieri per il tiro pesante e per il tiro rapido. L’impiego del cavallo in tutti gli ambiti militari, agricoli, di trasporto e per i vari servizi civili porta in Italia nel 1908 a un censimento di 980.000 cavalli, su un totale di 2.251.000 equini (gli altri sono asini e muli). Il cavallo è il motore della società del tempo e il Deposito di Crema è uno dei “motori del motore”, di certo uno dei più qualificati. Possono essere allocati comodamente, in box molto confortevoli, fino a 134 stalloni. Decine di riproduttori possono inoltre trovare collocazione in ampie poste, situate nella scuderia cosiddetta dei Venti, adibita in epoca successiva a maneggio coperto. Le attività di monta e di assistenza alle fattrici sono curate da personale specializzato. I servizi di veterinaria e mascalcia sono svolti con grande competenza. È un centro di eccellenza rinomato a livello nazionale, un fiore all’occhiello per Crema, propagandato in immagini pubblicitarie e in cartoline postali.

È nota la storia della generalizzata meccanizzazione che nella prima metà del ventesimo secolo porta a un drastico ridimensionamento di queste esigenze. Già nel 1939 in Italia gli equini sono scesi a 1.871.000, di cui 781.000 cavalli. Questi ultimi scendono a 760.000 nel 1950, all’inizio del dopoguerra. Ovvio che pure il Deposito di Crema segua questa parabola. Con la legge 30 giugno 1954 anche la struttura cremasca assume la denominazione di Istituto di Incremento Ippico, uno degli otto in Italia, con Ferrara, Reggio Emilia, Pisa, Foggia, Santa Maria Capua Vetere, Catania e Ozieri. Continua il crollo nell’utilizzo degli equini: nel 1972 restano in Italia 258.000 cavalli e 264.000 asini e muli, dati che calano ulteriormente nel ventennio successivo. Con la legge 24 novembre 1977 il centro di Crema passa alla Regione Lombardia e con legge 21 ottobre 1978 tutti gli Istituti di Incremento Ippico vengono soppressi come enti statali, con conferimento alle strutture regionali dei loro beni e del personale. Di fatto, nel 1981 il controllo effettivo del centro è assunto dalla Regione. La struttura verrà successivamente affidata all’ERSAF, Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste.

Tuttavia, si potrebbe compiere in quegli anni un’operazione molto interessante. Anche grazie all’allora direttore dott. Vittorio Sartini, si comprende che sarebbe possibile attuare una decisa riconversione delle attività, nel senso indicato dalle mutate richieste degli utenti e seguendo quanto sta avvenendo in molti paesi europei, primi tra tutti la Francia, con i suoi Haras Nationaux, la Germania e la Gran Bretagna. Scomparso il cavallo da tutti gli ambiti militari, agricoli e di trasporto, si sta diffondendo in molti paesi europei la pratica dell’equitazione agonistica, dell’equitazione di campagna e dell’equitazione a fini riabilitativi. Anche la produzione del cavallo a fini alimentari diventa irrilevante in Italia. Per le sempre più ridotte esigenze delle macellerie equine, si ricorre oltretutto all’importazione di cavalli da carne dall’est europeo e da alcuni paesi sudamericani. È una vera vergogna nazionale, per il modo con cui vengono trattati questi animali, che giungono spesso a destinazione morenti. In ogni caso, col tramonto dell’uso militare, agricolo, di trasporto e alimentare del cavallo, si afferma anche in Italia l’utilizzo del cavallo da sella per usi agonistici, per i trekking di campagna e il turismo equestre, per i centri di riabilitazione dei disabili. Queste nuove esigenze potrebbero diventare opportunità molto interessanti, che il centro di Crema potrebbe cogliere.

Anche in Italia si tenta di ottenere un “sella italiano”, come fatto ad esempio per il “selle français”. Inoltre i vari enti del tempo (UNIRE, ENCI, le associazioni allevatoriali) valorizzano le popolazioni equine italiane, cercando di fissare in standard e in libri genealogici anche quelle non ancora rese stabili in precedenza. La struttura di Crema avrebbe ottime potenzialità in proposito, visto l’eccellente mix in dotazione. Alla fine degli anni settanta dispone infatti di settantasei stalloni, lo stesso numero degli inizi: 32 avelignesi, 8 purosangue inglesi, 8 agricoli italiani TPR, 8 franches montagnes, 4 anglonormanni, 3 angloarabo sardi, 3 murgesi, 3 agricoli italiani, 2 purosangue arabi, 2 bardigiani, 1 maremmano, 1 arabo avelignese e un pony shetland. In più, uno stallone asinino Martina Franca, ottimo per la produzione di muli. Gli stalloni possono essere distaccati, nella stagione di monta, in 43 stazioni ippiche. Le discipline olimpiche e il CONI cercano di recuperare il terreno perduto rispetto alle nazioni sempre sul podio, Germania, Olanda, Francia, Inghilterra e non solo. Servirebbero soggetti ben dotati, capaci di affrontare le competizioni e in grado di formare nei maneggi i nuovi cavalieri, estendendo la pratica equestre come momento ludico sportivo e come occasione formativa agonistica. All’estero questo agonismo diventa un business e in Italia si debbono importare cavalli di pregio pagandoli a peso d’oro. Ma non basta. L’equitazione di campagna si diffonde a macchia d’olio. Occorrono cavalli sicuri ed equilibrati, compagni di viaggio resistenti e affidabili. L’ANTE, l’Associazione Nazionale Turismo Equestre, e le altre associazioni promotrici dell’equitazione di campagna organizzano rally a cavallo, affiliando o aggregando numerosi circoli ippici. Il turismo equestre trova in Italia luoghi e itinerari eccellenti e aumentano i raduni regionali e nazionali. Sta per esplodere in Italia il boom dei cavalli americani, a riprova della necessità di soggetti maneggevoli, docili, di facile impiego per tutti. Si è capito che il cavallo italiano è ottimo ma che il miglioramento non deve andare solo in direzione del “modello” ma anche della “testa”. Infatti poi, in pochi anni, l’Italia si riempie di quarter horse e una buona fetta del mercato si mette lo Stetson. Gli Stalloni di Crema potrebbero giocare un ruolo importante in questo nuovo scenario. Certo, la sfida non è da poco e i rischi non mancano.

Purtroppo, la riconversione delle attività degli Stalloni di Crema non avviene o avviene in parte insufficiente. Diverse le cause, diverse le responsabilità, diverse le possibilità mancate, le opportunità non colte, le occasioni perdute. Inutile, a distanza di tempo, recriminare o polemizzare. C’è anche una diffidenza, tutta figlia dei tempi e profondamente errata, verso il cavallo e il suo utilizzo. Il cavallo come simbolo di ceto e di censo, di spocchia e di sussiego. Il cavallo come svago dei ricchi e dei “padroni”. Nella società egualitaristica e “democratica” non c’è posto per il cavallo. Che poi il cavallo sia tutt’altro e possa dare moltissimo in concorso, in campagna o con i disabili, non importa. Che l’equitazione possa costare meno di tante discipline molto diffuse, non importa (una lezione di equitazione costa normalmente dai 20 ai 25 euro). Non siamo in Irlanda o in Francia, dove in campagna, dietro casa, c’è spesso un puledro che sta crescendo come se fosse quasi un membro della famiglia. Alcuni cremaschi si lamentano perché i cavalli “puzzano” e deprecano l’odore delle loro fiande, dolendosene in modo ingiustificato e sopportando invece afrori industriali e inquinamenti ambientali devastanti.

In uno scenario di incomprensione pubblica, latitanza politica e difficoltà gestionali, gli Stalloni vanno così lentamente a morire, di morte progressiva eppure più che dignitosa. In due cataloghi stalloni degli anni novanta compaiono ancora soggetti molto validi, soprattutto per il salto ostacoli. Il secondo di questi cataloghi riporta foto, schede e genealogie di 19 stalloni, tra cui riproduttori francesi importanti e altri soggetti di pregio. Si cerca di tener duro e si organizzano buoni concorsi ippici in collaborazione con l’ACE, l’Associazione Cremasca Equitazione; è attivo sin dal 1979 il centro di riabilitazione equestre, gestito da volontari; periodicamente si tirano fuori le carrozze per dei giri sul territorio; alcuni trekking a cavallo dell’ANTE fanno base per le scuderizzazioni. Tuttavia col nuovo secolo continuano a diradarsi i cavalli nei box, le strutture iniziano a divenire fatiscenti e l’aria di abbandono si fa evidente. È così che gli Stalloni diventano, negli ultimi decenni, come si diceva all’inizio, una situazione irrisolta e un nodo da sciogliere che nessuno risolve e nessuno scioglie. 

Sin dal 1982 si creano comitati di cittadini, più o meno orientati politicamente, per la salvaguardia e il “riutilizzo” dell’area degli Stalloni e per impedire operazioni speculative al suo interno, più o meno facilitate da una certa manleva politica. Si tratta di iniziative che puntano a un cambio di destinazione completo e definitivo. Sempre di più, parlare degli Stalloni ormai non significa parlare del cavallo ma di qualcosa d’altro, che lo si faccia per operazioni malcelatamente affaristiche o in nome di una fruizione “democratica”, “sociale” e “popolare” di quell’area. Già si prefigurano le strumentalizzazioni partitiche degli anni successivi, con le varie forze politiche che accorrono al capezzale di questa struttura entrata ormai in fase di malattia terminale. Nessuno ha una medicina, una cura, un farmaco in grado di guarire il malato. In molti invece, mentre gli Stalloni respirano ancora, si preparano a contendersene l’eredità. Perché è vero che il padrone di casa è la regione Lombardia. Ma la partita può avere anche altri attori, pubblici o privati, e il gioco delle parti può fornire, a seconda del canovaccio, vantaggi politici e ritorni elettorali di sicuro interesse per l’uno o per l’altro degli schieramenti in campo.

Dopo la storia degli Stalloni, è iniziata un’altra storia, ben diversa, la storia della spartizione politica delle spoglie che ne rimangono. Negli ultimi vent’anni esplodono su tali spoglie polemiche e contrapposizioni acerrime, che appartengono a questa diversa e sconfortante storia, che meriterebbe un articolo a parte. Alla fine, nel 2010 il centro viene dato in gestione all’Istituto Sperimentale Lazzaro Spallanzani ma nel 2012 questa collaborazione finisce. Così, dal gennaio 2014 gli Stalloni vengono dichiarati ufficialmente “deceduti” e la loro agonia ha termine. Non hanno termine, come si è detto, le polemiche su ciò che resta degli Stalloni, che anzi aumentano dopo il “decesso” definitivo. L’eredità dell’estinto fa gola a molti. Tre ettari in pieno centro sono un boccone ghiottissimo.

In genere i cremaschi, davanti a queste problematiche rimaste senza esito per decenni, si dividono in due parti. C’è la parte di quelli che sperano nel potere politico in carica, nel notabilato economico di turno, nei maître à penser del momento, perché una brillante idea e una geniale soluzione mettano tutti d’accordo e si arrivi a un risultato conclusivo della vicenda. E c’è la parte opposta, di quelli che preferiscono lo stallo e l’immobilismo della situazione esistente ai probabili e ben peggiori guai, pasticci e danni arrecati alla collettività da interventi politici demagogici, da interessi privati speculativi, da esibizionismi intellettuali. Insomma, ci sono quelli che ancora credono nella capacità della politica di anteporre il bene pubblico della comunità al tornaconto elettorale del partito, da un lato; e quelli, dall’altro, che non ci credono più e preferiscono la condizione di sospensione e di stasi a quella di ulteriore obbrobrio, sconcio e strazio della realtà cittadina. Ecco perché oggi molti cremaschi si mettono in allarme ogni volta che si torna anche solo a pronunciare la parola “Stalloni”. 

Non sappiamo come questa vicenda andrà a finire. L’elenco dei tentativi svolti nel frattempo per mettere le mani sugli Stalloni è desolante. La storia degli interventi finalizzati alla spartizione politica e alla riallocazione economica delle spoglie degli Stalloni negli ultimi lustri, che ciascuna delle parti in causa ha messo in opera, questa storia sconfortante a cui prima ci si riferiva, è veramente degna di un racconto tra il dramma e la farsa. Sul terreno mediatico e nei confronti dei cittadini, scarseggiano i progetti esecutivi specifici e di dettaglio, mentre abbondano (e non è un gioco di parole, visto che si tratta degli Stalloni) gli slogan e le parole d’ordine “di scuderia”. Per lo meno, si potrebbe imparare qualcosa dagli errori commessi nel recente passato. Purtroppo però viviamo in una realtà basata sull’immediato, senza apprendimento e senza memoria.

I cremaschi, preoccupati, incrociano le dita. Perché il film è solo all’inizio e anche l’inizio non l’abbiamo raccontato tutto. Nel prossimo articolo racconteremo la parte mancante.

(1-continua)

Pietro Martini


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