26 ottobre 2022

Cremona piccola: Valentino, le bilance, le poesie e via Vecchia

“Nel '21 si ballava da matti, c'era la giunta rossa, erano i tempi del sindaco Botti. Ho partecipato solo ad una delle veglie rosse, al centro Realdo Colombo, dove c'era tutta la squadra dei maestri democratici, che bevevano come accidenti e non erano mai ubriachi. Erano i tempi di Valentino, il bilanciaio socialista, amico del biciclista Banfi di porta Po, una famiglia tutta di socialisti, con le figlie ballerine di fila alla Scala.”

“Nell'angolo, uno che faceva le bilance, Valentino, rosso di capelli, gran socialista,[..] un uomo intelligente, assessore nella prima giunta del '20 quando sono andati su i bousgnàcch [..] lo chiamavano Valentino dal còl stòrt”.

(si legge in: Maria Biselli, IL MIO REGNO D'ORO  RACCONTO DELLA CITTA'DI CREMONA 1900-1945 a cura di Ughetta Usberti; Cremona libreria Ponchielli,Mantova Gianluigi Arcari Editore 1994. pagine 42 e 92.)

In fondo al piccolo cortile, in uno spicchio di portico, il vecchio Valente continuava ad aggiustare bascule e stadere. Non era più il tempo delle veglie rosse tanto caro alla Maria Biselli, popolana comunista di via Vecchia un budello anarchico e sovversivo che costeggiava il muro della fornace, né quello del Valentino a quel tempo bilanciaio con piccola officina all'angolo della “piazzetta del lino” ora chiamata della Pace.

Mi fermavo incuriosito a guardarlo cercando di capire il senso  del suo mettere, rimettere, togliere per  poi sostituirlo con un altro, aggeggi di ferro arrugginito, tutti uguali se non fosse stato per la dimensione di ognuno. “Sono pesi e contrappesi campione” mi spiegò una volta Leo  rispondendo ad una mia domanda, “gli servono per giustamente regolare la bilancia in modo che questa indichi esattamente il peso dell'oggetto che è stato messo sul piatto” spiegazione che non sciolse del tutto la mia incomprensione. “A vederlo così non sembra ma ad aggiustare le bilance è molto bravo”   continuò Leo “quando la grande bilancia dove pesano i carri con la legna che è  sulla piazza di porta Po vicino alla porta del mattatoio non pesa giusto vengono a chiamare lui”. A volte, mentre aspettavo che il mio amico scendesse, mi fermavo a guardare Valente intento al suo misterioso lavoro, avrei voluto chiedere a lui ma lo sguardo che, alzando di tanto in tanto gli occhi mi rivolgeva, non mi incoraggiava. Ogni tanto, quando stavo li ad osservarlo mentre lavorava, alzava un po' la testa che teneva, chissà per quale vezzo, un tantino reclinata da una parte e dava l'impressione che avesse il collo più corto da quel lato. Schiacciata da un cappello  la zazzera bianca  gli scendeva  a coprire quasi interamente la fronte, mi fissava con lo sguardo che s'infilava   fra i capelli  e i cerchietti  di fil di ferro che contornavano le lenti degli  occhiali. Aveva un che di satanico e la domanda, non detta, gli sprizzava da ogni piega del volto: cosa vuoi...  perché mi guardi?. Certo io, a volte, quando aspettavo Leo e lui non c'era,spinto dalla mia curiosità di sapere toccavo e forse spostavo di poco, qualcuno degli oggetti che teneva sul banco da lavoro dove tutto era disordinatamente ammucchiato sicuro che non se ne sarebbe mai accorto. Invece non era così e imprecava contro chi si era reso colpevole di quegli spostamenti. Penso che non amasse i ragazzi. 

  Abitava in una grande stanza, per entrarvi bisognava passare da una porta sopra la quale era inchiodata una targhetta con la scritta “manicomio”, a metà del  lungo e buio corridoio che dalla strada, quella del  “casot”, portava alla corte. La camera prendeva luce da una finestra, protetta da sbarre di ferro,  che dava sul cortile dirimpettaia di quello spicchio di portico dove lui lavorava. Da questa, quando la luce lo permetteva e Valente non c'era, si poteva guardare all'interno dove sovrano era lo stesso disordine che regnava sul suo banco da lavoro.  Imperavano i fogli arrotolati su se stessi confusamente sparsi, appesi ai muri frammisti a carte che riproducevano il mondo intero e queste erano grandi come quelle che avevo visto solo a scuola. Testimoni di passate letture, sovrastanti il tutto,  libri e  libri, disordinatamente impilati o distesi, coprivano ogni superficie,  ammucchiati in ogni dove: sui sedili delle sedie, su ogni altra superficie, sul tavolo  frammisti ad  oggetti che avevano servito e ancora servivano per il vivere quotidiano e tutto sembrava essere lì da un tempo immemorabile.   “E' un po' matto” mi diceva Leo, “a volte gesticola, agita il libro che tiene in mano e parla da solo mentre passeggia avanti ed indietro per tutta la lunghezza della stanza”. Una sera, mentre scendevo le scale, lo sentii borbottare. Intrigato dai racconti di Leo, seminascosto, mi appostai  al di qua della finestra. Lo vedevo di spalle ed il suo, più che un camminare,  mi parve un lento trasferirsi nella parte più profonda  della stanza.  Teneva alto un braccio mai fermo.  Più che parole arrivava fino a me un continuo diversamente modulato basso brontolio. Improvvisa la voce si alzò e lo sentii distintamente esclamare: aah quel tu!.. quel tu.!!.  “che tu sol m'ai fatto diventar poeta”!!!” Si girò repentinamente, non ebbi la prontezza necessaria per sottrarmi alla guardata con la quale m'inquadrava.  Immobile ressi il suo sguardo diavolesco mentre s'approssimava. Con la rapidità che mai avrei supposto avesse s'avvicinò, spalancò dall'interno le antine a vetri che chiudevano la finestra e fissandomi feroce mi disse: “ecco....così smetti di spiarmi!!”.  Sbollì immediatamente la sua ira e riprese, allontanandosi, a parlare da solo, le parole le sentii distintamente. Valente, quel tardo pomeriggio non parlava da solo  ma ripeteva a stesso  parole che erano state di altri e che un lontano maestro, forse divertito dal  supplizio che gli andava imponendo, l'obbligava a leggere e rileggere fino a quando, immagazzinate, non avesse saputo ripeterle a memoria. Poteva averle  imparate da solo, indottovi da una misteriosa curiosità o dal trasporto emotivo che quelle parole, con ogni probabilità incontrate per caso, gli sapevano indurre e  che forse ricercava con quella solitaria recitazione serale.  Negli  anni, involontariamente, Valente si era ritrovato a ripetersi quelle rime nel tentativo, forse, di rivivere,  emozioni antiche. Da quando aveva spalancate le antine della finestra,  ripreso l'andare e venire per la lunghezza della stanza, la sua voce mi giungeva forte accompagnata sempre dall'agitarsi armonico del braccio proteso verso l'alto ed il suo ritmato muoversi  mi sembrava precedere, seguire, accompagnare le più o meno prolungate  pause ed i diversamente modulati toni dell'enfasi e dei suoni.  Valentino recitava  i  versi di una poesia che raccontava   di  “un'acqua cristallina e cheta”, del  percettibile  “fruscìo gentil” emesso dallo  scorrere “fra la sabbia d'or delle sue sponde”  e tutto mi parve famigliare, già conosciuto, quotidiano. 

Ennio Serventi


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commenti


michele de crecchio

8 novembre 2022 21:05

Estremamente gradevole il racconto-ricordo!
A proposito, sapete perché la via Vecchia si chiama così? Neppure il prof. Taglietti, nei due volumi con i quali "surclassò" il precedente libro del Cavalcabò sulla toponomastica cittadina, lo sa spiegare, come invece seppe ben spiegarlo il geometra Ghizzoni che di tale strada conosce ogni peculiarità.
Quando non esisteva ancora il ponte in ferro, per attraversare il fiume Po, occorrevano due "porticcioli" su entrambe le sponde: le barche mosse a remi potevano infatti attraversarlo solo muovendosi in diagonale verso valle per mitigare la spinta della corrente (dal porticciolo posto più a valle dove era avvenuto l'approdo, le barche venivano poi riportate verso monte, con una faticosa operazione detta "alaggio", al porticciolo dal quale sarebbero ritornate, ovviamente muovendosi in diagonale, verso la sponda opposta. La via fu detta "vecchia" quando la sua originale utilità venne meno per la costruzione del viale Po e del ponte in ferro!