5 novembre 2021

Federico Ferrari, testimone della più cocente sconfitta del duce. Le pagine del giovane cremonese chiariscono il senso della scelta degli Internati Militari Italiani in Germania

Della più significativa sconfitta di Benito Mussolini fu testimone Federico Ferrari, giovane di Castagnino Secco (oggi Castelverde), figlio di Umberto Ferrari, fiero avversario di Farinacci. Federico era nato nell’Agosto 1919 e, deportato in Germania dopo l’8 settembre ‘43, fu assassinato senza ragione il 24 aprile ‘45 a Weinböhla (Dresda), dal comandante del Volksturm locale. Ci ha lasciato due quaderni di appunti, in cui narra la sua vicenda di internato militare e soprattutto le motivazioni che lo portarono a sacrificare la sua giovinezza per una chiara scelta anti-fascista. La tenuta di un diario comportava il rischio di fucilazione senza processo.

Perché un giudizio così netto sulla  resistenza non armata, ad oltranza, dei 600.000 soldati e ufficiali imprigionati nei campi di concentramento tedeschi? Non fu più cocente lo smacco delle “camicie nere” in Grecia (un paese di 44 milioni di abitanti che ne assale uno di 8), che dopo pochi giorni dall’invasione, di fronte alla controffensiva greca, rischiarono di essere ributtate in mare? Secondo Elena Aga-Rossi, di Casalmaggiore, la maggiore  studiosa delle vicende italiane dal 1943 al ’45, con la nazione allo sbando, (Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, 2011, scritto con Maria Teresa Giusti), si registrarono sul fronte greco-albanese 13.755 caduti, 25.067 dispersi, 50.874 feriti, 12.368 congelati, 4.596 prigionieri. Tra di essi, particolarmente gravi furono le perdite delle “camice nere”, inviate in massa per celebrare il 28 ottobre 1922 (marcia su Roma): ben 27 battaglioni andarono persi e fra questi 7 vennero sciolti perché ridotti agli estremi.

E non era stata più terribile la constatazione, già alla fine del 1940, che l’Impero tanto celebrato, sia in Libia sia in Etiopia, era ormai in totale sfacelo? In Libia i nostri soldati, di quattro volte superiori di numero, furono travolti già dal dicembre 1940 dagli inglesi. Lo stesso generale Graziani dovette ammettere, anche per riparare i suoi errori, che la battaglia degli Italiani e i Britannici era paragonabile alla "lotta della pulce contro l'elefante”. Mandati al macello. Come in Russia, del resto.

Non fu più grave lo sfregio del 25 luglio ’43, quando Mussolini venne posto in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo – l’organismo da lui stesso creato  e poi trasformato nel massimo organo istituzionale del Regno d'Italia – e subito dopo fatto arrestare dal Re? Oppure quando, due settimane prima, ci fu lo sbarco alleato in Sicilia? Non aveva per caso il Duce affermato che se gli Alleati avessero tentato di invadere il suolo italiano, sarebbero rimasti fermi sul “bagnasciuga” in posizione orizzontale (cioè cadaveri), perché caduti come facili prede in bocca al leone?

Nonostante questi dati storici inoppugnabili, che pesano come macigni sulla coscienza del Duce e dei suoi seguaci di ieri e di oggi, continuo a ritenere non azzardata la tesi che più grave di tutti fu il consenso negato alla Repubblica di Salò e al suo capo da parte delle centinaia di migliaia di internati militari nei mesi successivi all’8 settembre, così ben testimoniato da Federico Ferrari, in un “Diario” scritto a matita, dal 1943 al 1945. Nelle cui pagine si trova la ferrea scelta del giovane, che appare come ammiratore della Germania a cui riconosceva “il valore assoluto del popolo tedesco nella storia della tecnica moderna e della civiltà europea, e del soldato tedesco”, ma anche fautore di una resistenza senza compromessi: “fino a venti giorni o un mese a questa parte ho avuto occasione di manifestarmi in maniera inequivocabile per una resistenza ad oltranza, senza compromessi d’alcuna sorta”. Parole queste che acquistano un significato pregnante, in quanto si trovano anche in un’altra testimonianza, quella di Alessandro Natta (che diverrà segretario di PCI dopo Berlinguer), quando parla di una “resistenza immediata e intransigente”. Posizioni, che testimoniano l’altissimo valore etico, delle loro sofferte scelte. 

Dopo il Liceo Classico a Cremona e l’iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza all’Università Cattolica a Milano nell’ottobre 1938, Federico prese parte, tra l’altro, all’addestramento della Milizia Universitaria voluto dal Fascismo, per “forgiare” giovani disposti a combattere per la grandezza della patria fascista e del loro Duce. Il 15 giugno 1940, una settimana dopo la dichiarazione di guerra, Federico cominciò un corso nella Scuola Allievi Ufficiali di Complemento Alpini di Bassano del Grappa. 

Finirà sul fronte russo, come sottotenente, assegnato al Quartier Generale della “Tridentina”, collega e amico del Ten. Cappellano don Carlo Gnocchi. Durante la ritirata dal fronte russo nel gennaio 1943, Federico compì atti di eroismo nel rompere l’accerchiamento nemico, per cui fu insignito della medaglia di bronzo al valor militare. Il 17 marzo rientrò dal Tarvisio in Italia, ma il ricordo della ritirata gli rende mesto il ritorno: “quanti compagni avevamo lasciato – che lunga fila di morti vedevamo sulla neve delle nostre tragedie”. Dopo l’armistizio, venne catturato dai tedeschi a Bressanone insieme a reparti della Tridentina e inviato prigioniero in Germania. 

E’ qui che comincia la sua esperienza di IMI. E inizia la stesura di un diario di cui lo studioso che l’ha pubblicato scrisse: “La memorialistica sull’internamento in Germania si è molto arricchita, dopo una lunga fase di rimozione e di silenzio, ma è quasi esclusivamente frutto di una ricostruzione a posteriori o, più raramente, di una rivisitazione di appunti coevi agli eventi. Per questo il diario di Federico, giunto a noi fortunosamente dopo la sua morte, costituisce un documento a suo modo unico” (Cfr. L. Zani, Resistenza a oltranza. Storia e diario di Federico Ferrari internato militare italiano in Germania, Milano 2009). Importanti le sue riflessioni soprattutto per quanto riguarda il modo con cui lui arrivò ad optare per la non adesione alla Repubblica di Salò. Gli IMI avevano confusamente compreso un’amara verità, che pesò sulla loro decisione. 

I militari italiani nel corso della II guerra mondiale furono traditi due volte. La prima da Mussolini, quando, dopo quasi due decenni di indottrinamento sulla grandezza e la forza dell’Italia fascista, degna erede dell’Impero Romano, furono imbarcati in un’avventura bellica senza la preparazione e l’armamento necessari. Il 27 maggio del’40, nota Galeazzo Ciano, genero del “duce” e ministro degli Esteri, “non è che egli vuole ottenere questo o quello: vuole la guerra. Se pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe”. Al superiore armamento alleato, i nostri soldati potevano contrapporre solo atti isolati di straordinario valore, ma l’assetto militare complessivo appariva di desolante inadeguatezza. 

La seconda volta dal Re e da Badoglio, dopo il 25 luglio, con la caduta e l’arresto di Mussolini, i quali presero contatti con gli Alleati per concordare la resa. Scrive Elena Aga Rossi: “rimane incomprensibile la decisione del Comando supremo e delle Stato maggiore dell'esercito dopo l'annuncio dell'armistizio di non emanare l'ordine di esecuzione della "Memoria 44". Di cosa si trattava? La “Memoria OP 44” conteneva disposizioni per i comandi superiori delle FF.AA. sull'atteggiamento da tenere verso i tedeschi, che - da alleati - si sarebbero trasformati in possibili nemici. Tale documento fu inviato il 2 sett. 1943 nella imminenza dell’armistizio di Cassibile. Ordinava alle diverse armate (la II armata, l’VIII, la IV, la V e quelle di stanza in Sardegna e in Corsica) di mettere fuori combattimento le forze tedesche per di impedire ai Tedeschi di occupare tutta l’Italia. Ma dal Vertice Politico e Militare non si emanò nessun ordine, lasciando sulle spalle di ogni comandate la decisione se combattere contro i Tedeschi. Le truppe furono lasciate a loro stesse e in gran parte fatte prigioniere dai tedeschi in Italia, in Slovenia, Croazia, Albania, Grecia, Isole Egee e Ionie, Provenza, Corsica:  810.000 secondo lo storico tedesco Gerhard Schreiber. Ma non trattati come prigionieri di guerra, coi relativi vantaggi delle convenzioni internazionali, ma IMI, senza uno statuto giuridico definito. Circa 45.000 non torneranno più indietro, altrettanti moriranno dopo il rimpatrio. 

Ma ecco la grande sorpresa: la maggioranza di soldati e ufficiali non accettò di schierarsi col Reich, giungendo a tale decisione attraverso un processo di confronto democratico allargato, soprattutto tra gli ufficiali: conferenze, discussioni, confronti, dibattiti. Il rifiuto esplicito o tacito di questi 600.000 rappresentò il totale fallimento del progetto di Mussolini di trasformare il popolo italiano, soprattutto le leve giovanili, in “un’armata di eroi”, pronti a lottare e morire per l’Italia fascista. Il “Duce”, cioè il “Condottiero” di un popolo, si trovò senza popolo, senza consenso, rappresentante di un’infima minoranza. Come affermò Natta, la situazione venne rovesciata: “i lager, in special modo quelli dove erano tenuti prigionieri gli ufficiali, dall’arrivo in Germania separati dai soldati, diventarono scuole di democrazia”. 

Gli inviati della Repubblica di Salò svolsero un’azione capillare di convincimento, che esercitò un’enorme pressione insieme alla fame, al freddo, alla prigionia. All’inizio, scrive Federico Ferrari, “Non fecero propaganda in maniera ufficiale, ma passarono a trovare gli amici loro e nelle camerate parlando ad uno ad uno. Benché le promesse non fossero molte, la prospettiva dell’Italia fu efficace”. Il numero degli aderenti alla Repubblica di Salò, in questa situazione di ricatto oscillò tra i 186.000 e gli 197.000. Però il confronto così allargato costrinse ognuno ad un profondo esame delle personali convinzioni. Emblematiche a questo riguardo le pagine di Federico, che illustrano la vicenda di un’intera generazione di giovani cattolici, cresciuta ed educata (e manipolata) negli anni del fascismo, che a poco a poco risalì alle origini delle proprie convinzioni per incontrarsi con i filoni più vivi della tradizione liberale e democratica. 

Molte le pagine scritte su questo da Federico. Descrive il formarsi di diversi gruppi di orientamento politico e ideologico, le contrapposizioni a volte anche accese e quasi violente tra di loro, ma, pur soppesando i pro e i contro di una scelta, è deciso a non “firmare quella mostruosa formula di collaborazione” coi tedeschi. Federico teme l’aprirsi di lacerazioni tra i prigionieri e il “no” alla Repubblica di Salò è motivato anche dal desiderio di evitare scontri futuri: “Noi ancora ci sacrifichiamo per la nostra Italia, rimanendo per non aumentare i dissidi e le discordie venture. Il Signore ci assista”. In una lettera alla madre scriverà: “D’altra parte quale sarà nel dopoguerra la situazione di costoro che pur trovandosi in condizioni eccezionali che forzano la loro volontà, pure in ogni modo hanno consentito a dare un apporto alle forze che protraggono la guerra?”.

Ma nulla di predeterminato: quante titubanze, quante incertezze, quante alternative si aprivano giorno per giorno! Annota il giovane: “Io non ho optato: ma sono stato parecchio in forse, specie quando la posta da casa mi portò la notizia che le pratiche per il mio rientro erano state inoltrate dal 12 novembre per incarico di Guarneri”. Il riferimento è alla possibile protezione di Felice Guarneri, il padre della sua promessa sposa Vittorina, ex-ministro di Mussolini, e quindi binario privilegiato alla sua possibile liberazione, ma la coerenza del giovane non gli consentì di rinunciare al precedente giuramento di Ufficiale dell’Esercito Italiano.

Le pagine del diario poi scorrono, con la descrizione dei vari passaggi della detenzione, da Stablack a Deblin, da Mülberg a Weinböhla, e degli stati d’animo degli Internati, le relazioni tra di loro e con la popolazione. Ma la vera peculiarità di Federico è quella di essere non solo osservatore ma abile scrittore: di relazioni, di atmosfere, di paesaggi, di costumi, di culture e spiritualità, senza acredine e avversione nei confronti dei Tedeschi. Ma anche del suo animo, che sa trasformare la scrittura privata dell’io in un momento di cura di sé, di catarsi, di crescita umana. 

La letteratura dell’Internamento si è andata arricchendo di pagine di straordinario valore testimoniale, psicologico, storico. E’ ormai assodato, purtroppo, che sul ruolo dell’esercito e dei militari nella caduta del Fascismo e nella Resistenza, c’è stato un vuoto di ricerche, quasi a negare loro un qualsiasi peso. La loro esperienza non era chiaramente collocabile in una prospettiva ideologicamente orientata: che una forma di resistenza così ampia fosse nata nel seno dell’esercito fedele al suo giuramento dispiaceva alla destra, in quanto mostrava come minoritaria e illegittima fosse la scelta “repubblichina”, ma dispiaceva anche alla sinistra, in quanto testimoniava l’esistenza di ampie forme di resistenza al nazi-fascismo sviluppatesi al di fuori della classica lotta partigiana. Perciò ci fu, a parte alcune eccezioni, quasi una congiura del silenzio, tesa a sminuire l’apporto che circa 600-800.000 militari italiani fornirono con la loro Resistenza a oltranza nel segnare la irrimediabile sconfitta di Mussolini. Basti pensare che il testo di Alessandro Natta, L’altra resistenza. I militari italiani internati in Germania, scritto nel 1954, non fu pubblicato dalla casa editrice del PCI, ma solo quarant’anni dopo.

Termino con un ricordo personale. Nel 2010 organizzammo a Castelverde un convegno su Federico Ferrari. Scrissi alla sua promessa sposa, Vittorina Guarneri, rimasta fedele al suo fidanzato per sempre (tra l’altro è ancora viva): “Sono rimasto colpito emotivamente nel leggere per intero la vicenda di Federico e le bellissime pagine del suo diario, con la sua capacità di osservare in sé e fuori di sé, con serenità anche nelle condizioni più difficili, con la sua coerenza e dirittura morale. Rivelatrici di quanto ha vissuto, ma soprattutto di quale animo avesse. Ne parlavo proprio ieri sera con mio figlio, che non sa niente di queste cose, ma ad un certo punto esclamò: “Ma che bella persona era questo Ferrari. Un grande peccato che persone così debbano essere morte giovani!”. Ecco una degna conclusione: Mussolini e i nazi-fascisti furono sconfitti non solo dagli Alleati, non solo dalla lotta armata della Resistenza, ma anche da tante “belle persone”, che tacitamente seppellirono personaggi, ideologie, retaggi, di pagine nere della nostra storia patria.

Carmine Lazzarini


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