20 luglio 2023

Giovanni Gervasoni, il capitano coraggioso

Scendendo dalla zona del porto verso i quartieri più recenti e lontani dal mare, in direzione sud-est, è difficile immaginare questi luoghi come erano allora, ai tempi dei due assedi. La città era ancora racchiusa nella cinta di mura antecedente agli allargamenti della cerchia difensiva, realizzati pochi anni dopo il plebiscito del 1860. Non c’erano gli ampliamenti urbani posti sui colli verso meridione. Verso sud la zona era ancora completamente verde, ad eccezione di alcuni agglomerati agricoli e poco altro. I due assedi erano avvenuti nel 1849 e nel 1860. In entrambi i casi i combattimenti erano stati molto aspri e la città era stata assediata sia da parte di mare che da parte di terra. Nel 1860, dopo essere stati sconfitti a Castelfidardo, i papalini e i loro mercenari si erano arroccati qui ad Ancona. Poi però, alla fine, le truppe del generale Manfredo Fanti li avevano fatti sgomberare. Questa volta erano stati gli italiani ad assediare la città, mentre invece nel 1849 erano stati gli italiani a essere assediati, con gli austriaci del generale Franz von Wimpfen a bombardarli. Continuando ad attraversare i quartieri odierni, si arriva al rione Santo Stefano e poi si può salire fino al parco della Lunetta.

Nel 1849 la città si era dichiarata libera dal dominio temporale pontificio e aveva aderito alla Repubblica Romana. Poi, tra il maggio e il giugno di quell’anno, per circa un mese, gli italiani avevano resistito all’assedio degli austriaci, che bombardavano di continuo e in modo indiscriminato la città. Tra i difensori c’erano diversi volontari, provenienti da varie regioni italiane. Per l’eroismo dimostrato in quell’assedio, Ancona è stata insignita della medaglia d’oro come “Città benemerita del Risorgimento nazionale” (R. D. n. 178 del 18 maggio 1899). Ai tempi del mio liceo andava di moda citare Bertolt Brecht con il suo “sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. E studiando storia risorgimentale non mancava il “Risorgimento senza eroi” di Piero Gobetti. E via di questo passo. Erano tempi così, quando il tricolore e l’inno nazionale erano tollerati solo allo stadio. Per dirla con Eduardo De Filippo, aveva “da passà ‘a nuttata”. Oggi è diverso. E può succedere che, arrivando alle fortificazioni della Lunetta di Santo Stefano, ci si possa trovare sulle tracce di un eroe.

Quando si parla della difesa di Ancona del 1849, è frequente citare gli eroismi di molti italiani, anconetani oppure provenienti come volontari dal resto d’Italia, ad esempio quelli del bolognese Livio Zambeccari o quelli di Antonio Elia, fucilato con un pretesto insieme a Giuseppe Magini dai gendarmi papalini e dai soldati austriaci poco dopo la resa della città. L’eroe di cui stiamo seguendo le tracce è però un altro. Faceva parte del Settimo reggimento di linea al comando del colonnello Luigi Pianciani. Era un capitano e comandava l’ottava compagnia di quel reggimento. Con la sua compagnia difendeva questo avamposto fortificato contro gli assedianti austriaci, l’avamposto della Lunetta di Santo Stefano. Il suo nome era Giovanni Gervasoni. Era nato 33 anni prima, a Crema. Questa è la sua storia.

Giovanni Antonio Gervasoni nasce il 30 aprile 1816, nella parrocchia della Cattedrale di Crema. Il dato è fornito dai registri dei Nati del 1816 e dagli Status Animarum del 1815/1816 e 1816/1817 dell’Archivio Storico Diocesano di Crema. Nel 1816 erano nati a Crema 286 neonati, compresi i 26 abbandonati sulla ruota dell’Ospedale Esposti (quasi il 10%, in quell’epoca un dato usuale a Crema). Da queste fonti d’archivio risulta che la popolazione totale della città fosse di 8.222 unità, compresi 121 sacerdoti e 10 chierici. Il padre di Giovanni era Gaetano Gervasoni, possidente, di famiglia abbiente. La madre era Quintilia Maridati, anche lei possidente e di famiglia agiata. Il padrino era Govanni Battista Meleri. Nell’anno in cui nasceva Giovanni, l’Austria era ormai saldamente insediata anche a Crema e il Lombardo-Veneto asburgico era una realtà istituzionale formalizzata in Italia dall’anno precedente. Nel gennaio 1816 era stata istituita la provincia Lodi-Crema e a febbraio Francesco I d’Austria era stato accolto con giubilo a Crema, ospitato nel palazzo Benvenuti in contrada di Porta Ripalta (oggi via Matteotti) e allietato in teatro con una solenne cantata, musicata da Stefano Pavesi. Il 1° luglio era diventato Podestà il conte Paolo Premoli. Il vescovo era Tommaso Ronna, milanese, uomo dotto e studioso di alta levatura culturale. 

La famiglia Gervasoni abitava in contrada del Ritorto, nella parrocchia della Cattedrale. In quel periodo di inizio Ottocento, questa via corrispondeva al tratto finale dell’attuale via Frecavalli, a ponente verso via Verdi. L’antica contrada di San Francesco, intitolata alla famiglia Frecavalli nel 1871, aveva già cambiato nei due secoli precedenti diverse intitolazioni. In quegli anni della Restaurazione, era denominata contrada Solitaria nel primo tratto a levante, fino alla chiesa di San Bernardino; poi contrada di San Giuseppe, da quella chiesa fino all’incrocio con l’attuale via Ponte Furio; infine contrada del Ritorto da quell’incrocio in avanti. Esistevano allora a Crema vari rami familiari dei Gervasoni, che facevano parte, tranne qualche rara eccezione, della buona borghesia cittadina e potevano contare su posizioni economiche di sicuro affidamento. Anche Benvenuti, nel suo Dizionaro Biografico Cremasco, definisce “benestanti” entrambi i genitori di Giovanni. Uno di questi Gervasoni, Giacomo quondam Giovanni (quest’ultimo è un nome ricorrente in famiglia), era proprietario in quell’epoca dell’attuale palazzo Marazzi, allora adibito a casa di abitazione con annessi osteria e albergo (mappale 383 del Sommarione Massari), immobile poi ceduto dal Gervasoni a Pietro Antonio Rampazzini per il servizio trasporti tra Milano, Lodi e Crema (albergo del Pozzo Nuovo). Da uno studio di Marisa Desti del 2009, il cognome più diffuso a Crema nell’anno 1816, sulla base di una valida sintesi statistica, era proprio Gervasoni. In realtà, il cognome Gervasoni è storicamente molto diffuso soprattutto nell’area bergamasca e non c’è nulla di più probabile che i rami familiari cremaschi, peraltro oggi estremamente ridotti rispetto ad allora, fossero derivati proprio dai vicini territori bergamaschi. In ogni caso, Giovanni cresce in un ambiente familiare e sociale molto solido, munito di tutte le rassicurazioni affettive ed economiche di cui poteva godere un rampollo dei ceti medio-alti cittadini.

Non conosciamo le ragioni per cui la famiglia, invece di iscrivere Giovanni al Ginnasio locale, come in genere avveniva per i giovani delle famiglie della nobiltà e della borghesia cremasca, decida invece di farlo entrare in seminario, per intraprendere la carriera ecclesiastica. Va detto che allora avere un sacerdote in famiglia, sperando magari in suoi futuri incarichi di un certo prestigio, faceva parte delle politiche familiari di buona parte dell’establishment cremasco, soprattutto dopo la Restaurazione e dopo il ritorno in auge, con il supporto austriaco, di certi poteri confessionali. Non disponiamo di elementi che possano spiegare questa scelta. Forse Giovanni aveva avvertito nel proprio animo una sincera vocazione. O forse no. Benvenuti dice che “giovinetto, vestì l’abito clericale ed entrò in seminario”. E aggiunge subito dopo che però “la sua testa era fatta a tutt’altro che a portare la tonsura”. Di sicuro sappiamo che in seguito Giovanni non conclude il percorso intrapreso e non viene ordinato presbitero. Anche se in alcune fonti che trattano delle sue vicende successive viene definito come “sacerdote”, dalle risultanze d’archivio esaminate si può escludere che abbia ricevuto questa ordinazione. Quando abbandona la tonaca, la sua è ancora una tonaca da semplice seminarista.

Che l’Ottocento sia il secolo del romanticismo, del patriottismo, delle passioni e delle avventure, che sia il secolo dei popoli, delle nazioni, delle lotte per la libertà e degli eroismi fino all’estremo sacrificio, è senz’altro risaputo. Però colpisce sempre il vedere, negli anni del nostro Risorgimento, così tanti ragazzi abbandonare gli agi e le comodità, spesso le ricchezze e le sicurezze nobiliari o borghesi, lasciandosi indietro tutto, la famiglia, la casa, gli studi, un futuro di gratificazioni e di certezze, per partire verso l’ignoto, verso un ideale, verso un sogno, verso qualcosa ispirato da un afflato spirituale, da un sentimento di libertà, giustizia, amor di patria. Colpisce sempre questo comportamento del “prender su e partire”, spesso in modo improvviso, a volte d’istinto e senza pensarci troppo sopra, con un gesto non sempre ponderato. Forse è qualcosa che si può fare più facilmente in gioventù, forse erano cose che in quei tempi avevano più senso di quanto ne abbiano oggi. Difficile a dirsi. E difficile dire in quanti oggi prenderebbero le armi se i nostri confini fossero violati da certe aggressioni. Fatto sta che Giovanni lascia il seminario, lascia la sua famiglia e la sua città, lascia l’Italia e va in Francia.

“Nel sangue giovanile gli bollivano spiriti marziali” dice Benvenuti. E da questo momento in avanti il suo si manifesta sempre come uno spirito militare, votato al combattimento, alla battaglia sui terreni di guerra. Come altri giovani avventurosi, si arruola nella Legione Straniera francese e combatte nelle campagne militari francesi in Algeria. La vicenda storica della conquista francese dell’Algeria risale all’ultimo periodo di Carlo X ma è soprattutto con suo cugino Luigi Filippo che la guerra algerina si sviluppa in tutta la sua entità e drammaticità, con massacri ed efferatezze che, soprattutto dal 1830 al 1847, portano la Francia a prendere possesso di questa colonia. Fondata il 10 marzo 1831 da Luigi Filippo, soprattutto a supporto della conquista dell’Algeria, la Légion Étrangère incorporava tra i propri volontari anche tutti gli stranieri disposti ad accettare le sue particolari regole d’ingaggio. In cambio, sin da allora si chiudeva un occhio sui precedenti degli arruolati, che potevano anche assumere generalità diverse da quelle reali e trovare rifugio in questo corpo militare dopo eventuali trascorsi critici con la giustizia e con la società civile. Giovanni ha la fedina penale pulita. Addirittura, viene dal seminario. Ma capisce subito che questa è la vita adatta per lui. Comincia a combattere in varie battaglie e si distingue per il suo coraggio e per le sue capacità militari. È una guerra molto dura, per le marce nel deserto, le privazioni della vita di guarnigione, gli scontri cruenti e senza quartiere con le formazioni della resistenza algerina. Giovanni ottiene vari riconoscimenti sul campo e gli viene riconosciuto il grado di ufficiale. Diviene infatti luogotenente dei Képi Blanc e dimostra doti di comando non comuni. Tra i cremaschi che hanno combattuto nella Legione Straniera francese, è probabilmente quello che vi ha prestato servizio per il maggior tempo e con la migliore valentia.

Quanto sopra senza nulla togliere ad altri due cremaschi molto importanti, il conte Fortunato Marazzi e il conte Ottaviano Vimercati. Marazzi entra nel Règiment Ètranger diversi anni dopo, nel 1870, a diciannove anni. Milita dapprima in Francia, come sottotenente, nel corso della guerra franco-prussiana e durante il drammatico periodo della Commune, poi dal 1871 in Algeria, con il grado di tenente, a Sidi-bel-Abbes e quindi verso il confine con il Marocco, nella campagna militare contro la tribù dei Sidi Cheikh. Nel 1872 rientra in Italia e dunque la sua appartenenza è di circa due anni, come anche indicato nella tesi di dottorato di Andrea Saccoman (A. A. 1997/1998) dedicata a Marazzi. Si veda alle pp. 7-15. Di Vimercati molti hanno menzionato la militanza come legionario, a partire da Benvenuti (“arruolossi nella legione straniera e passò in Africa a combattere gli algerini”). In realtà, Francesco Fadini e Manlio Mazziotti di Celso, nella loro opera pubblicata su Vimercati nel 1991, precisano che questi prese ingaggio a Marsiglia nel 1841, a ventisei anni, ma non come legionario bensì come “appartenente alla truppa indigena degli spahis regolari di Orano, agli ordini del tenente colonnello Yusuf, i cui squadroni facevano parte della divisione del generale Lamorcière”. Si veda a p. 9 e poi, per il successivo biennio algerino di Vimercati (che nel 1843 è già tornato in Italia) alle pp. 14-30. Nessun dubbio comunque sui meriti militari di Vimercati in Africa, che hanno tra l’altro buona risonanza sia in Francia che in Italia. Ma non sono meriti ottenuti militando nella Legione Straniera, bensì in altri corpi ausiliari dell’esercito regolare francese. Ma torniamo al legionario Gervasoni.

Durante la sua militanza nella Legione, succede a un certo punto che un altro ufficiale, un francese, lo insulti. Ne nasce una sfida a duello, secondo un preciso codice d’onore in madrepatria, che però potrebbe trovare dubbia applicazione in quel contesto bellico coloniale. Nel duello Giovanni uccide l’avversario. Viene allora sottoposto a un Consiglio di guerra militare. Il caso rimbalza sulla stampa francese. Giovanni rischia una condanna molto grave. È a questo punto che nella sua vita si inserisce un fatto che è rimasto ancor oggi poco chiaro, per lo meno riguardo alle sue ragioni e al suo protagonista. Anzi, alla sua protagonista. Dice Benvenuti che Giovanni “avrebbe subita una terribile condanna, se per lui non avesse implorata la grazia reale una distintissima dama cremasca, che trovavasi casualmente a Parigi”.

Più volte si è cercato di identificare tale “dama cremasca”. Benvenuti non ne dice il nome. A Parigi ogni tanto qualche nobildonna cremasca ci andava, con il marito e in genere per brevi soggiorni. Ben difficile comprendere le ragioni di questo interessamento, forse soltanto dovute alla comune origine cittadina. Ancor più difficile trovare una “dama cremasca” allora in grado di influenzare addirittura la decisione di Luigi Filippo oppure anche di un suo ministro nella concessione di una “grazia reale”. L’archivio familiare dei Benvenuti, presso la villa di Ombriano, solo in parte riordinato anni addietro, potrebbe forse contenere delle risposte in proposito? In ogni caso, al momento attuale si resta nel campo delle ipotesi non suffragate da fonti documentali specifiche. Il terreno d’indagine potrebbe cominciare ad essere approfondito partendo da alcune “dame cremasche” che più di altre potrebbero essere candidate a questo ruolo. Una di queste, in particolare, potrebbe aver avuto accesso a livelli decisionali sufficienti allo scopo, grazie alla buona relazione con un importante ministro francese. Però in quegli anni risiedeva stabilmente a Parigi e questo contrasterebbe, forse, con l’avverbio “occasionalmente” utilizzato da Benvenuti. Comunque, è inutile andare oltre su questo aspetto, almeno fino a quando dalle ipotesi si potrà eventualmente passare a qualcosa di più fondato. Resta il fatto che Giovanni, grazie a questa provvidenziale intercessione, riesce a evitare la “terribile condanna”. Deve però lasciare la Legione, con molto dispiacere e notevole rincrescimento. Dall’Algeria ritorna in Europa, però preferisce non tornare in Francia e nemmeno in Italia. Il suo spirito d’avventura e la sua passione per le armi e la vita militare lo portano adesso in Spagna.

Inizia qui un periodo molto oscuro della vita di Giovanni. Si sta avviando verso la trentina, è ormai un uomo fatto e un combattente provetto, ha delle doti di ufficiale guadagnate sul campo per le sue capacità militari e di comando. “Andò venturiero in Ispagna e vi rimase alcuni anni”, dice Benvenuti. La mancanza di informazioni e l’opacità di questo periodo della sua esistenza ci impediscono di capire in che senso Giovanni “andò venturiero”. Erano i tempi delle guerre carliste e delle varie guerriglie che in continuazione si manifestavano nella penisola iberica come corollario di quelle guerre principali. Niente di più facile che Giovanni, grazie alla sua esperienza militare e alla sua intraprendenza, abbia trovato modo di farsi valere anche in quei contesti bellici, in qualche formazione regolare o forse in qualcuno dei vari corpi franchi o addirittura nei reparti mercenari che partecipavano a quelle operazioni di guerra. Sappiamo che non di rado, tra i volontari che si arruolavano in queste formazioni militari o paramilitari, c’erano pure degli italiani, spesso fuggiti dall’Italia per evitare le persecuzioni, i processi e le sanzioni derivanti dalle loro attività di patrioti.

Sappiamo che la Legione, oltre che in Algeria, è anche in Spagna nel periodo delle guerre carliste. In realtà, la principale missione in Spagna si svolge prima degli anni Quaranta. Più tardi i legionari saranno inviati in Crimea e quindi in Italia, nella seconda guerra d’indipendenza. Però forse qualche contatto con gli ex commilitoni potrebbe aver consentito a Giovanni di avere le entrature e le aderenze giuste. Come si è detto, non pochi italiani combattevano allora in Spagna. E diversi militavano o avevano militato nei ranghi della Legione: ex ufficiali ed ex soldati dell’esercito napoleonico, criminali comuni, aristocratici, patrioti risorgimentali, idealisti, avventurieri. Nella Legione, prima in Algeria e poi in Spagna, tra gli italiani c’è anche Andrea Ferrari, il futuro generale a capo delle forze volontarie di cui si dirà più avanti. Giovanni, nel periodo in cui si fa “venturiero”, conosce un certo Barbetta, non sappiamo se ex legionario pure lui. Nel complesso, è difficile decifrare i fatti e le dinamiche di questi anni della sua vita. Manca un’indagine storica rigorosa e il rischio è quello di elaborare ipotesi senza fondamento documentale.

Del resto, a ben vedere, non solo gli anni trascorsi in Spagna ma anche quasi tutta l’esistenza di Giovanni, dalla sua uscita dal seminario fino alla sua ricomparsa in Italia nel 1848, ormai trentaduenne, presentano punti interrogativi, dubbi, notizie riportate in modo generico. Anche perché la ricerca delle fonti d’archivio e dei testi a stampa pubblicati su questo personaggio non pare aver interessato molto i cremaschi, almeno fino ad oggi. Si finisce col citare la fonte del Benvenuti, vale a dire poco più di un paio di pagine del Dizionario Biografico Cremasco (pp.156-158), un fascicoletto del Fondo Storico Grioni, citato anche da Mario Perolini nel 1976, riguardo alla via Gervasoni a Crema (p. 60, nota 3) e non molto altro rinvenibile negli archivi locali. Sappiamo invece che esistono anche altre fonti, tra le quali alcune, diciamo così, “anconetane” sui fatti dell’assedio del 1849 e sul ruolo svoltovi da Giovanni, come più avanti si avrà modo di dire. In ogni caso, nel complesso, manca ancora del tutto una ricostruzione biografica munita di date precise, avvenimenti specifici, fonti informative accertate e via dicendo, come in genere nelle normali elaborazioni storiografiche. Anche per questo, il personaggio di Giovanni meriterebbe indagini e studi più mirati e approfonditi.

Qualche informazione più sicura su Giovanni l’abbiamo, come si accennava poco sopra, a partire dal momento della sua ricomparsa in Italia nel 1848. All’inizio della prima guerra di indipendenza, nel 1848, Giovanni arriva a Bologna. Da questo momento in avanti non ci sono dubbi sulle motivazioni patriottiche che animano le sue scelte di natura militare. In realtà, anche in precedenza Giovanni era stato probabilmente mosso dall’amor di patria e dall’avversione verso lo straniero occupante il territorio italiano. Ma, di sicuro, è dal suo arruolamento a Bologna nel Battaglione universitario romano che la sua militanza è decisamente e inequivocabilmente patriottica, risorgimentale e antiaustriaca. È nota la storia di questa unità composta da universitari romani, facente parte del corpo di spedizione pontificio durante la campagna di guerra del 1848. Guidate dal generale piemontese Giovanni Durando e dal suo comandante in seconda Massimo d’Azeglio, coadiuvati dal generale Andrea Ferrari (l’ex ufficiale legionario) per quanto riguarda il coordinamento delle forze volontarie, le formazioni pontificie comprendono quattro reggimenti di fanteria e due di cavalleria, più l’artiglieria da campagna, gli artificieri e il genio. Il Battaglione universitario, al comando del colonnello Angelo Tittoni, è aggregato al corpo di spedizione ed è articolato inizialmente in tre compagnie. Da Roma i pontifici raggiungono Ancona, poi Cesena, quindi Bologna. Qui si aggiungono al Battaglione altre due compagnie di volontari. Tra loro c’è anche Giovanni, che si arruola vedendosi riconosciuto il grado di primo tenente. Dopo aver fatto tappa a Ferrara, si passa il Po a Lagoscuro e si entra in Veneto. Come si sa, l’allocuzione papale del 29 aprile non ferma il contingente, che continua a combattere contro gli austriaci insieme ai piemontesi, nonostante il voltafaccia papale. Anche una parte delle formazioni napoletane, guidate dal generale Guglielmo Pepe, non segue l’altro voltafaccia borbonico e resta a combattere a fianco degli alleati italiani. L’esito sfortunato dei combattimenti svolti da questi alleati non diminuisce il valore della loro fedeltà alla causa italiana. E accresce il disonore dei loro sovrani, traditori di quella stessa causa.

Giovanni partecipa a questa campagna di guerra distinguendosi sul campo nei vari scontri in cui gli italiani cercano di contrastare le preponderanti forze nemiche. “Si batté valorosamente cogli austriaci nelle provincie venete”, dice Benvenuti, aggiungendo che Giovanni ritrova tra gli ufficiali del Battaglione dei volontari pontifici anche Barbetta, “statogli compagno in Ispagna”. Abbiamo anche una relazione del generale Ferrari che cita Giovanni. Nel suo rapporto, Ferrari riferisce che Giovanni, nei combattimenti con gli austriaci, aveva dimostrato “coraggio e ardimento”. Purtroppo, con la battaglia di Montebelluna non si riesce a impedire al generale Laval Nugent e al suo corpo di spedizione di raggiungere Vicenza e poi di ricongiungersi a Verona con l’esercito austriaco, nel Quadrilatero. Tra l’8 e il 9 maggio si svolge la battaglia di Cornuda e anche in questa occasione gli austriaci hanno la meglio. Giovanni viene ferito da un palla di fucile nel braccio destro e la lesione appare abbastanza grave. Dopo la battaglia, gli italiani ripiegano su Treviso, dove Giovanni viene trasportato. Mentre i suoi commilitoni difendono Treviso dagli attacchi austriaci, viene trasferito a Venezia in condizioni piuttosto gravi. Era un’epoca in cui le setticemie e l’assenza di farmaci adeguati facevano degenerare molto spesso certe ferite, con esiti letali. Invece a Venezia, estratta la palla e curata la ferita, Giovanni riesce a guarire e a rimettersi in salute. Nel frattempo, gli italiani tentano la difesa di Vicenza, accerchiata dagli austriaci. Dopo le “cinque giornate di Vicenza”, dal 20 al 24 maggio, il cerchio si stringe e inizia l’assedio vero e proprio della città, dal 10 al 20 giugno. Alla fine, gli austriaci sferrano l’attacco decisivo e Vicenza si arrende. Il Battaglione universitario ripiega su Ferrara e poi su Bologna.

A questo punto, non sappiamo se Giovanni resti a Venezia o si riunisca ai suoi compagni d’armi a Bologna. Sappiamo che l’8 agosto, a Bologna, ciò che resta del Battaglione partecipa all’insurrezione contro gli austriaci, che avevano ripreso possesso della città. Il giorno successivo, 9 agosto, con l’armistizio Salasco cessano le ostilità belliche e ha termine la prima delle due campagne militari della prima guerra di indipendenza. Una parte del residuo Battaglione universitario, guidata dal maggiore Luigi Ceccarini, succeduto nel comando a Tittoni, si sposta a Ferrara e poi a Venezia, per intervenire a difesa di questa città assediata dagli austriaci, combattendo fino alla resa finale di Venezia il 22 agosto 1849. Un’altra parte torna invece a Roma. Dopo la fuga del pontefice a Gaeta nel mese di novembre e la creazione del governo provvisorio, che porta poi alla proclamazione della Repubblica Romana, il Battaglione universitario viene ricostituito. Questa parte del Battaglione tornata a Roma era stata guidata dal capitano Rubicondo Barbetti. Ebbene, sappiamo da Benvenuti che il già citato Barbetta, commilitone di Giovanni in Spagna, era pure lui tornato in Italia, si era arruolato tra i volontari e “capitanava” una compagnia del Battaglione universitario durante le operazioni nel Veneto. L’identificazione di Barbetta con Barbetti assume notevole verisimiglianza. In attesa di maggiori approfondimenti, si può citare un testo che potrebbe avvalorare questa identificazione.

Dalle risultanze di alcuni atti processuali del 1843-1844, riferiti alle realtà di Bologna e Rimini (“Di Società Segreta, Cospirazioni e Congiure contro il Sovrano ed il Governo, omicidj e ferimenti per ispirito di detta Società”), viene indicato come cospiratore e aderente alla “Società Segreta”, che poi è soprattutto la Carboneria, tra “tutti i Carcerati, ed altri Contumaci”, anche Eusebio Barbetti. Il quale, originario di Russi ma domiciliato a Bologna, ha un fratello, appunto Rubicondo Barbetti, il quale è molto probabilmente il capitano che conduce parte del Battaglione da Bologna a Roma. Ebbene, dagli atti processuali risulta che, in quegli stessi anni, anche diversi familiari di Eusebio Barbetti condividevano le sue idee, così come altri suoi amici di Russi. Per di più, si cita pure un “tal Farini di Russi (altro capo ribelle emigrato)”. Si tratta nientedimeno che di Luigi Carlo Farini, tra le altre cose futuro presidente del consiglio dei ministri del Regno d’Italia. Ma, soprattutto, si fa presente la “avversione al legittimo Governo pontificio che l’imputato medesimo e tutti i suoi congiunti hanno sempre avuta, appalesandola chiaramente le diverse lettere di Rubicondo fratello di Eusebio, scritte dalla Spagna ai suoi parenti in Russi”. Naturalmente, di Barbetta o Barbetti in Spagna, in quegli anni, ce ne potevano essere più di uno. Forse si tratta di coincidenze. Però Barbetta e Rubicondo Barbetti potrebbero essere la stessa persona. In tal caso, il Barbetti in Spagna avrebbe potuto essere più un patriota che un avventuriero. Ovviamente, senza ulteriori ricerche è difficile dare nel merito risposte certe e definitive.

Mentre Pio IX è a Gaeta e si stanno organizzando le strutture politiche, istituzionali e militari della Repubblica Romana, che viene poi proclamata il 9 febbraio 1849, Giovanni decide di raggiungere Roma, come molti altri volontari che accorrono da ogni parte d’Italia. Dice Benvenuti che, dopo essere “guarito perfettamente” dalla ferita di guerra, Giovanni “viene creato capitano nell’ottavo reggimento Leggieri, e con esso, in dicembre, ritorna negli Stati Romani. Da quel reggimento scelgonsi, a Bologna, gli uomini migliori co’ quali formare il settimo di linea sotto il comando del colonnello Pianciani. Il Gervasoni è tra gli eletti, e gli viene affidato il comando dell’ottava compagnia”. Dopo la battaglia di Novara e l’abdicazione di Carlo Alberto, solo le due Repubbliche di Venezia e di Roma resistono al ritorno degli austriaci. La Repubblica Romana viene attaccata da nord dall’esercito austriaco, che invade le province emiliane e romagnole. Da sud i borbonici tentano l’invasione ma sono sconfitti a Palestrina. Il 25 aprile era sbarcato a Civitavecchia il corpo di spedizione francese guidato dal generale Nicolas Charles Oudinot, che aveva annunciato di voler liberare Roma “dagli stranieri venuti da tutte le parti d’Italia a opprimere il popolo della Città Eterna”. In pratica, i francesi venivano per togliere Roma agli italiani e per rimettere Pio IX, protetto dall’Austria, sul suo trono temporale.

La Repubblica Romana manda il colonnello Luigi Pianciani a presidiare l’anconetano e quindi a difendere la Gola del Furlo, per bloccare il transito delle colonne del generale Eduard Franz von Liechtenstein, provenienti dalla Toscana, e impedire il loro ricongiungimento con le forze del generale von Wimpfen. L’ottava compagnia guidata da Giovanni, insieme ad altre, viene assegnata alla piazzaforte di Ancona. Lasciamo dunque la città di Roma all’assedio francese e poi al ritorno di Pio IX nel 1850, per rivolgere l’attenzione ad Ancona. Tra gli ufficiali preposti alla difesa della città, Giovanni assume da subito un ruolo di spicco, nonostante sia un capitano rispetto al comandante colonnello Livio Zambeccari, al viterbese (di origini spagnole) tenente colonnello Giulio Especo, al modenese maggiore Giuseppe Fontana e agli altri ufficiali superiori. Governatore della città è Giuseppe Camillo Mattioli, bolognese come Zambeccari. Felice Orsini, romagnolo di Meldola, il futuro attentatore di Napoleone III, è il Commissario straordinario inviato dal Triumvirato repubblicano. Si è fatto cenno in precedenza alle fonti “anconetane”. In esse Giovanni è indicato in modo molto lusinghiero, per il suo coraggio, le sue abilità militari, le sue carismatiche doti di comando. Viene definito come “tra i migliori e più preparati ufficiali del tempo”. È un “capitano coraggioso” e i suoi soldati hanno per lui una devozione totale. L’aggressione austriaca porta nei mesi di aprile e maggio 1849 all’occupazione dei territori marchigiani settentrionali e il presidio repubblicano di Ancona si prepara all’assedio. Il generale Franz von Wimpfen dispone inizialmente di 11.000 uomini, 470 cavalli, 43 cannoni di grosso calibro e una flotta di sette navi comandate dall’ammiraglio danese Hans Birch Dahlerup. Sarà un assedio per terra e per mare. I difensori italiani sono circa 5.000, divisi in cinque battaglioni di fanteria, con mezza batteria da campo, e tre di guardia nazionale, più carabinieri, finanzieri e il corpo sanitario d’emergenza, in cui saranno le donne ad avere un ruolo fondamentale, dimostrando un eroismo non inferiore a quello maschile. Alcune donne sono addirittura ammesse nel Drappello della Morte, un’unità di ottanta giovani comandati da Andrea Fazioli, che daranno prova di un coraggio e di un’abnegazione esemplari.

Tra le fonti “anconetane”, basti qui citare, tra le molte valide, l’opera del generale Gualtiero Saltini del 1925, una sistematica e approfondita ricerca sui fatti accaduti, e il lavoro di Marco Severini del 2016, che presenta anche documenti inediti. Utile l’opuscolo commemorativo del cinquantenario dell’assedio, con i vari discorsi, pubblicato ad Ancona nel 1899. Anche il Bollettino Officiale di Ancona (BOA), consultabile presso l’Archivio di Stato di Ancona, nella parte dei documenti sulla storia risorgimentale, vol. III, 1849-1859, fornisce informazioni su Giovanni, ad esempio alle cc. 345, 346 e 370. Va poi detto che la voce dedicata al nostro “capitano coraggioso” nel Dizionario del Risorgimento Nazionale di Vallardi (1931-1937) è stata curata da Palermo Giangiacomi, patriota, storico e bibliotecario anconetano. I dati militari esposti in questa parte dell’articolo sono tratti soprattutto dal citato testo di Severini e dal libro di Piero Pieri del 1962 sulla storia militare del nostro Risorgimento.

Le fortificazioni di Ancona, esistenti fin dai tempi remoti della “città dorica”, erano state consolidate e completate dai francesi nel periodo napoleonico, con aggiunte difensive durante i pontificati di Pio VII e Gregorio XVI, tra il 1821 e il 1839 (il pontificato di Pio VIII era durato solo un anno e mezzo). Come si è detto, la cinta muraria oggi visibile è frutto delle notevoli opere di ristrutturazione e ampliamento realizzate pochi anni dopo l’unificazione nazionale. Il fronte difensivo a mare era allora costituito da una lunga cortina bastionata, munita di opere costiere e di appostamenti per artiglierie, che iniziava a Porta Pia e terminava al Forte Marano. Il fronte terrestre era formato da bastioni difensivi lungo i quali erano collocate quattro fortezze principali: la Cittadella, detta anche Fortezza, il Forte Cappuccini, il Forte Cardeto e la Lunetta di Santo Stefano. Quando la città viene isolata dal blocco navale via mare e gli austriaci cominciano a prendere posizione sul fronte terrestre, Giovanni è quindi impegnato in un settore strategico fondamentale. La sua compagnia deve infatti contribuire a difendere la fortificazione della Lunetta di Santo Stefano, che è un avamposto a presidio del tratto tra porta Cavour, gli Scaglioni di Santo Stefano, la Lunetta vera e propria e la cinta verso il Campo Trincerato. Questa fortezza è uno dei maggiori epicentri difensivi della città sul fronte di terra.

Le “venticinque giornate di Ancona” iniziano il 25 maggio. Gli austriaci bombardano dal mare e intanto stabiliscono il loro quartier generale a Colle Ameno. Cominciano i duelli di artiglieria. Il primo scontro campale a fuoco è proprio del 25 maggio, tra fanti imperiali e finanzieri difensori. Gli austriaci serrano la città in una morsa, occupando Forte Altavilla, Pietra La Croce e le altre alture, soprattutto a meridione: Pedocchio, Monte Marino (quasi davanti alla Lunetta), Posatora, Montagnola, Monte d’Ago, Monte Acuto, Monte Pelago. Chi oggi attraversa questi dislivelli morfologici e questi quartieri a piedi, in una realtà ormai quasi sempre urbana e fatta di case, strade e infrastrutture civili, stenta parecchio a immaginare quale fosse lo stato dei luoghi in quei giorni. Da questi colli, col passare dei giorni, si intensificano i lanci di razzi, bombe e ordigni esplosivi di ogni genere sugli assediati dentro i bastioni. Il 31 maggio Giovanni viene ferito a un braccio in uno scontro a fuoco. Resta al suo posto e continua a guidare la sua compagnia. Il 1° giugno gli imperiali tentano di rompere le difese italiane con una furiosa battaglia che parte dalle pendici del Monte Cardeto. Gli italiani rispondono con controffensive coraggiose e di una veemenza che sconcerta gli avversari. È una giornata nella quale, tra i vari capi militari italiani, uno in particolare si mette in luce, contrattaccando il nemico, ricacciandolo dalla zona tra il Cardeto e la Lunetta e vanificando così il tentativo austriaco di fare breccia in quel punto della cinta muraria. Quel capo, lo si sarà capito, è Giovanni.

“Nei combattimenti del 1° giugno si distinse in particolare il capitano Gervasoni: venuto a sapere che gli austriaci si erano nascosti tra le case comprese tra la Lunetta e il Cardeto, l’ufficiale lombardo, nonostante fosse stato ferito il giorno precedente, organizzò una sortita con 50 militi e 8 carabinieri”. “Gervasoni ordinò al tamburino Antonio Mari di ‘battere la carica’, sferrò l’attacco conseguendo, nel giro di breve tempo e al grido di ‘Evviva la Repubblica Romana’, lo scopo prefisso”. Così Severini, cit., p. 30. Si veda anche BOA, 1° giugno (6), c. 346. Tutte le fonti concordano sul fatto che questi soldati “assomigliano più a ‘macchine infernali’ che non a uomini veri” (Severini, p. 31). Di sicuro la militanza di Giovanni nella Legione Straniera, poi nelle cruente guerre e guerriglie spagnole, quindi sui campi di battaglia del Veneto, dove gli italiani lottavano in condizioni di estrema difficoltà, aveva forgiato il suo modo di combattere in modo molto duro e gli aveva dato una non comune capacità di ascendente sui suoi sottufficiali e soldati. Sono militari che “in mezzo alle bombe, ai razzi, alle fucilate da cui sono tormentati, rispondono con grido di gioja, e con fuoco sì ben nudrito da farsi credere piuttosto veterani anziché giovani soldati”. Così ancora si legge in BOA, 1° giugno (4), c. 345.

Per motivi di spazio, non è possibile soffermarsi oltre sui numerosi episodi che fanno di questa vicenda della difesa di Ancona una delle pagine più significative della nostra resistenza, in centro Italia, contro i nemici austriaci, borbonici, francesi e papalini con i loro mercenari, in quei mesi del 1849. Ci si limita quindi a quanto segue. Dopo che l’attacco al Cardeto è stato respinto, per alcuni giorni “gli austriaci rinunciano a nuovi attacchi, aspettando l’arrivo del parco d’assedio, che giungeva il 6 insieme con un rinforzo di 5.000 uomini”. Così Pieri, cit. p. 434. I bombardamenti effettuati con questo ampliamento del parco d’assedio, unitamente a quelli attuati dal mare, sono continui, indiscriminati ed efferati, in quanto colpiscono a tappeto la città senza distinzione di obiettivi, edifici distrutti e vittime militari o civili. Il 6 giugno gli austriaci fanno saltare in aria il baluardo Sant’Agostino e poi colpiscono con le artiglierie i quartieri cittadini, con conseguenze devastanti per la popolazione. Le offensive e le controffensive, gli scontri a fuoco e le sortite, gli attacchi e i contrattacchi si susseguono furibondi e spesso efferati. I bombardamenti austriaci colpiscono anche i luoghi di cura dei feriti. L’11 giugno l’ospedale allestito nei locali conventuali di San Francesco alle Scale deve essere sgomberato sotto le bombe. Il vescovo di Ancona, Antonio Maria Cadolini, manda il provicario generale Lorenzo Barili dal generale von Wimpfen, per chiedergli di risparmiare almeno i luoghi di ricovero dei feriti e dei moribondi. Il generale austriaco rifiuta sdegnosamente e i bombardamenti continuano.

Nel pomeriggio del 12 giugno, dice Severini (p. 32), “si registrò una nuova, coraggiosa sortita della colonna Gervasoni verso le postazioni di Monte Marino, dove si scatenava un furioso combattimento”. Nello scontro è coinvolta anche la sesta compagnia del capitano Primo Fabbri. Giovanni interviene anche per sostenere Fabbri e il tenente Sartorelli. Dice Benvenuti che la sortita aveva soprattutto l’obiettivo di “constatare se gli austriaci, come sospettavasi, avessero piantato una batteria di cannoni sul Monte Marino. Con poco più di un centinaio di commilitoni il Gervasoni si accinge all’impresa, marcia alla volta del monte, e giunto alla sottoposta valletta ordina di salire il colle a passo di carica. Gli austriaci, raccoltisi in grosso numero sul ciglio del colle medesimo, vi fanno piovere una grandinata di piombo. Non si atterrisce il Gervasoni, e gridando ‘avanti, avanti’ continua animosamente la salita: era lì per toccare la cima, quando stramazzò a terra percosso da una palla nella coscia sinistra”.

Giovanni, atterrato, continua a incitare i suoi. Il combattimento dura fino a quando gli italiani prendono la posizione di Monte Marino. Poi rientrano nelle loro strutture difensive. Ma la ferita di Giovanni è molto grave. Viene trasportato al suo alloggio. Mentre l’assedio continua e la popolazione è sempre più stremata, la ferita di Giovanni peggiora e lui non può riprendere la posizione di comando alla Lunetta. Buona parte della città è gravemente danneggiata dai bombardamenti, che dal 16 giugno vengono effettuati, per esplicito ordine del generale von Wimpfen, “senza sosta” e con “tutte le bocche da fuoco disponibili”. Gli austriaci scaricano su Ancona una quantità così enorme di esplosivo, in questi giorni, da trasformare la città, a tutte le ore, in una “bolgia infernale”, come dice Mario Natalucci nel terzo volume della sua storia di Ancona del 1960 (p. 154). Non pochi storici stigmatizzano questo comportamento di von Wimpfen nei confronti dei civili, contrario alle convenzioni di guerra già esistenti al tempo. Alla fine, dopo quasi un mese di assedio, Ancona si arrende. Viene firmata la capitolazione e nel pomeriggio del 20 giugno gli austriaci iniziano a occupare la città, rialzando gli stemmi pontifici. La città di Roma resisterà ai francesi solo per un’altra dozzina di giorni.

Nei giorni successivi alla resa, Giovanni non è nelle condizioni di lasciare Ancona. Viene trasferito nell’ospedale cittadino. La sua gamba è ormai in necrosi e va in cancrena. Dice Benvenuti che “il Gervasoni, per effetto della ferita, morì nel giorno 8 luglio, cogli olii santi, assistito dal sacerdote D. Raffaele Martelli, già cappellano degli studenti romani, e fu sepolto nella chiesa parrocchiale di S. Giacomo”. Martelli era anche docente al liceo di Ancona e canonico del Duomo. Era un uomo di grande cultura e alta levatura intellettuale. Era stato in prima linea con Giovanni, nella campagna militare in Veneto, quando era cappellano di guerra. Era insomma un prete speciale. E forse l’unico prete in grado di convincere Giovanni a farsi somministrare, in articulo mortis, gli “olii santi”. Dopo il ritorno di Pio IX, rifiuta di assoggettarsi al suo pontificato. Emigra nell’Australia occidentale, dove presta servizio come cappellano nelle prigioni e come parroco in sperdute comunità rurali. Su di lui si veda il testo di John Kinder del 2013 (“Raffaele Martelli, from Ancona to Western Australia, two halves of one life”).

Dopo l’unificazione nazionale la figura di Giovanni Gervasoni viene più volte ricordata e commemorata ad Ancona. Una via gli è stata intitolata nella zona di Monte Marino. Su questo rilievo è stato eretto nel 1886 un monumento in suo onore. Purtroppo il monumento, in forma di obelisco, è in stato di forte degrado e quasi pericolante. Per di più la zona è anche molto maltenuta e pure di difficile accesso, essendo ormai rinchiusa tra diversi condomini. Negli anni scorsi sono stati sollecitati, da più parti, anche con articoli sulla stampa, degli interventi di recupero e di risistemazione del monumento e dell’area circostante.

Anche a Crema una via è stata intitolata a Giovanni Gervasoni, nell’anno 1931. Inoltre, una lapide posta sotto i portici del palazzo pretorio lo ricorda alla cittadinanza cremasca, citando il suo nome insieme a quello degli altri caduti nelle guerre per l’indipendenza nazionale. Le raccolte del museo cittadino, tra le opere mandate alcuni anni fa ai depositi, quando è stata smantellata la sezione risorgimentale, comprendono un dipinto a olio su tela di Angelo Bacchetta, realizzato quando era solo diciottenne, che raffigura Giovanni Gervasoni nel momento in cui viene ferito durante la carica al Monte Marino (nell’immagine qui pubblicata). Diverso tempo addietro, si trovava appeso nella sala del consiglio del nostro palazzo municipale. La storiografia cremasca ha dimenticato Giovanni Gervasoni e rimosso la sua figura dalla memoria collettiva, se non per qualche sporadico e frettoloso copia-incolla giornalistico ed editoriale dal testo di Benvenuti.

Pietro Martini


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