20 luglio 2024

Il Palazzo Comunale di Crema e la posa della sua prima pietra 500 anni fa

Pochi giorni fa, il 9 luglio, un importante documento d’archivio ha compiuto a Crema cinquecento anni. Mi rendo conto che parlare di un anniversario riferito a una delibera contenuta nei nostri Registri Provvisioni del 1524 possa sembrare una cosa da topo d’archivio, per usare un’espressione piuttosto antipatica verso gli studiosi e i ricercatori storici. Tuttavia, mi permetto ugualmente di iniziare questo articolo dicendo ai lettori di Cremona Sera che il 9 luglio 1524 il Consiglio Generale di Crema ha verbalizzato (Registri Provvisioni XV, 1518-1526) la decisione di riedificare il nostro Palazzo Comunale, demolendo l’edificio preesistente. Ecco in che cosa consiste tale ricorrenza. Qui racconterò come abbia avuto inizio la ricostruzione di questo Palazzo Comunale, esponendo quale fosse la situazione in cui si trovava allora la città e dando qualche notizia sulla posa della prima pietra. La storia di questo edificio, gli utilizzi che ha avuto nel tempo e le sue vicende nei secoli successivi, comprese quelle dei suoi vari (e a volte controversi) restauri, potrebbero forse essere oggetto di un altro scritto.

Crema non ha un’origine etrusca o romana e quindi non può celebrare anniversari bimillenari o giù di lì. La tesi cosiddetta romanistica, ripresa nel secolo scorso da alcuni autori, non si è rivelata, almeno sino a oggi, molto credibile. In ogni caso, tra le poche evidenze architettoniche rimasteci in elevato e precedenti al governo della Serenissima, spiccano fondamentalmente il Duomo e la Torre Pretoria, nella piazza maggiore. È con l’arrivo delle insegne di San Marco che inizia l’opera di rinnovamento dell’edificato urbano, sia nella committenza pubblica che in quella privata. Il centro storico di Crema è ancora oggi in parte valorizzato dalle opere architettoniche rinascimentali, poi barocche e neoclassiche, pubbliche e private, del periodo veneto. L’Ottocento è riuscito a non pregiudicare troppo questi assetti urbanistici e architettonici, con danni limitati all’esistente e con l’aggiunta di una sua specifica monumentalità di pregio. Il Novecento è stato in proposito un film dell’orrore, anche se lo splatter urbanistico ha colpito soprattutto la città esterna alla cinta federiciana. All’interno di questa cerchia il kitsch architettonico è stato limitato. È in tale contesto che la ricorrenza riguardante il nostro Palazzo Comunale ha una qualche rilevanza e merita una certa considerazione. So che tra gli addetti ai lavori esiste una letteratura molto affermata e incentrata sulle teorie architettoniche per le quali è cosa buona e giusta che ogni epoca lasci la sua impronta visibile sul costruito e concorra alla progressiva stratificazione dello stile e del gusto. Non avendo dottorati e cattedre in architettura, posso solo dire, da comune cittadino, che queste teorie, applicate a molti edifici cremaschi, civili o religiosi, del secolo scorso e di questo primo quarto, mi ricordano il detto per cui “ogni scarrafone è bell’ a’ mamma soja”. Ciò non toglie che dal secondo dopoguerra Crema abbia avuto ottimi architetti e ingegneri. Però non è bastata la loro valida opera per evitare il risultato finale, che è sotto gli occhi di tutti, vista soprattutto l’ormai quasi secolare incapacità dei poteri pubblici nel pianificare, gestire e controllare l’edificato.

Va precisato che di solito, in materia di opere architettoniche, gli anniversari si celebrano con riguardo alla data del compimento della costruzione. Oppure, qualora questa data non risulti con esattezza, come nel caso del nostro Palazzo Comunale, se proprio si vuole celebrare un certo anniversario ci si può riferire alla data di posa della prima pietra. Di conseguenza, mi si potrebbe obiettare che celebrare oggi mere delibere autorizzative invece che opere poi realizzate (alla loro fine o magari al loro inizio) sia piuttosto opinabile. Anche perché, come si usa dire, tra il dire (o lo scrivere) e il fare c’è di mezzo il mare. Tutto sommato, potrei anche essere d’accordo. Siccome però siamo in democrazia e, per di più, ottant’anni fa un autore di vaglia ha indicato, nel titolo di un suo paragrafo sul Palazzo Comunale, non “1525 e segg.”, come risulta quasi dovunque (anche sulla targa esplicativa pubblica posta davanti all’edificio), ma “1524 e segg.”, richiamandosi presumibilmente a detta delibera, ecco che anch’io “mi porto avanti” sull’argomento, proponendovi ora questo articolo, in attesa di unirmi alle celebrazioni del cinquecentesimo avversario del nostro Palazzo Comunale durante l’anno prossimo, posto che i lavori di riedificazione sono iniziati con la posa della prima pietra il 20 aprile 1525.

A Crema, lo spazio della piazza centrale corrisponde sostanzialmente alla superficie del nucleo abitativo originario e all’area dello stanziamento primitivo da cui è successivamente nata la città. Una storiografia attendibile e consolidata, sia pure con qualche lieve discrepanza al proprio interno riguardo a taluni aspetti fisici e antropici minori, ce lo conferma. Il quadrilatero originario fortificato che dovrebbe corrispondere alla piazza si trova all’interno della quota di 78 m. delle isoipse. Questa piazza maggiore, che oggi è definita ufficialmente piazza Duomo, è stata fino a non molti anni fa chiamata dai cittadini cremaschi semplicemente “la piazza”. Tra le 27 Vicinie in cui Crema era stata suddivisa a partire quanto meno dalla fine del XII secolo, intitolate per area di influenza e per doveri di difesa alle maggiori famiglie cremasche del tempo, qui c’era infatti, con qualche pertinenza urbana circostante, la comune e principale Vicinia della Piazza. Nei secoli successivi questa piazza viene denominata, anche nella cartografia, in diversi modi: piazza grande, piazza d’arme, piazza Duomo, piazza maggiore. Poco dopo l’Unità viene suddivisa in tre parti, con diverse denominazioni, poi in due. Dal 1930 è, per delibera podestarile, piazza Duomo. Resta il fatto che ancor oggi si discute sulla datazione del primo insediamento stabile in questo spazio quadrangolare. Non si entra tuttavia nel merito, in tale contesto, della risalente e controversa questione dell’origine storica del primo presidio fortificato sull’Insula Fulcheria, con o senza l’isolotto, la chiesetta e via dicendo. I revisionismi e i controrevisionismi storici su questo tema, tra Cremete e i Gisalbertini, tra il Terni e il Menant, così come le discussioni idrostoriografiche sul lago Gerundo e i suoi tarantasici annessi e connessi, esulano da questa sede. Basti dire che, in un certo momento storico, qui è nata la nostra “Arx” fondativa.

Diciamo inoltre che l’iniziale quadrato fortificato, il “castrum” originario, divenuto nel tempo la piazza maggiore, dalla metà del XV secolo si stava avviando a una fase di notevole cambiamento. Il centro abitato si era espanso da tempo, inglobando i cosiddetti Borghi ed estendendosi fino alla quota 74. Questa piazza centrale, pur mantenendo ancora alcune residue caratteristiche di tutela difensiva, era diventata soprattutto un luogo deputato alle funzioni delle rappresentanze istituzionali civili e alle liturgie e ai riti più rilevanti della religione. La riedificazione dell’edificio del Duomo, nella sua parte principale, viene in genere riferita al periodo tra il 1284 e il 1341. Nella piazza si trovavano anche gli spazi per le attività commerciali, di fondaco e deposito delle merci, di esercizio mercantile e di bottega, almeno sino al trasferimento di una certa parte di tali attività nelle due vicine piazze poste a meridione. C’era uno spazio, vicino al Duomo, per le inumazioni cimiteriali, come anche nei pressi delle altre chiese cremasche. C’era pure l’Armeria, trasportata poi, a metà del XVII secolo, nel castello di porta Serio. E c’era il Ghetto, nella zona dove oggi c’è la via Manzoni, con uno stabile insediamento israelita, il cui campo cimiteriale era probabilmente nell’area posta sopra il lato nord dell’attuale piazza Marconi, un’area poi adibita a “ortaglie” fino ad anni non lontani dai nostri. Dopo la dedizione di Crema e del suo territorio alla Serenissima, avvenuta nel 1449, anche per le strutture urbane della piazza centrale cittadina ha inizio un periodo di notevole rinnovamento architettonico.

Il plurisecolare dominio di San Marco dura fino al 1797. A Crema viene interrotto solo da una breve parentesi di assoggettamento alla Francia tra il 1509 e il 1512. Sono numerose le innovazioni introdotte nel tessuto urbano cremasco dal nuovo governo veneto. La cerchia delle vecchie mura, eretta ai tempi della ricostruzione federiciana, che già aveva comportato una certa estensione perimetrale, viene ulteriormente ampliata con la nuova cinta delle “mura venete”, un’opera che dura dal 1488 al 1509. Nella piazza centrale si trovano le realtà architettoniche più significative. Gli spazi vengono progressivamente riconfigurati. Nel 1474 viene operata una prima addizione, una specie di loggetta, sopra l’arco dell’accesso occidentale. Seguono quindi altre modifiche e questa porta munita di volta diventa in breve l’accesso alla piazza più monumentalizzato. La costruzione che ne risulta sarà successivamente definita, nel linguaggio popolare corrente, come “Torrazzo”. Tra il 1454 e il 1483 alcune delibere del Consiglio Generale autorizzano i proprietari delle case poste a mezzodì e a mattina della piazza maggiore ad allargarsi sulla stessa, costruendo dei locali poggianti su portici sostenuti da colonne. È l’origine dei portici che ancora oggi esistono, sostanzialmente immutati, sul lato meridionale della piazza e che, sul lato orientale, sono stati riconfigurati dopo l’abolizione del Ghetto, l’apertura della via Manzoni e le ristrutturazioni edilizie avvenute su quel fronte. Si attua poi la demolizione, probabilmente tra il 1497 e il 1499, di alcuni precedenti edifici posti a settentrione del Duomo, che avevano funzioni di cancelleria, ufficio dei notai e altro ancora. Di questa demolizione, così come delle costruzioni demolite, sappiamo però ben poco. All’incirca sull’area di risulta viene edificato, tra il 1548 e il 1555, il palazzo della Notaria, divenuto poi il palazzo Vescovile, per concessione dell’edificio all’autorità religiosa da parte dei poteri civili, dopo la costituzione della nostra Diocesi.

Anche in questa parte della Lombardia entrata a far parte della Terraferma veneta, sono gli anni in cui si realizza il cambiamento verso la nuova concezione architettonica rinascimentale. A partire dall’ultimo quarto del XV secolo, alla piazza centrale di Crema viene conferita nuova dignità e si realizza, progressivamente, una sua complessiva ristrutturazione edilizia, fermi restando nelle loro strutture fondamentali il Duomo e la Torre Pretoria del XIII secolo, che rimangono nel tempo gli edifici storicamente più risalenti. In realtà, l’anno generalmente indicato per la Torre Pretoria, il 1286, si riferisce quasi certamente alla fine di una sua importante ristrutturazione, attuata sulla base di una struttura edilizia precedente di cui tuttavia, pure in questo caso, sappiamo molto poco. Anche gli altri accessi alla piazza maggiore vengono modificati. Però non seguono la monumentalizzazione dell’accesso occidentale. Vengono anzi semplificati e non sono più coperti dai cosiddetti “volti”. L’edificio del Battistero esterno al Duomo era già stato dismesso in precedenza, si ritiene nel primo quarto del Quattrocento, e adibito ad altre funzioni di natura civile, risultando probabilmente ricompreso nelle successive e già citate demolizioni avvenute tra il 1497 e il 1499 nell’area posta a settentrione del Duomo. Anche in forza di questi interventi, la piazza accresce la sua funzione di centro storico della nuova realtà urbana, divenuta capoluogo di una provincia veneta piccola ma fondamentale per la sua posizione strategica. Una città avviata ad essere riconosciuta come sede vescovile della nuova Diocesi di Crema, che viene costituita nel 1580. Un’opera fondamentale, in questo rinnovamento architettonico della piazza maggiore di Crema, è la ricostruzione del Palazzo Comunale, avvenuta nel secondo quarto del Cinquecento. L’importanza di tale riedificazione va collocata in questo scenario generale.

Su questo edificio municipale occorre però fare alcune precisazioni terminologiche. La locuzione “Palazzo Comunale” viene in genere riferita alla parte edificata che va, a nord, dall’innesto del risvolto edilizio verso la Torre Pretoria fino all’arco del Torrazzo lungo il lato ovest della piazza, proseguendo poi ancora a sud, fino a costeggiare il primo tratto dell’attuale via Marazzi. In questo senso, si distingue una parte nord del Palazzo, fino al Torrazzo, e una parte sud, meno estesa, dal Torrazzo in poi, fino all’altezza del palazzo Marazzi, dove la parte porticata attuale lascia il posto a un corpo di fabbrica che si inserisce nella via Marazzi per una ventina di passi. La distinzione può avere significato anche perché sulle date in cui queste tre parti (parte nord, Torrazzo, parte sud) sono state costruite o ricostruite o ristrutturate nel tempo, così come sugli autori di tali opere, non sempre si ha una piena convergenza di opinioni tra gli studiosi e i ricercatori che si sono occupati dell’argomento. Ad esempio, mentre per la parte nord del Palazzo Comunale, come del resto probabilmente anche per la parte sud, l’attribuzione temporale è dal 1525 in poi (sembrerebbe all’incirca fin verso la metà del secolo), per il Torrazzo i periodi di datazione sono più articolati e devono quindi essere genericamente indicati, non volendo considerare le poche addizioni quattrocentesche e altri precedenti interventi minori di tipo difensivo, tra il XVI e il XVII secolo. A volte il Torrazzo è stato definito come Torre Civica, altre volte questa denominazione è stata invece utilizzata per la Torre Pretoria.

In pochi casi, con l’espressione “Palazzo Comunale” si è voluto intendere l’intero edificato sulle due ali a nord e a ovest della piazza, cioè la “elle” completa tra l’attuale via Forte a nord-est e la citata via Marazzi a sud-ovest, ricomprendendo quindi in tale definizione anche la Torre Pretoria e il Palazzo Pretorio sul lato nord, con lo scalone, gli attuali voltoni e il famedio. Nei vari testi esistenti, questa scelta terminologica è però molto minoritaria. In altri casi, si definisce come “Palazzo di Città” l’intera “elle” sui due lati nord e ovest della piazza, distinguendo al suo interno il Palazzo Comunale, con incorporato il Torrazzo, sul lato a sera, e il Palazzo Pretorio, con la Torre Pretoria, sul lato a monte. Altre volte ancora il Palazzo Comunale è stato definito come “Palazzo della Magnifica Comunità di Crema”, un appellativo molto poco usato. Qui di seguito, per Palazzo Comunale si intenderà la parte edificata verso l’innesto con la torre Pretoria fino alla via Marazzi, eccezione fatta per il Torrazzo.

Non abbiamo riscontri precisi, nelle nostre fonti, di un palazzo pubblico, adibito a ruoli di governo locale, nella piazza centrale prima dell’assedio del 1159-1160. È però opinione comune, nella nostra storiografia, che l’esistenza di un edificio con funzioni di reggenza dovesse esserci e che probabilmente la sua giacitura si trovasse su uno dei due lati nord e ovest della piazza, anche se non si può escludere una struttura di comando locale nella parte alta del lato est. Crema era già da tempo a capo di una realtà comunale e di una entità territoriale che implicavano necessariamente una simile struttura pubblica di governo. In ogni caso, su questo primo palazzo abbondano solo, per quanto ragionevoli, le congetture. Il tema di una maggiore o minore distruzione del costruito urbano cremasco in esito all’assedio, ad opera di imperiali, cremonesi e lodigiani, alimenta da tempo non poche discussioni. Basti qui dire che, qualunque fosse l’entità di tale distruzione, di questo precedente palazzo municipale non rimase granché. In ogni caso, si dovette per forza por mano a una nuova costruzione.

Al primo palazzo ne seguì quindi un secondo, riedificato insieme al resto della città che si era arresa e che era stata saccheggiata, incendiata e (tanto o poco) distrutta. Pure in questo caso però non abbiamo notizie precise. Alcuni autori propendono per l’ipotesi non di un vero e proprio palazzo ma di altre strutture minori. Resta però prevalente l’ipotesi di un palazzo, magari di un “palazzetto”, che probabilmente si trovava sui sedimi del precedente. Qualche cenno sulla conformazione di questo edificio l’abbiamo dal Terni. Ad esempio, questo secondo palazzo era dotato di ampi portici verso il Duomo, visto che, secondo il Terni, nel 1504 Socino Benzoni vi aveva schierato 42 cavalli: “Et scorsi alquanti mesi dopo che il Gradenico (il podestà Giovanpaolo Gradenigo, n.d.a.) hebbe preso il regimento di Crema, fu riferito a Socino che il Gradenico parlando delli cavalli di Socino, aveva detto chel haveva una stalla de vache. Socino una matina essendo il Potestà in Domo a messa, fa menare li soij cavalli sulla piazza che erano 42, distesi tutti dreto al portico che guarda verso la facia del Domo. Ussendo il Potestà fuor dilla Gesa, dimanda che cavalli sono questi. Socino gli rispose: le sono le vache di Socino Benzone, et li fecero molte parole”. Parole che il Terni non riporta ma che possiamo ben immaginare. Nel 1509 Crema si arrende a Luigi XII, dopo la battaglia di Agnadello, e un ruolo decisivo in questa resa a favore della Francia lo svolge proprio Socino Benzoni, al quale Venezia farà poi pagar caro questo suo comportamento, con la sua cattura nel 1510 la successiva impiccagione.

Dopo questi cenni alla situazione precedente all’edificazione del nuovo Palazzo Comunale, torniamo agli anni della sua fondazione. Si è detto del clima di rinnovamento architettonico della piazza maggiore, secondo i nuovi canoni rinascimentali, durante il governo della Serenissima, nell’ultimo quarto del XV secolo e nel corso del Cinquecento. Più o meno negli stessi anni in cui si costruisce il Palazzo della Notaria, abbiamo infatti anche la riedificazione del Palazzo Pretorio, ascritta in genere agli anni tra il 1553 e il 1555, dopo la demolizione in loco delle cosiddette “case vecchie”. Si comprende quindi come in un periodo temporale tutto sommato abbastanza contenuto si giunga a una ridefinizione fondamentale della qualità architettonica della piazza. È da notare come, leggendo i nostri storici, ciò avvenga in decenni nei quali abbondano le guerre, i saccheggi, le carestie, le pestilenze. Eppure, nonostante tutto ciò, la città si rafforza, si abbellisce, si valorizza. La costruzione del nuovo Palazzo Comunale, nel secondo quarto del Cinquecento, rappresenta un risultato fondamentale ed esemplare di questa illuminata operazione di innovazione urbanistica. La situazione di partenza è quella di uno stato di deterioramento e decadimento degli immobili sino ad allora utilizzati, se non addirittura di un loro vero e proprio degrado e fatiscenza (si è ipotizzato pure un incendio). Fatto sta che, con la delibera del 9 luglio 1524 del Consiglio Generale, citata all’inizio di questo articolo, si decide di demolire il precedente palazzo, non più confacente ai suoi scopi, e di costruirne uno nuovo. Nella stessa adunanza viene eletta a tali fini un’apposita deputazione, munita di poteri molto ampi, che inizialmente è composta da Pietro Terni, Stefano Barbetta, Carlo Zurla e Gioacchino De Marchi.

È probabile che, prima di questa delibera, ci sia stato un periodo di tempo, per lo meno a partire dal 1523, nel quale preparare un primo progetto esecutivo ed elaborare una previsione economica di spesa (oggi diremmo un budget). Ma su questa fase preparatoria, in realtà, non abbiamo documentazione nelle nostre fonti d’archivio. Esistono invece vari documenti successivi alla delibera del 1524, in parte precedenti alla cerimonia di posa della prima pietra, di cui si dirà poco avanti, riferiti all’effettiva acquisizione delle risorse economiche da approntare per l’edificazione del nuovo palazzo, per lo meno di quelle necessarie per un buon avvio dei lavori. Abbiamo ad esempio due altre deliberazioni consiliari del 15 febbraio e del 9 aprile 1525 e una ducale del doge Andrea Gritti del 5 novembre 1524, in risposta a una supplica, dove si assicura il nostro “carissimo popolo” e la nostra “carissima Terra” che “saranno mandati i bagattini”, cioè i quattrini da utilizzare per sostenere questo progetto.

Un aspetto interessante, piuttosto controverso nella storiografia cremasca, è quello del nome del progettista, dell’architetto posto a capo dell’impresa, cioè del soggetto incaricato di tradurre nel risultato atteso le istanze architettoniche rinascimentali del tempo, istanze affermatesi anche in molte altre città italiane e propugnate da forti personalità di artisti e architetti come Leon Battista Alberti, il Filarete, il Bramante, Leonardo da Vinci e altri ancora, i quali in precedenza avevano operato sia nella Lombardia viscontea che in quella di Terraferma veneta. Tuttavia, se non abbiamo certezza del suo nome, abbiamo avuto però, anche nel corso del Novecento, delle ipotesi sulla persona di questo architetto. Si tratta di una questione ancora aperta. È abbastanza strano che il nome di questo progettista non sia risultato in modo esplicito in nessuna delle nostre fonti, viste le altre notizie a nostra disposizione su questa importante riedificazione. Di sicuro, arrivare a dare un nome certo e documentato a questo personaggio sarebbe, soprattutto per noi cremaschi, una trouvaille storica di notevole importanza.

Le ipotesi suaccennate si riferiscono innanzitutto allo stesso Pietro Terni. Da più parti si è sostenuto essere lui l’architetto del Palazzo Comunale. Questa opzione, ignorata dal Racchetti e dal Benvenuti, poi non considerata dal Belletta, viene affacciata dal Cambiè sulla scorta di indicazioni documentarie del Salomoni. È genericamente confermata da Guido Verga e ritenuta valida dalla Taylor Terni. Viene argomentata e rafforzata da Corrado Verga. Don Lucchi invece è “perplesso”, dice Perolini, ma “sceglie Pietro Terni solo per informazione avuta dalla defunta contessa Ginevra Terni”. Non è proprio un’affermazione da gentiluomo. Lo stesso Perolini, che inizialmente la pensava allo stesso modo (almeno secondo Corrado Verga, per il quale l’ipotesi che si tratti di Pietro Terni viene “con l’apporto di nuove testimonianze storiche, rafforzata dal Perolini”), sembra invece successivamente cambiare idea. Non è possibile, in questa sede, dar conto di tutte le diverse prese di posizione e delle deduzioni e controdeduzioni prodotte a favore o a sfavore di questa ipotesi. Si può comunque dire che la figura di Pietro Terni sia stata quella più accreditata in proposito, di recente anche da Campanella, pur in assenza, come si è detto, di elementi tali da farle assumere valore di comprovata certezza.

Un’altra possibile attribuzione è stata ventilata a favore di Giovanni Antonio De Marchi, succeduto al padre Giovanni Francesco nell’incarico di “ingegnere della città”. Nella famiglia De Marchi, questo genere di incarichi era consueto. Si è detto come un De Marchi fosse membro della deputazione alla fabbrica. Esiste però un problema di datazione. Perolini fa infatti cenno a tale ipotesi riguardante il De Marchi, dovendo poi però ammettere che lo stesso, nell’anno 1524, doveva essere presumibilmente sull’ottantina (anche se non conosciamo le sue date precise di nascita e di morte). Lo stesso autore sembra successivamente optare per un’attribuzione riferita a un architetto estraneo all’ambiente cremasco, scelto altrove dalla deputazione oppure dai Provveditori o da altre autorità istituzionali. Dopo aver censurato, senza però nominarli esplicitamente, quelli che “seppur con didascalie, si abbandonarono in modo più disinvolto ad attribuzioni gratuite” (si riferisce alla didascalia a p. 52 di “Crema Monumentale e Artistica” della Taylor Terni), Perolini suffraga questa ipotesi di un architetto forestiero dicendo: “Comunque il silenzio del Fino, pur strenuo campanilista e smodato incensatore del patriziato, già di per sé è un fatto che sconsiglia di ricercare l’autore entro le mura”. Ebbene, come sappiamo anche a Crema, col passar dei secoli, al potere dell’aristocrazia locale è succeduto il potere dei partiti politici. Sarebbe opportuno rammentare, in tema di incensature e sponsorizzazioni dei poteri locali, il passo evangelico per il quale chi è senza peccato scagli la prima pietra. Sulle altre ipotesi opinate nel tempo, più o meno fondatamente, riguardo al nome dell’architetto del Palazzo Comunale, si ritiene in questa sede di soprassedere. Basti qui citare l’idea, affacciata da qualcuno, di una “mano leonardesca” nel progetto, ovviamente riferita alla “scuola” e non alla persona di Leonardo da Vinci, morto a un migliaio di chilometri da Crema, ad Amboise, sei anni prima della posa della prima pietra.

Chiunque fosse l’architetto a capo del progetto, sappiamo che la deputazione incaricata dell’opera subì delle variazioni nella sua composizione. Nel 1533, dei quattro membri originari, solo Pietro Terni risultava ancora in carica. La fabbrica del palazzo continua anche negli anni successivi e fino al 1540 troviamo periodicamente, nella documentazione dei nostri Registri Provvisioni, le informazioni sulle elezioni dei componenti della fabbriceria e su altri aspetti della riedificazione. Non sappiamo di preciso in quale data l’opera sia stata definitivamente compiuta. La data del 1540, che a volte compare in alcuni testi, è quindi, più che altro, basata su questa successiva assenza di riscontri d’archivio e va dunque intesa come meramente convenzionale. I lavori potrebbero infatti essersi protratti fino alla metà del Cinquecento, se non addirittura oltre, anche se pare ragionevole ipotizzare una chiusura del cantiere non oltre la metà del secolo. Opportunamente, la datazione apposta oggi sulla targa pubblica collocata davanti al Palazzo Comunale riporta, in modo prudentemente generico, l’indicazione temporale “1525 e segg.”, laddove l’anno 1525 è quello, come si è detto, della posa della prima pietra.

Il Benvenuti, toccando l’argomento della ricostruzione del Palazzo Comunale, ci fornisce un’informazione su un fatto già indicato dal Fino: “Nell’anno 1547, erigendosi in Crema il nuovo palazzo del Comune, si scoperse una sepoltura, sulla quale Fino ci attesta ch’era scolpito l’anno 315”. Per il Benvenuti questo avrebbe dovuto “ingenerare almeno il dubbio che un’aggregazione d’uomini popolasse l’isola Mosa molto prima dell’anno 315”. Il Fino dice “In s’ul colmo del luogo era una chiesoletta, molti anni avanti fabricata, come vedesi per una sepoltura ritrovatavi nel 1547, dandosi principio al nuovo palagio, nella quale era scolpito l’anno 315”. Prima ancora c’è il Terni, che dice: “Nel summo dilla altezza dil predetto luoco, eravi una Gesa per molt’anni inanci fabricata, che come si vede per uno sepolchro qui retrovato l’anno 1547 fabricandosi in que luoco, sopra del quale sepolchro scolpito era l’anno 315, che dimostra quanto anticha fussi quella Gesa”. Da notare come il Fino dica che nel 1547 si dava “principio al nuovo palagio” mentre il Terni dice che il palazzo stava ancora “fabricandosi in que luoco”, concetto ripreso dal Benvenuti con il suo “erigendosi in Crema il nuovo palazzo”.

Il risultato finale di questa riedificazione del Palazzo Comunale è molto ragguardevole e significativo dei valori architettonici rinascimentali di quell’epoca. Richiamando Ceserani e Ermentini, la facciata presenta tra gli altri anche il pregio, in ragione di un contesto territoriale così specifico come il nostro, di una felice sintesi fra la tradizione architettonica lombarda, ad esempio attraverso l’ampio uso del cotto, e il linguaggio della tradizione artistica veneziana, con le trifore, gli archi e gli altri suoi peculiari elementi architettonici. Originali e interessanti sono le recenti considerazioni di Moruzzi sui rapporti, i parametri e le proporzioni riguardanti questa facciata e il fronte antistante del Duomo, oltre che i suoi altri rilievi sugli stilemi estetici. La facciata ha una massa filante abbastanza imponente, che viene però alleggerita da un bilanciamento di superfici piene e vuote, che conferiscono all’insieme una gradevole armonia. Le eleganti logge triforate e trabeate in sommità danno una leggerezza e una spiccata eleganza al prospetto superiore, mentre la sottostante parte porticata offre la misura di una equilibrata e ammirevole ariosità. Va detto che la facciata, in buona sostanza, è tutto ciò che ci resta di questo nostro cinquecentesco Palazzo Comunale, di questo edifico rinascimentale sottoposto tra il 1958 e il 1962 a un intervento di ricostruzione del suo intero retrostante corpo di fabbrica. Questo completo rinnovamento architettonico ha conservato solo il fronte verso la piazza e ha comportato l’abbattimento e il rifacimento di tutte le altre strutture edilizie, con risultati piuttosto controversi e ancor oggi oggetto di discussioni. Questa ricostruzione ha riguardato la cosiddetta parte nord dell’edificio. La parte a sud del Torrazzo è stata invece ristrutturata tra il 1964 e il 1967. Altri interventi di restauro sono avvenuti poi nel tempo, per fortuna quasi sempre di tipo intelligentemente conservativo.

Veniamo ora alla cerimonia della posa della prima pietra, quando nel 1525 hanno inizio i lavori per edificare il nuovo palazzo. Il rito solenne si svolge il giorno 20 aprile di quell’anno. Il notaio della comunità Giuliano Bravio (o Bravo, in diverse fonti d’archivio) redige un resoconto dell’avvenimento. Presso l’Archivio Storico Comunale di Lodi si trovano sia l’atto pubblico vero e proprio, in lingua latina, sia il precedente documento in lingua volgare, scritto dal Bravio durante la cerimonia o subito dopo, un testo che poteva forse aver avuto la funzione, per così dire, di “appunti” del momento, da utilizzare per la redazione del successivo “instrumentum” ufficiale in latino. Entrambi i documenti si dovrebbero trovare ancora, per storica combinazione, nel fondo notarile Lodi-Crema (Notaio Giuliano Bravio, Instrumenti dal 5 gennaio 1524 al 4 marzo 1528). Altre notizie su questo evento ci sono minutamente riferite dal Terni, che tra le varie informazioni racconta come venisse processionalmente portata “una pietra di marmore quadrata benedetta cum littere sculpite di tale principio, sopra una barella coperta di brochato, et gionta al loco di fondamento, fu da una Giustitia che sotto una molto ornata umbrella portata dietro al sasso, detti li sequenti versi (seguono le due dozzine di versi in latino con funzione dedicatoria, n.d.a.)”. “Fato per la Giustitia silenzio, per Giuliano Bravo notaro nostro publicato fu uno instrumento dila fundatione dil palazzo sopra di uno pulpito cum solennitade aparato, a perpetua memoria di tale principio, quale fornito, la Giustitia voltandosi verso il Podestà disse (seguono i quattordici e poi gli otto versi in latino con funzione encomiastica verso il Podestà, che era Giovanni Moro, n.d.a.)”. “Fu il sasso da quatro Preti giù nel luoco dele fondamenta portato, et per il Potestà metuto per principio dela opera”. Viene celebrata una messa solenne in Duomo e si svolge una grande festa popolare, con campane, tube e timpani, alla quale partecipano le autorità civili e religiose della città. Secondo Ceserani e Ermentini, per “Giustitia” il Terni indica un soggetto addobbato a modo di Giustizia, secondo le personificazioni in uso all’epoca (si pensi alla figura dipinta nel Palazzo della Ragione a Siena oppure alla raffigurazione nel quadro del Civerchio, asportato in Francia e mai più rintracciato). Secondo altri autori si tratterebbe di una statua, di un simulacro simbolico. 

Si ritiene che questa prima pietra sia la stessa rinvenuta il 13 luglio 1920 durante alcuni lavori di restauro e consolidamento del Torrazzo. La pietra si trovava a due metri di profondità, murata verticalmente e con la faccia rivolta verso il Duomo, come da descrizione svolta quell’anno dal Cambiè. L’epigrafe dice: “Collabens vetustate – Praetorium. Io. Mauru. – Potes. Miro Cultu – Errexit – Ann XPI M D XXV – Dominantibus Venet [is]”. Traducendo liberamente in italiano: “Il podestà Giovanni Moro con mirabile lavoro eresse il palazzo pretorio (allora questo termine era stato riferito alla sede comunale, n.d.a.) cadente per l’antichità l’anno di Cristo 1525 sotto la dominazione veneta”. La lapide era stata poi murata a vista sopra l’architrave del sottopassaggio pedonale a mezzodì del Torrazzo. Per commemorare la fortunosa scoperta, sotto questa lapide ne era stata posta un’altra, di foggia volutamente simile (anche nei caratteri dell’incisione), nella quale si indicava il rinvenimento di quella pietra di fondazione durante i restauri dell’arco del Torrazzo. E qui si verifica un fatto che conferma la nostra espressione in vernacolo “mestér cremàsch”. In data imprecisata, delle due lapidi si perde ogni traccia. Però non sono state rimosse, come a lungo si teme. Si scopre poi che sono state intonacate nel corso di alcuni lavori e che per questo motivo sono scomparse alla vista. Riappaiono infatti entrambe in occasione di altri restauri nel 1967. Oggi continuano quindi a essere collocate sopra la volta in cui allora erano state murate insieme. In pochi però, passando, le vedono. E in pochissimi sanno che cosa siano. Come si è detto, sono cose da topi d’archivio. La data del 1919 contenuta nella lapide celebrativa del ritrovamento indica non l’anno di effettivo rinvenimento, che come si è detto è il 1920, ma quello di inizio dei lavori di restauro del Torrazzo, affidati a Giovanni Crivelli.

Di recente si sono svolte a Crema alcune iniziative riguardanti il cinquecentesimo anniversario del Palazzo Comunale. Ad esempio, il 1° dicembre 2023 si è svolta la conferenza del prof. Simone Caldano sul nostro Palazzo Comunale, alcune vicende di cantiere tra il XV e il XVI secolo e i rifacimenti novecenteschi a cui l’edificio è stato sottoposto. L’incontro si è tenuto nella Sala delle Cerimonie del Comune di Crema ed è stato organizzato dalla Associazione degli ex Alunni del Liceo Ginnasio “Alessandro Racchetti” di Crema. Per maggiori informazioni sull’evento e sul profilo del prof. Caldano, si veda anche, nella sezione “Iniziative”, il sito www.exalunniracchetti.it. Nei mesi scorsi si sono poi svolti tre eventi intesi a commemorare la ricorrenza del Palazzo Comunale, organizzati dalla Associazione “UniversoCrema” nei giorni 20 aprile, 27 aprile e 28 aprile (si veda anche https://universocrema.it/palazzo-comunale-di-crema/). Gli incontri, animati da Luigi Dossena e con la presenza dei delegati di altre realtà associative del territorio, si sono tenuti a Crema, presso l’ex chiesa di Santo Spirito e Santa Maddalena, nella chiesa di Sant’Antonio Abate e nella piazza Duomo. Probabilmente in un prossimo futuro saranno realizzati altri eventi riferiti a questa ricorrenza del Palazzo Comunale.

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Pietro Martini


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