25 dicembre 2022

Il professore, il garibaldino e il mistero dell’Ercole

Sono stati numerosi, nel dipanarsi storico delle umane vicende, gli esempi di elogio funebre di un allievo al proprio maestro. Sin dall’antichità, la scomparsa del proprio mentore, docente, educatore ha portato spesso l’alunno, lo studente, il discepolo a scrivere testi per onorarne la memoria e celebrarne con gratitudine l’operato. Quando Alessandro Racchetti, insigne giurista e professore di diritto all’Università di Padova, viene a mancare nel 1854, un suo allievo scrive questo elogio sul periodico “L’Alchimista Friulano” del 15 maggio di quell’anno: «A questi giorni è morto a Padova il Professor Alessandro Racchetti Cremasco, di cui né la penna può descrivervi a pieno le virtù, né il cuore acconsente che io mi taccia: e in verità all’anima grandemente mi duole, che scarse saranno le parole a dimostrare il sommo rincrescimento dei buoni per la sua dipartita». E più avanti: «La religiosa devozione alle leggi, l’indulgenza dell’animo, la rigidezza della coscienza, la facile cortesia delle maniere, la scienza profonda d’ogni antico e moderno Diritto armonizzavano bellamente in lui come in un filosofo antico». «Analisi giudiziosa e paziente, logica robusta e decisiva, stile chiaro e preciso senza secchezza e senza allumacature lo resero maestro perfetto ai giovani nelle intricate discipline Forensi». L’elogio prosegue ancora e, alla fine, termina così: «Io e con me gli altri tutti che ascoltammo le ultime sue lezioni serberemo la sua memoria nel sacrario del cuore».

In effetti, Alessandro Racchetti era molto amato nell’ateneo patavino, dove non era stato soltanto un docente ma aveva anche ricevuto altri incarichi di rilevo, come ad esempio quello di responsabile di facoltà e di rettore provvisorio. Lo studente autore dell’elogio in parte riportato in precedenza aveva seguito le sue lezioni del corso di “Procedura giudiziaria” tra la fine del 1853 e i primi mesi del 1854. Racchetti era morto il 24 aprile 1854 e i suoi alunni avevano completato il corso e sostenuto gli esami finali con Barnaba Vincenzo Zambelli, che aveva supplito Racchetti dopo la sua scomparsa. Ma chi era questo studente così affezionato al suo professore? Il suo nome sarebbe presto divenuto molto famoso: Ippolito Nievo.

La vicenda è raccontata nell’articolo di Mauro De Zan sull’ultimo numero di “Insula Fulcheria”, la rivista del Museo Civico di Crema e del Cremasco, numero presentato lo scorso 13 dicembre e disponibile nelle librerie cittadine da quella data. L’articolo di De Zan, dal titolo “Alessandro Racchetti nel ricordo di un suo allievo: Ippolito Nievo”, è inoltre disponibile in rete e agevolmente scaricabile in formato “pdf”. In una mezza dozzina di pagine sono rievocati molto bene i fatti e gli scenari storici di riferimento nei quali avevano avuto modo di conoscersi Alessandro Racchetti e Ippolito Nievo. Quest’ultimo riesce poi a completare nel 1855 il suo corso di studi in giurisprudenza a Padova. Però decide di non intraprendere la carriera di avvocato e, tranne che in un’unica occasione, non dimostra più interesse per le discipline legali. Di certo, però, una certa formazione giuridica gli sarà utile, quanto meno in termini burocratico-amministrativi, quando riceverà determinati incarichi di Intendenza in occasione delle verifiche economiche successive alla spedizione dei Mille. L’unica occasione in cui Nievo utilizza i suoi studi universitari, come dice De Zan, è nel 1857, «quando, imputato di vilipendio nei confronti della polizia austriaca per alcune espressioni contenute in un breve racconto, L’avvocatino, apparso l’anno precedente nella rivista milanese “Il Panorama universale”, decise di assumere il ruolo di avvocato difensore di se stesso. Si difese brillantemente e uscì assolto».

Molto interessante, in quest’articolo, è anche la descrizione della dinamica dei rapporti tra il docente e il discente, prima della morte del primo. Infatti, anche se poi Nievo manifesterà sincera ammirazione e vero apprezzamento per Racchetti, in certi momenti del corso, da lui seguito per la verità con frequenza non molto regolare, esprimerà anche qualche insofferenza, come quando il 20 dicembre 1853 (siamo quindi alle prime lezioni del corso) scrive: «Racchetti e Zambelli sono le due persone più seccanti della terra; ma la noiosaggine non esclude una tal quale bontà, e ti assicuro che sono mansuetissimi e non si crederanno offesi se m’impipperò d’una dozzina delle loro lezioni». Il messaggio è inviato all’amico e compagno di studi Cesare Cologna. De Zan precisa opportunamente che «il sarcasmo e le espressioni crude sono tipici delle conversazioni private tra studenti e non necessariamente riflettono il reale giudizio sui loro docenti». Di sicuro Nievo ritiene Racchetti più severo di Zambelli. Il 19 agosto 1854, sempre rivolgendosi a Cologna, scrive infatti, riferendosi all’esame positivamente sostenuto con Zambelli: «la fu veramente da ridere; ma d’altra parte ci sarebbe stato da piangere se la Parca infame non avesse troncato a tempo lo stame del povero Racchetti». Insomma, l’elogio funebre era sentito e sincero, però una certa dose di studentesco cinismo utilitaristico non mancava al prossimo laureando. In ogni caso, dice De Zan, «Nievo ricorda che visitò il professore quando era già nel letto di morte, trovandolo ancora intento ai suoi studi, sottolineando così una certa loro familiarità. Ma soprattutto il giovane pubblicista sottolinea, come tratto distintivo di Racchetti, la moderazione intesa come capacità di armonizzare i suoi tratti caratteriali e la profondità dei suoi studi nella sintesi di una imperturbabilità e una completa correttezza nei comportamenti». Ne esce il ritratto di un uomo di grande dottrina, notevole umanità e forte senso morale. Un vero educatore delle giovani generazioni, in grado di svolgere l’insegnamento come una vera e propria missione civile.

Sono inoltre molti i riferimenti e gli spunti offerti da questo articolo in ambito storico, a partire dalle giornate di protesta del 1848 all’Università di Padova, dal ruolo estremamente valido svolto da Racchetti in quelle circostanze, dalla prudenza lungimirante da lui manifestata nella famosa diatriba sul cosiddetto “cappello all’Ernani” (per la quale si rimanda al testo di De Zan), per giungere poi agli scontri tra gli studenti universitari e le truppe austriache, ai vari ruoli di Racchetti, di Piombazzi e di Leonardi per contenere le misure repressive e infine alle riflessioni patriottiche di Nievo in quei momenti (e anche poco tempo dopo), riflessioni d’ispirazione inizialmente mazziniana ma sempre più orientate, col passare del tempo, verso posizioni critiche rispetto alle strategie di Mazzini, ormai palesemente inadeguate ai fini dell’imminente processo formativo della nostra unità e indipendenza nazionale. In realtà, Nievo non rinuncia, almeno in linea teorica, agli ideali dell’ala più democratica del movimento risorgimentale. Però anche lui, come molti, ha imparato la lezione del 1848-49: l’Italia non si farà coi tentativi di moti violenti e isolati, architettati in modo più o meno raffazzonato da gruppuscoli di cospiratori e congiurati sprovvisti di forza militare, diplomatica e politica. Per giunta, è ben resa nell’articolo anche la vicenda della rappresentazione, tra l’altro pochi giorni prima della morte di Racchetti, il 6 aprile 1854, del dramma scritto da Nievo e intitolato Gli ultimi anni di Galileo Galilei, presso il Teatro dei Concordi di Padova. Ne esce quindi, nel complesso, un quadro di avvenimenti molto vivo e di sicuro interesse per chi abbia a cuore quelle dinamiche storiche e quell’ambiente culturale, nel quale il poco più che ventenne Nievo maturava la sua evoluzione letteraria, la sua fede politica e le sue future scelte di volontario al seguito di Garibaldi, combattendo poi sui terreni di guerra con molto coraggio e raggiungendo il grado di colonnello. Ciò detto, anche per non svolgere pleonastiche parafrasi del testo di De Zan, si rinvia per ogni altro aspetto al suo apprezzabile articolo.

Diciamo però qualcosa in più di Alessandro Racchetti, come personaggio storico. Anche perché sono iniziate proprio in questi giorni, presso l’Istituto di Istruzione Superiore “Racchetti - da Vinci” di Crema, le celebrazioni per il sessantesimo anniversario del compimento del ciclo di studi del Liceo Classico cittadino, che è intitolato proprio ad Alessandro Racchetti. In pratica, dal 1962 i Cremaschi, terminato il biennio ginnasiale, possono proseguire e terminare a Crema il loro ciclo di studi classici e conseguire la relativa maturità senza dover frequentare altri Licei Classici nelle città vicine, come ad esempio il Liceo “Pietro Verri” a Lodi o il Liceo “Daniele Manin” a Cremona, come invece era accaduto fino a sessant’anni fa (buona parte del merito di questa importante conquista cittadina fu del prof. Ugo Palmieri, che poi, per molti anni, è stato l’ottimo e amatissimo Preside del nostro Liceo Classico “Alessandro Racchetti”). Pochi giorni fa, il 20 dicembre, nel corso dell’annuale “Cerimonia di premiazione delle eccellenze”, il Dirigente Scolastico dell’I.I.S. “Racchetti - da Vinci”, prof. Claudio Venturelli, ha quindi ufficialmente inaugurato queste commemorazioni, che avranno il loro momento più significativo nel corso dell’evento in fase di organizzazione per l’annuale “Notte Nazionale del Liceo Classico”, che si svolgerà il 5 maggio 2023. L’intitolazione del Ginnasio di Crema ad Alessandro Racchetti era avvenuta nel 1889, nel centenario della sua nascita, e nel 1962 tale intitolazione era stata estesa all’intero percorso classico quinquennale, completato in quell’anno a livello cittadino.

Quindi, chi era Alessandro Racchetti? Figlio di Andrea Racchetti e di Isabella Bellocchio, era nato il 2 marzo 1789 a Genova, dove i genitori si erano temporaneamente trasferiti, pur essendo entrambi appartenenti a famiglie cremasche di risalente tradizione borghese cittadina. Dice lo storico Francesco Sforza Benvenuti, nel suo Dizionario Biografico Cremasco pubblicato nel 1888: «Racchetti. Famiglia senza blasone, che per lungo tempo tenne in Crema un esercizio di farmacia assai accreditato. La nobilitò nel secolo nostro una costellazione d’uomini d’ingegno i quali, coltivando le scienze e le arti belle, le meritarono una splendida riputazione». Benvenuti si riferisce anche ad Alessandro, oltre che ad altri componenti della sua famiglia (soprattutto ai fratelli e a un nipote), ai quali poi dedica individualmente alcune pagine di apprezzamento nel suo Dizionario. Anche il padre di Alessandro, Andrea, era un farmacista. Era ritornato a Crema dopo il breve periodo genovese e a Crema erano comunque cresciuti tutti i suoi figli, dei quali Alessandro era l’ultimo nato dal primo matrimonio. Infatti, dopo la morte della prima moglie, Isabella Bellocchio, Andrea si era unito in seconde nozze con Antonia Bissoni, dalla quale aveva avuto i figli Emilio, Teresa e Isabella. Andrea, oltre che farmacista, era anche un abbiente uomo d’affari e a Genova aveva un esercizio di tessuti, soprattutto di lini, molto florido e redditizio. Il fratello Antonio, sacerdote e uomo di notevole cultura, contribuisce all’educazione scolastica primaria dei figli di Andrea, quindi anche a quella di Alessandro. Dopo aver frequentato il Ginnasio cremasco, che poi gli sarà intestato, Alessandro compie i restanti studi classici presso il Liceo milanese di Brera e poi si trasferisce all’università di Pavia, dove si laurea in giurisprudenza nel 1808. Pochi anni dopo, nel 1815, viene incaricato come docente all’università di Padova, a soli ventisei anni di età. In poco tempo, Alessandro diviene titolare di cattedra in ruolo e insegna soprattutto le materie di diritto processuale, in particolare la procedura civile allora vigente nel sistema giuridico austriaco del Lombardo-Veneto. Si può dire che la sua intera carriera universitaria e, in buona sostanza, la sua principale esperienza come giurista e autore di contributi scientifici dottrinari giuridici alla cultura del tempo, si svolgano sotto l’egida e negli ambienti dell’ateneo patavino, allora uno dei più validi e rinomati per l’insegnamento del diritto nelle sue varie aree disciplinari.

Richiamando le sue doti di docente universitario, Benvenuti dice che Alessandro «fu uno dei più distinti professori che nel nostro secolo onorarono l’Università di Padova». E riferendosi al «regolamento austriaco di Procedura Civile», aggiunge: «Quel cumulo indigesto di leggi processuali egli spiegava con profonda dottrina e con tanta lucidezza di idee e di forma che ne rendea facile lo studio e quasi aggradevole. Le sue lezioni, sebbene ammiratissime e ricercate dagli studiosi di giurisprudenza, egli non curò mai di dare alle stampe. Soltanto permise che si pubblicasse un discorso inaugurale sul Retto Amore della Gloria, da lui letto all’Università di Padova, essendovi Rettore Magnifico, nell’anno 1826. Il fratello Rocco, erede dei suoi manoscritti, pubblicò poi le lezioni sulle Procedure Speciali, in cui il professor Alessandro spiegò le disposizioni del legislatore austriaco concernenti un metodo eccezionale di procedura più lesto nelle quistioni di finita locazione e di turbato possesso».

Anche Benvenuti era laureato in legge (ed avvocato, anche se non praticò mai la professione forense) e ben conosceva una certa complessità e farraginosità di molte normative austriache, sulle quali poi la storiografia risorgimentale ha infierito, in parte a ragione. Per cui, il povero Alessandro faceva quel che poteva e il suo successo come docente dimostra anche il suo valore come comunicatore, verso gli studenti, di quell’ordinamento così intricato e a tratti tortuoso. Del resto, anche chi è stato anni addietro studente di giurisprudenza negli atenei italiani, sa bene quanto le materie e gli esami di diritto processuale civile e di procedura penale (e di giustizia amministrativa) presentino caratteristiche specifiche diverse e talvolta piuttosto ostiche rispetto a quelle di altre materie e di altri esami, ad esempio riguardanti taluni ambiti del diritto sostanziale. Inoltre, l’incarico di Rettore assegnato ad Alessandro, come si è detto in precedenza, era comunque temporaneo. E in merito alle sue opere, pubblicate o meno, e a quelle redatte su di lui, si veda il citato articolo di De Zan su “Insula Fulcheria” per maggiori notizie. Più in generale, si veda anche la voce dedicata a questo personaggio nel Dizionario biografico degli italiani, nella versione online, con un testo molto accurato e ricco di utili informazioni biografiche. De Zan cita questa fonte nel suo articolo, mentre dice «non consiglio la voce in Wikipedia perché presenta diverse e palesi inesattezze ed è confusa nell’esposizione». Per motivi di spazio, anche in riferimento a ciò, non si stanno in tale sede a segnalare le contraddizioni tra alcune fonti riguardanti questo personaggio, a partire dal fatto, tutt’altro che di dettaglio, del suo matrimonio con Francesca Piantanida, con le relative composizioni augurali di rito (vedi anche la Miscellanea Braguti presso la Biblioteca di Crema), mentre altrove viene riportato che “non si sposò”. In realtà, manca una vera biografia, ben documentata e validamente realizzata, di Alessandro Racchetti. Ed è un altro esempio di un illustre personaggio cremasco che meriterebbe una maggiore attenzione e la giusta rivalutazione memoriale da parte dei nostri ricercatori, studiosi e cultori di Storia, non solo locale.

Del resto, anche riguardo ai suoi fratelli e a un suo nipote, molto ci sarebbe da ricercare, studiare e pubblicare. Non è un caso che, nell’adunanza del 31 marzo 1889, nello stesso anno dell’intitolazione del Ginnasio cittadino ad Alessandro Racchetti, il Consiglio Comunale di Crema abbia deliberato di intitolare alla famiglia Racchetti una via cittadina del centro storico. Questa intitolazione va intesa proprio in onore dei fratelli Paolo, Vincenzo, Giuseppe, Rocco e Alessandro Racchetti, figli di Andrea, oltre che di Pietro Racchetti, figlio di Vincenzo. Si tratta di quella via che costituiva il principale (e in qualche misura l’unico) collegamento carrabile tra la piazza del Duomo e il vecchio Ghirlo, almeno fino a quando l’angusta “stretta del Ghetto”, soltanto pedonale, aveva lasciato posto alla più ampia Contrada degli Orefici nel 1825, poi intitolata ad Alessandro Manzoni nel 1873. Si veda in proposito l’articolo “Gli ebrei a Crema, il ghetto nell’attuale via Manzoni. Il cimitero dietro le ortaglie in piazza Marconi”, pubblicato su Cremona Sera il 15 novembre 2021, nella sezione Cultura. Prima dell’attuale denominazione di via Racchetti, nell’estimo delle case del 1685 (partita 284 e seguenti), la via era denominata Canton della Piazza, mentre ai primi del Settecento era divenuta la Contrada del Cimarosto, in onore di Antonio Cimarosto de Poeti, originario di Cosenza, in Calabria, un “condottiere d’huomini d’arme” a cui il General Consiglio cittadino, secoli addietro, con delibera dell’8 settembre 1461, aveva concesso la cittadinanza cremasca. Un altro appellativo di questa via è riportato da Giuseppe Racchetti (di cui si dirà più avanti) nelle sue Annotazioni al Fino: tale contrada «dicevasi una volta dell’Olmo». Si sa infatti che un Vittorio Olmo esercitava la professione di speziale in un edificio posto ai civici 12 e 14. Oggi la via Racchetti ospita negozi, uffici e locali integrati nell’area dello shopping cittadino, in zona pedonale e in diretto collegamento con la via Matteotti e le cosiddette Quattro Vie

Chi erano i fratelli e il nipote di Alessandro Racchetti, che insieme a lui hanno meritato la suddetta intestazione viaria? Paolo Racchetti, nato a Crema il 27 agosto 1775 e morto a Crema l’11 marzo 1853, fu un ingegnere e architetto illustre e molto noto al suo tempo. Dice il Benvenuti, sempre nel suo Dizionario, che ebbe «l’incarico della stima dei beni nazionali e un posto onorevole alla ragioneria centrale presso il ministero della guerra in Milano. Ingegno robusto, sagace, applicossi allo studio delle scienze finanziarie e dell’agricoltura». Molti suoi saggi si trovano sugli Annali Universali di Statistica e sul Giornale Agrario Lombardo-Veneto. Fu anche un amante delle belle arti e un collezionista di dipinti dei pittori cremaschi, dai più antichi ai moderni. Ci si permette di aggiungere un particolare curioso. Forse non tutti i praticanti l’arte dell’equitazione, in particolare la disciplina degli attacchi, sanno che Paolo scrisse nel 1836 una «Descrizione di una macchinetta atta ad arrestare al momento un cavallo attaccato ad un legno a quattro ruote e che fuga spaventato senza più sentire né la forza del morso o delle redini, né la voce del cocchiere». Questa macchinetta era una delle sue invenzioni scientifiche, che non furono poche, visto il suo multiforme ingegno. Altre interessanti notizie su di lui sono contenute nell’ampio necrologio che gli viene dedicato sull’Almanacco Cremasco per l’anno 1854, pubblicato a Milano dalla Tipografia Ronchetti e compilato da Giovanni Solera.

Vincenzo Racchetti, nato a Crema il 17 maggio 1877 e morto a Crema il 19 aprile (in alcune fonti risulta il 9 aprile) 1819, fu un medico, un giurista e un letterato. Laureato in giurisprudenza a Pavia e in medicina a Padova, nel 1807 diviene primario all’Ospedale Maggiore di Crema e nel 1810 professore di patologia e medicina legale nell’Università di Pavia. Per Benvenuti fu «uomo di forte ingegno, di vasta erudizione e colto scrittore. Lo attestano le opere da lui composte. Una ne pubblicò di serio argomento intitolala La Scienza della prosperità fisica delle Nazioni, dedicandola a Francesco Melzi Vice Presidente della Repubblica Italiana». Questa e tutte le successive citazioni dal Benvenuti sono ricavate dal suo Dizionario Biografico Cremasco, che offre ancor oggi il vantaggio di una giusta sintesi rispetto ad altri testi eccessivamente analitici e a volte dispersivi oppure troppo stringati e sbrigativi. Inoltre, Benvenuti ha la capacità di cogliere l’essenziale, nel tratteggiare personaggi e contesti storici, facilitandone la comprensione. Vincenzo pubblica anche, dedicandolo a Napoleone, un Trattato della Milizia dei Greci antichi colla Versione del libro di Tattica di Arriano, che ottiene notevole successo per la profondità e la ricchezza dei suoi contenuti, e altri scritti, tra i quali un lavoro reputato dagli esperti del tempo un classico nel suo campo, Della Struttura, delle funzioni e delle malattie della midolla spinale. Aggiunge Benvenuti che «alla severità dello scienziato accoppiava, ne’ suoi scritti, la cultura, l’eleganza del letterato. Nel mentre si occupava seriamente d medicina, di giurisprudenza, di storia, di filosofia, svagavasi nei campi dell’amena letteratura, e all’occorrenza sapeva pur verseggiare. I suoi eredi trovarono tra i di lui manoscritti parecchi componimenti poetici e una leggiadra traduzione dei Dialoghi di Luciano». Molti di questi manoscritti sono tuttora inediti. D. G. Borsa ci ha lasciato una Memoria intorno alla vita ed alle opere di Vincenzo Racchetti, Crema.

Giuseppe Racchetti, nato a Crema il 19 dicembre 1783 e morto nel luglio 1858, fu uno scrittore, un letterato e uno storiografo. È soprattutto lui che prosegue a Crema l’attività familiare di farmacista. Anche per questo, si era laureato in chimica all’Università di Pavia. Era anche un appassionato cultore di scienze naturali e di botanica, oltre che di astronomia, e un autore di componimenti poetici di un certo pregio. Tuttavia per Benvenuti «non fu verseggiando che egli acquistossi risonanza, bensì co’ suoi lavori storici e co’ suoi romanzi». Di buon rilievo letterario sono stati valutati dalla critica coeva soprattutto i suoi due romanzi Franco Allegri, del 1833, e Paolo de’ Conti di Camisano, del 1839. Un altro suo romanzo, Gli Irochesi, è rimasto inedito, mentre una sua novella “indiana”, La felicità coniugale, pubblicata da Giovanni Solera, era stata composta nel 1844 in occasione delle nozze del conte Paolo Marazzi con la contessa Laura Vimercati Sanseverino. Sono comunque numerose le sue ulteriori opere letterarie. Si tratta di diverse novelle, commedie e tragedie, oltre a carmi, sonetti e altre composizioni poetiche, anche commemorative. Non mancano alcune traduzioni dagli autori classici e varie opere rimaste per la maggioranza manoscritte. Va detto che Giuseppe ha legato il proprio nome soprattutto alle sue opere storiche. Dice Benvenuti che Giuseppe «consacrò gli ultimi anni di sua vita nello studio della Storia di Crema. Vi raccolse copiosa messe di cognizioni e ne profuse buona parte nelle Annotazioni, con le quali impolpò qua e là quella scarna cronachetta che è il compendio della Storia di Crema del Fino». Qui Benvenuti si riferisce alla Storia di Crema raccolta per Alemanio Fino dagli Annali di Pietro Terni, ristampata con Annotazioni di Giuseppe Racchetti per cura di Giovanni Solera, in due volumi, Tipografia Ronchetti e Ferreri, presso Luigi Rajnoni Libraio, Crema 1844. I lavori storici di Giuseppe comprendono anche un’altra opera fondamentale per Crema: si tratta del manoscritto intitolato Genealogie delle nobili famiglie cremasche, in due volumi (originariamente erano tre), più un altro contenente le tavole grafiche genealogiche. Quest’opera si basa sugli studi e sulle ricerche di Giuseppe fino a tutti gli anni Quaranta e viene probabilmente redatta, per la maggior parte e nella sua stesura finale, tra il 1848 e il 1849 (le ultime scritturazioni sono del 1850).

Rocco Racchetti, nato il 13 agosto 1886 e morto nel 1859, fu un insegnante, uno scrittore e un letterato. Dice di lui Benvenuti: «Versatissimo negli studi letterari, scrittore purgato, elegante, sedette per venticinque anni maestro di rettorica nel Ginnasio di Crema». Molto apprezzate erano allora le sue traduzioni, come quelle de I Dodici Cesari di Svetonio Tranquillo (pubblicata però solo in parte) e altre dal latino, su temi biografici, mitologici e comunque nell’ambito della cultura tradizionale classica. Rocco pubblica a stampa numerose opere, su temi sia laici che religiosi: si tratta tanto di testi in prosa, quanto di componimenti poetici, alcune volte anche di contenuto celebrativo ed encomiastico. Nei suoi scritti rimane ancorato ai canoni della scuola letteraria del classicismo, in un periodo nel quale non mancavano, anche in ambito locale, le polemiche culturali con la scuola romantica. Buona notorietà ha il suo Discorso sull’uso della Mitologia, fatto stampare da Giovanni Solera nel 1844 (che, come si sarà notato anche da quanto detto in precedenza, fu un anno di spicco per la produzione editoriale culturale cremasca), un lavoro di rilievo in quel contesto rigorosamente classicista. Per Benvenuti, «Rocco era caldo ammiratore delle fole mitologiche e le considerava quasi un necessario condimento della poesia. Egli pure, sull’esempio de’ suoi fratelli, tentò più volte di salire le cime del Parnaso sciorinando versi, né quali, se non brillava la divina scintilla del poeta, scorgevasi l’accuratezza, la leggiadria della forma». Rocco si cimenta anche con il nostro vernacolo nativo, nel quale può considerarsi uno degli antesignani (cosa poco nota agli attuali cultori locali di tale genere letterario): compone infatti un opuscoletto che raccoglie un Saggio di Poesie in Dialetto Cremasco. Il fascicolo contiene la traduzione libera da lui eseguita di due famose anacreontiche di Iacopo Vittorelli e la sua edizione a stampa viene realizzata nel 1838 a cura del conte Faustino Vimercati Sanseverino.

Pietro Racchetti, figlio di Vincenzo e dunque nipote di Alessandro, nato a Crema il 20 febbraio 1809 e morto a Crema il 7 novembre 1853, fu un importante pittore, uno dei principali dell’Ottocento cremasco, anche se i suoi meriti non sono stati celebrati da certa critica locale come invece è accaduto per taluni altri artisti del XIX secolo. Pietro è allievo di Giuseppe Diotti presso l’Accademia Carrara di Bergamo. Frequenta poi le lezioni di Vincenzo Camuccini a Roma, dove nel 1831 dipinge un’Annunciazione, oggi presso gli Istituti di Ricovero di Crema. Tra le sue opere vanno ricordate: le Sante Agata e Apollonia (con un angelo che porta loro la palma del martirio), in cui la lezione del Diotti è ben visibile, già nella chiesa della Santissima Trinità di Crema; una Vergine col Bambino e altri Santi, quadro che era destinato alla chiesa parrocchiale di Azzano e che ai tempi del Benvenuti era nel palazzo di famiglia del conte Carlo Vimercati Sanseverino (morto nel novembre 1884), in cui si scorge invece la scuola del Camuccini; così come la si intravede nel dipinto la Morte di Machiavelli, composto su incarico di Antonio Bisleri, personaggio allora in ascesa economica e sociale nella nostra città, un’opera attualmente presso il Municipio di Crema. Sono però numerosi i dipinti che meriterebbero menzione, come ad esempio il ritratto di Paolo Braguti, esposto al Museo Civico di Crema e del Cremasco, restaurato su iniziativa privata nel 2018, di datazione intorno al 1850, oppure i ritratti di Giovanni Battista Monticelli Strada e di Stefano Pavesi, oggi presso gli Istituti di Ricovero di Crema. In effetti, Pietro è noto in Crema, durante il suo periodo di attività artistica, soprattutto come ritrattista. Per Cesare Alpini, «il Racchetti fu prima di tutto un notevole ritrattista, anzi il vero primo ritrattista ottocentesco e borghese che ebbe la città di Crema» (da Pittori e scultori cremaschi dell’Ottocento, edizione a cura del Liceo Classico “Alessandro Racchetti” di Crema, Tipografia Trezzi, Crema 2008). Anche Benvenuti ritiene che «l’egregio pennello del Racchetti si distinse maggiormente nel far ritratti». Si tratta di ritratti eseguiti anche in diverse città italiane. Oggi è per noi più agevole rintracciare quelli realizzati su incarico della committenza cremasca del tempo, di estrazione soprattutto nobiliare e altoborghese. Infatti, dice Benvenuti, «moltissimi ritratti il nostro Pietro eseguì a Crema», vista la sua abilità come ritrattista e la sua indubbia capacità di resa psicologica dei soggetti raffigurati. «Quanti non ricorsero a lui per tramandare ai nepoti le proprie sembianze o quelle di un parente o di un benemerito defunto! Dipinti dal Racchetti troverete dei ritratti in una sala del Monte di Pietà, nella Civica Biblioteca di Crema, nelle case Sanseverino, Terni, Fadini, Marazzi, Premoli, Tensini, Monza, Bolzoni e in parecchie altre». L’accenno al «benemerito defunto» deriva dal fatto che «anche di persone già da tempo estinte egli copiava al vero le sembianze, i lineamenti, l’espressione della fisionomia», soprattutto, aggiunge Alpini, quando i soggetti defunti erano stati da lui «conosciuti negli anni precedenti». Nel complesso, si può dire che Pietro sia stato un altro personaggio cremasco che attende ancora, per i suoi meriti artistici, una giusta rivisitazione e valorizzazione.

Ci si è attardati nei precedenti cenni biografici, riguardanti i fratelli e il nipote di Alessandro Racchetti, facendo conto sulla pazienza dei lettori e soprattutto con l’obiettivo di rendere alla famiglia Racchetti il meritato riconoscimento e apprezzamento, cogliendo l’occasione di questo articolo di Mauro De Zan sulla rivista “Insula Fulcheria”. Se ciò ha reso tediosa l’esposizione, ce ne si scusa con i legittimi annoiati. Torniamo ora al professor Racchetti e allo studente Nievo. Anzi, visto che dei Racchetti si è già detto parecchio, aggiungiamo adesso qualcosa sul nostro scrittore, patriota e garibaldino. Va detto che su di lui la bibliografia è veramente sconfinata. Sia sulle sue opere letterarie, sia sulle sue imprese come patriota (imprese di genere ora più militare, ora più politico, ora più gestionale amministrativo), così come sulla sua vita privata personale, esistono una storiografia, una saggistica e una letteratura veramente sterminate. Bastino quindi su di lui, in questa sede, soltanto pochi cenni, in estrema sintesi.

Nato a Padova il 30 novembre 1831, era figlio di Antonio Nievo, magistrato, di nobile famiglia mantovana, e di Adele Marin, appartenente a un casato del patriziato veneziano. Nell’infanzia e nell’adolescenza, per ragioni familiari, studia a Verona e poi a Mantova, all’Imperial Regio Liceo Classico, divenuto poi il “Liceo Classico Virgilio”. Nel 1848 frequenta il Liceo Classico di Cremona, divenuto poi il “Liceo Classico Daniele Manin” (si veda anche l’articolo “160 anni fa moriva Ippolito Nievo, lo scrittore che frequentò il nostro Liceo”, pubblicato su Cremona Sera il 1° marzo 2021, nella sezione Cultura). Si trasferisce quindi in Toscana, a Firenze e quindi a Pisa. Ritornato a Mantova, consegue la licenza liceale e poi intraprende gli studi in giurisprudenza, prima presso l’Università di Pavia e poi in quella di Padova, dove si laurea nel 1855. Dal 1852 è pubblicista per alcuni giornali, come il quotidiano bresciano “La Sferza”, la rivista “L’Alchimista Friulano” (si reca spesso in Friuli) e il foglio milanese “Il Panorama universale”. Collabora anche con il settimanale milanese “Il Caffè”. Esprime, fin da giovanissimo, sentimenti di forte patriottismo, ispirandosi alle correnti repubblicane e radicali del mazzinianesimo, e volgendosi poi, nel corso degli anni, verso posizioni di progressiva disillusione politica, pur restando un convinto assertore del liberalesimo democratico.

La sua produzione letteraria è intensissima, anche in rapporto alla breve durata della sua esistenza, durata meno di trent’anni. Oltre alla cospicua mole di scritti giornalistici e di saggi e studi d’orientamento politico e storico, è autore di diverse raccolte di poesie, di novelle e racconti, oltre che di alcuni drammi, commedie e tragedie. Scrive anche, nel 1860, un’opera che lo pone tra i precursori italiani della fantascienza. Redige un Epistolario che è molto utile per la ricostruzione delle sue vicende biografiche, ideologiche e sentimentali, molto articolate, spesso appassionate, a volte convulse. Molte delle sue opere restano manoscritte e vengono pubblicate postume, anche a notevole distanza di tempo dalla sua scomparsa. Ad esempio, il suo primo romanzo, Antiafrodisiaco per l'amor platonico, viene edito nel 1956. La sua opera principale, per la quale è maggiormente conosciuto e che rappresenta qualcosa di molto rilevante nella narrativa italiana del XIX secolo, è Le confessioni di un italiano, un corposo e intenso e romanzo composto tra il 1857 e il 1858 e pubblicato soltanto nel 1867, originariamente con il titolo Le confessioni di un ottuagenario. La narrazione si svolge in prima persona ed è divisa in ventitré ampi capitoli, che costituiscono una sorta di autobiografia immaginaria dell’ottuagenario Carlino Altoviti. Le vicende personali del protagonista si intrecciano con gli avvenimenti politici dell’epoca, a partire dalla caduta della Serenissima e dall’avvento della dominazione francese, attraverso la Restaurazione e le cospirazioni e le battaglie del Risorgimento, giungendo fino al 1858. Il romanzo è molto importante in quanto, collocandosi letterariamente nel periodo tra i Promessi Sposi e i Malavoglia, riesce in buona misura a rappresentare quella temperie culturale e a fondere la componente artistico-narrativa con quella storiografica, anche grazie a una riuscita caratterizzazione psicologica dei personaggi. Un certo suo realismo molto originale, sfumato in un clima spesso onirico e a tratti persino visionario, ha fornito non pochi spunti letterari alla narrativa italiana contemporanea.

Nel 1859 si arruola come volontario nei Cacciatori delle Alpi e combatte con Garibaldi nella seconda guerra di indipendenza nazionale. Nel 1860 partecipa integralmente, dall’inizio fino al termine, alla Spedizione dei Mille (è il numero 690 nell’elenco del ruolo), salpando a Quarto col Lombardo e combattendo poi per tutta la campagna di guerra, distinguendosi a Calatafimi, partecipando con molto coraggio e capacità bellica a molte azioni militari durante la conquista del Meridione e raggiungendo a fine campagna il grado di colonnello per i suoi meriti sul campo. Viene nominato Vice Intendente e successivamente Intendente dell’Esercito Meridionale e si trova così coinvolto nell’amministrazione delle risorse economiche e nei processi gestionali sviluppati durante la Dittatura garibaldina vigente nei territori occupati. Dopo la conquista del Regno delle due Sicilie, l’incontro di Teano (che invece, forse, si svolge a Vairano), l’ingresso in Napoli di Vittorio Emanuele II e l’imbarco di Garibaldi sul Washington per Caprera, avviene il completo cambio della guardia tra garibaldini e piemontesi, anche in termini economico-amministrativi, e la spregiudicata gestione finanziaria della Dittatura meridionale viene messa sotto accusa con rilievi molto gravi e ben documentati. Contratti per centinaia di milioni di allora senza effettivi risultati, forti elargizioni di denaro senza giustificativi, la dispersione clientelare di buona parte del Tesoro della Banca Centrale del Regno conquistato, oltre a innumerevoli situazioni di evidente irregolarità amministrativa, per somme estremamente cospicue, vanno a formare a Torino un dossier che impone un’opera di verifica (di auditing, diremmo oggi aziendalmente) immediata e rigorosa. Il mezzo milione di ducati d’argento elargito a Dumas per decantare le lodi garibaldine e lo scandalo in cui è coinvolto Agostino Bertani, vicinissimo a Garibaldi e accusato di distrazione di fondi per finanziamenti illeciti, oltre ad altri gravissimi fatti emersi nel frattempo, inducono Cavour e il suo governo a fare chiarezza. Una delle prime contromisure è quella di chiedere a Ippolito Nievo, visto il suo ruolo all’Intendenza della Dittatura e in considerazione della sua fama di rettitudine e della sua capacità giuridico-amministrativa, di tornare a Palermo, per esperire le indagini necessarie, completare le verifiche contabili, raccogliere tutta la documentazione probatoria utile a una valutazione degli organi competenti e fare ritorno a Torino con tutto quanto acquisito.

Il 15 febbraio 1861 Nievo si imbarca sull’Elettrico, raggiunge Palermo e, in una ventina di giorni svolge il compito affidatogli. Sa dove e come muoversi. Aveva già denunciato in passato parecchi ufficiali che dichiaravano molti più uomini al loro comando per intascare la differenza delle paghe. Aveva anche colto in fallo molti responsabili degli approvvigionamenti che vendevano immediatamente, non appena riforniti, parte delle armi e degli abbigliamenti destinati ai soldati, su molte piazze meridionali e al mercato nero. Per di più, molte delle dotazioni fornite venivano subito rivendute, sempre alla borsa nera, dopo aver simulato l’esistenza di contingenti militari del tutto fasulli. Per non parlare dei cinque milioni di ducati confiscati al Banco di Sicilia, in parte dispersi e la cui tentata rendicontazione aveva già fatto sudare all’Intendenza di Nievo le proverbiali sette camicie. Il tutto con un notabilato locale meridionale salito subito sul carro del vincitore e insediatosi prontamente nelle strutture istituzionali create dai conquistatori, occupandone i gangli operativi e partecipando attivamente alle pratiche di corruzione e malaffare sempre più dilaganti. Insomma, lo scrittore-soldato sa bene come compiere l’opera affidatagli dal governo subalpino, che in quelle settimane sta diventando il governo italiano. Esaurite le sue verifiche, raccolto tutto il materiale in appositi contenitori per il viaggio, Nievo si imbarca sull’Ercole il 4 marzo 1861, salutando alcuni amici fidati al molo dell’Arsenale poco dopo mezzogiorno. L’Ercole è un mezzo marittimo a ruote abilitato sia al servizio postale, sia al trasporto militare, attrezzato per la navigazione in alto mare. Dopo un breve tratto di navigazione, all’improvviso e senza spiegazione, con il mare in condizioni sempre positive, il piroscafo scompare durante la traversata. Si tratta di un naufragio che non lascia traccia. Dalle onde non affiora alcun pezzo del relitto. Delle settantotto persone a bordo non si sa più nulla. È una vera strage. Del carico di 232 tonnellate non si trova più niente. Così muore Ippolito Nievo. La sua tomba è (probabilmente) in fondo al mare Tirreno. Pochi giorni dopo, il 17 marzo 1861, il nuovo parlamento divenuto nazionale dichiara ufficialmente iniziato il Regno d’Italia. Un Regno proclamato nei giorni in cui avviene il primo degli innumerevoli misteri, mai svelati, che ancora oggi ci accompagnano.

Si conclude con qualche breve cenno sull’autore del precitato articolo pubblicato su “Insula Fulcheria” e riguardante Alessandro Racchetti e Ippolito Nievo, il prof. Mauro De Zan. Nato a Milano nel 1953, De Zan è stato docente di filosofia e storia nei Licei e per molti anni ha insegnato queste materie presso il Liceo Classico “Alessandro Racchetti” di Crema, ritirandosi dalla docenza di recente. Si è prevalentemente occupato di storia della cultura scientifica italiana tra il XVIII e il XX secolo. Ricorrono nei suoi studi anche due autori cremaschi: il medico-naturalista Carlo Cogrossi (1682-1769), professore di medicina all’Università di Padova, e il filosofo, matematico e ingegnere Giovanni Vailati (1863-1909), già assistente di Giuseppe Peano e Vito Volterra all’Università di Torino e poi docente di storia della meccanica in quell’ateneo, quindi insegnante di matematica nelle scuole superiori e autore di oltre 200 saggi, soprattutto scientifici e filosofici, apprezzati anche a livello internazionale. Di Cogrossi, in particolare, De Zan ha curato l’edizione critica della Nuova idea del male contagioso de’ buoi, Olschki, Firenze 2005. Di Vailati ha curato, insieme a Patrick Supples, Paola Cantù e Claudia Arrighi, l’edizione di un’antologia di testi in traduzione inglese, Logic and Pragmatism. Selected Essays by Giovanni Vailati, CSLI Publications, Stanford (California) 2010. Sempre su Vailati, De Zan ha pubblicato La formazione di Giovanni Vailati, Congedo Editore, Galatina (Lecce) 2009. Responsabile del “Centro Studi Giovanni Vailati”, De Zan si è anche occupato nei suoi scritti di problemi di didattica, di bioetica e di educazione ambientale. Collabora a diverse riviste culturali, tra le quali “Società e Storia”, “Rivista di Storia della Filosofia”, “Bioetica” e “Il Voltaire”.

Nell’immagine dell’articolo, alcune raffigurazioni di Alessandro Racchetti

Pietro Martini


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commenti


Daniela Bongiovanni

23 marzo 2024 21:28

Buongiorno, ho trovato molto interessante l articolo , perché sono una discendente della famiglia Racchetti , mia nonna era Racchetti Francesca. Ho sempre sentito da lei storie della sua antica Famiglia , in casa ho un libro fi Alessandro e articoli su Isabella Racchetti. .sarei interessata ad altre informazioni.. resto in attesa di una risposta

Pietro Martini

25 marzo 2024 15:01

La ringrazio per il suo commento, veramente gradito, e per l'indicazione del libro e degli articoli da lei citati. Mi permetterò di contattarla in questi giorni. Pietro Martini