La Madonna miracolosa e la sua basilica a Crema
Riprendiamo il racconto riguardante l’uxoricidio di Caterina degli Uberti, di cui si è trattato nell’articolo pubblicato lo scorso 27 aprile (leggi qui). È passato un mese da quando la Madonna è apparsa nel bosco del Novelletto a Caterina, conducendola in salvo nella casa dei Samanni. Come si è detto, la vittima dell’aggressione è morta il giorno successivo, a causa delle gravi ferite inferte dal marito, ed è stata sepolta nella chiesa di San Benedetto a Crema. In città parecchi gridano al miracolo per questa apparizione mariana, mentre altri restano molto scettici. Il 3 maggio 1490 avviene un fatto decisivo per questa vicenda. Il figlio undicenne di Francesco Marazzi, del noto casato nobile cremasco, soffre da quattro anni di una grave fistola al piede sinistro che i medici non riescono a guarire e che gli provoca forti dolori e gravi disagi nella deambulazione, tanto che il ragazzo deve muoversi con l’aiuto di due stampelle. Sperando nell’intercessione della Madonna, il piccolo si reca con i familiari sul luogo dell’apparizione, dove è stata piantata una croce di legno. Dopo un’ora di preghiere, ecco che il miracolo si realizza: gettate le grucce, il ragazzo corre incontro alla madre, esultante per essere stato guarito dalla sua infermità.
La fama del miracolo si diffonde subito e in poche ore, sia in città che nelle campagne circostanti, si accende la speranza di una possibile guarigione in numerosi invalidi, paralitici e affetti da morbi considerati inguaribili. Gran parte degli scettici sull’apparizione della Madonna a Caterina degli Uberti si pente della propria iniziale diffidenza. Una massa di credenti si mette in cammino, da Crema e anche dai paesi circostanti, verso la croce infissa nel luogo miracoloso, nella stessa giornata del 3 maggio. Molti di questi pellegrini sono infermi e affetti da gravi malattie, per cui vengono trasportati con carretti, barelle e altri mezzi improvvisati. L’afflusso della folla è costante e massiccio. Tra la commozione generale, le invocazioni, i pianti, le scene di giubilo, i miracoli si moltiplicano. In quello stesso giorno si contano quaranta casi accertati di guarigioni miracolose. Il tripudio collettivo è incontenibile e l’eco di questi fatti si spande per tutto il contado e per i paesi vicini.
La devozione popolare comincia a manifestarsi con offerte e donativi recati sul luogo sacro, tanto dalla povera gente che dai soggetti più abbienti. Vengono portati oggetti d’oro e d’argento, stoffe preziose, gemme e manufatti pregiati ma anche quel poco che possono offrire i più indigenti. Arrivano i primi conferimenti, in denaro o in altri beni, da parte delle pubbliche autorità, sia civili che religiose. Il cavaliere milanese Gianfrancesco Cotta dona un bassorilievo con l’effigie della Madonna col Bambino. Si decide quindi di vigilare stabilmente su quella radura e di costruire un altare provvisorio, protetto da una tettoia. È il primo nucleo dell’edificio che verrà poi edificato per celebrare, al tempo stesso, i fatti miracolosi avvenuti, l’apparizione della santissima Vergine e il sacrificio di Caterina degli Uberti. Nel frattempo, i miracoli continuano. Un giovanetto muto di Romanengo riacquista la parola. Aumentano le grucce lasciate appese dai numerosi guariti ai rami degli alberi circostanti. In poco tempo si assiste a un’ottantina di guarigioni dovute all’intercessione mariana.
Il Consiglio della città di Crema, che non può restare indifferente alla dilagante concitazione popolare, decide la costruzione in quel luogo di una chiesa intitolata a Santa Maria della Croce, poiché la prima guarigione, quella del piccolo Marazzi, è avvenuta nel giorno dedicato alla solennità dell’Invenzione della Santa Croce. Vengono eletti sei deputati alla custodia dei luoghi e al progetto della edificazione della chiesa: Francesco Vimercati, Andrea Martinengo, Antonio Marazzi, Cristoforo Benvenuti, Jacopo Zurla e Pagano Benzoni. L’incarico è semestrale e le successive elezioni avvengono all’inizio e alla metà dell’anno. La gestione della fabbriceria prevede che questi deputati siano coadiuvati da tre provveditori della comunità. L’iniziativa della nuova chiesa è concordata con le autorità vescovili. La giurisdizione ecclesiastica è ancora divisa, a Crema e nei territori intorno alla città, tra i vescovi di Piacenza e di Cremona. La diocesi di Lodi comprende inoltre una parte minore del territorio cremasco, più a ponente. Infatti solo nel 1580, novanta anni dopo questi avvenimenti, verrà istituita la diocesi di Crema.
Mentre le autorizzazioni ad edificare il nuovo tempio mariano vengono rilasciate, continua la serie dei miracoli. L’immagine donata dal Cotta, collocata sull’altare provvisorio, viene vista piangere. Il 18 maggio apre e chiude ripetutamente gli occhi, come testimoniano numerosi presenti degni di fede, come il diarista Coldirero (già citato nel precedente articolo del 27 aprile scorso), il nobile Obizzo da Almenno, i fratelli Giacomo e Gianmarco Marchisetti, il reverendo Marchisio Coppi, rettore del Duomo, il reverendo Matteo Lafrocchi, rettore di San Pietro, e altri ancora. Il tutto è menzionato nella già citata relazione di monsignor Robati, vicario del vescovo di Piacenza, al suo presule Marliani. Le guarigioni miracolose continuano, in un clima di generale esaltazione religiosa. Alle folle di semplici popolani e contadini, che giungono giornalmente in pellegrinaggio sul luogo sacro, si alternano i cortei dei nobili e dei ricchi possidenti, che recano vistose offerte personali, monete d’oro, materiali per l’edificazione della chiesa, arredi pregiati, suppellettili cesellate e preziose. Il 20 maggio il capitano Taddeo della Mottella, nipote di Bartolomeo Colleoni e capo di un contingente di armati a Crema, reca sul posto una statua in cera di un suo figlio mortalmente ammalato e ne ottiene la miracolosa guarigione. Pochi giorni dopo, davanti al capitano Ugo Sanseverino, conte di Pandino, e a numerosi cavalieri e dame da lui condotti sul luogo, l’immagine della Madonna donata dal Cotta ripete il miracolo della reiterata chiusura e riapertura degli occhi.
Anche gli ultimi scettici, quelli più irriducibili, a questo punto finiscono col credere ai miracoli. Tra loro c’è il podestà veneto Nicolò de Priuli, che ha maturato riguardo alle manifestazioni di esaltazione collettiva delle folle una certa esperienza di governo e quindi una determinata opinione. Giunto nel sacro recinto, resta inizialmente dubbioso ma poi, nonostante la giornata sia molto serena, il sole inizia a oscurarsi. Una nube rotonda di vapori iridescenti si libra sopra il bosco, poi la nube prende la forma di un cerchio luminoso. Infine questo cerchio si alza e si abbassa tre volte sopra il luogo dei miracoli. Qualcuno aggiunge che, al centro dello sfavillante nembo, si sia intravista l’immagine della futura chiesa da erigere in quel punto. Il fenomeno semina il terrore in tutti gli astanti e le grida di spavento dei presenti vengono sentite fin dentro le mura di Crema. Alla fine, scosso da queste manifestazioni della volontà celeste, anche il Priuli si unisce piamente alle orazioni della folla e al fervore religioso collettivo, divenendo un convinto assertore della veridicità dei fatti miracolosi accaduti nelle settimane precedenti e uno zelante propugnatore dell’erigenda chiesa. Ulteriori miracoli avvengono poi nel periodo successivo, come concordemente riportato dai numerosi autori che hanno scritto sull'argomento nel corso dei secoli seguenti.
Molti di questi autori sono già stati menzionati nell’articolo precedente, a partire dal Terno e dal Fino intorno alla metà del XVI secolo, passando quindi attraverso i vari scrittori elencati per i successivi secoli XVII e XVIII, per arrivare poi fino al Bettoni e al Ronna, nel primo quarto del secolo XIX. Soprattutto sulla già citata opera del Ronna del 1824, oltre che sul resoconto del Coldirero e sulla lettera del Robati al vescovo Marliani, là allegati, ci si è basati per quanto qui riportato riguardo al periodo successivo alla morte di Caterina degli Uberti. Vanno ora ricordati i principali autori venuti dopo il Ronna, che hanno trattato quei fatti in modo più o meno diffuso e approfondito. Sono Riccardo Gelera, “Crema e il Santuario di Santa Maria della Croce”, nella serie “Le cento città d’Italia illustrate”, Milano 1925; Mario Maccalli, “Il Santuario di Santa Maria della Croce. Storia, Arte, Devozione”, Crema 1943; Winifred Taylor Terni, “La meravigliosa storia di Santa Maria della Croce”, Crema 1946; Angelo Zavaglio, “Piccola storia di Santa Maria della Croce” (edizione postuma), Crema 1952; Francesco Piantelli e Mario Maccalli, “Un mese a Santa Maria della Croce: storia e devozione del santuario di Santa Maria della Croce di Crema”, Crema 1954; Gabriele Lucchi, “Origini e storia”, in “Santa Maria della Croce a Crema”, Cinisello Balsamo 1982; Ilaria Lasagni, “Il santuario nella vita civile e religiosa di Crema”, in “La basilica di Santa Maria della Croce a Crema”, Crema 1990. Numerosi altri autori hanno scritto in proposito ma non è possibile menzionarli tutti in questa sede. Basti citare, in estrema sintesi, solo Zurla 1837, Scarpini 1869, Benvenuti 1859, Bettoni 1969 e 1989, Alpini 1990, Zucchelli 1994.
Va infine segnalato un interessante contributo sul rilievo in terracotta donato dal Cotta: di Matteo Facchi, “Il rilievo miracoloso di Santa Maria della Croce a Crema: una terracotta seriale da un’invenzione rosselliniana”, in “Le radici del futuro nei beni storici e artistici. Studi in memoria di don Carlo Mussi”, Crema 2017, in riferimento all’attribuzione di quest’opera d’arte, ancora custodita nella basilica di Santa Maria della Croce. A volte infatti vale la pena di aggiungere alla disamina delle proprietà mistiche e taumaturgiche dei beni culturali una qualche ricognizione di fondata critica d’arte riguardo alla loro origine, al loro autore e alla loro valenza artistica e storica. Più in generale, sono abbondanti e variegati gli scritti che nel merito si sono aggiunti, negli ultimi due secoli, a quelli degli autori già richiamati nel precedente articolo. E si può dire che, se la vicenda di Caterina degli Uberti, dell’apparizione mariana e dei successivi miracoli è interessante in termini religiosi, antropologici e di costume, questa plurisecolare produzione di opere a commento di quei fatti è pure interessante in termini storici, letterari e culturali in genere.
Esula da questo testo, anche per motivi di spazio, ogni intendimento critico storico-letterario su tale bibliografia. Ma si può dire che, nel complesso, ci troviamo davanti a poche fonti coeve, come quelle del Coldirero e del Robati; quindi a un tipico racconto fondativo, di diversi decenni successivo a quegli avvenimenti, quello del Terno con la sintetica ripresa del Fino, racconto che costituisce il fondamento narrativo delle successive rielaborazioni; poi a una cospicua serie di scritti più o meno coerenti in merito a quanto accaduto, basati soprattutto sul Terno e spesso opera di religiosi; infine a una sistematizzazione generale dell’intera materia, operata dal Ronna, che costituisce una base conoscitiva fondamentale, per rigore storiografico e per ricerca sulle fonti archivistiche, dalla quale derivano, in buona sostanza, le proliferazioni narrative dei due secoli successivi, sia di quelle più attente al resoconto cronachistico, sia di quelle più mirate agli aspetti artistici (sull’architettura e sulle opere d’arte della chiesa), sia di quelle con maggiori intenti “letterari”, talvolta alquanto velleitari.
In pratica, se non si può affermare tout court che dopo il Ronna ci si sia limitati a rivisitazioni più o meno valide di quanto esposto da tale autore, sembra però possibile condividere l’opinione di Facchi (op. cit.), attuale presidente della Società Storica Cremasca, per il quale quello del Ronna rimane un “testo ancora insuperato”, “da cui dipendono tutte le pubblicazioni successive”. Va tuttavia citato come meritevole anche il contributo di Lasagni nel 1990 (op. cit., in parte ripreso poi da Lasagni nel 2008, in “Chiese, conventi e monasteri in Crema … etc.”, Milano, Edizioni Unicopli). Il lettore interessato può comunque sbizzarrirsi in modo molto vario, potendo contare su testi rispondenti ai gusti letterari delle varie epoche, visto che la vicenda ha offerto l’opportunità a numerosi autori di declinare quei fatti negli stili e nei linguaggi narrativi del proprio tempo e del proprio ambiente. Talvolta la storia degli avvenimenti reali è interessante tanto quella della loro successiva (specie se così volonterosa) rielaborazione storica e letteraria.
Pagato lo scotto alla forse noiosa ma doverosa indicazione delle fonti dalle quali la nostra storia è stata in oltre cinque secoli desunta, torniamo al 1490, ai miracoli avvenuti e al progetto di edificazione della chiesa. Le guarigioni miracolose, continuate nei mesi di maggio e giugno di quell’anno, sono ormai considerate dal popolo, dai maggiorenti e dalle autorità civili e religiose, come certe e assodate. I lavori di costruzione del tempio mariano sono disposti in modo tempestivo. Seguiamo in questo Ronna 1824 e Lasagni 1990 e 2008. Il 15 luglio è stipulato il contratto per la fabbrica della chiesa con l’architetto lodigiano Giovanni Battagio (o Battaggio o Battaglio), allievo di Donato Bramante. Il 16 luglio si redige l’atto di pagamento del disegno e il 6 agosto quello di posa della prima pietra. Sono atti rogati dal notaio Matteo Bravio e i tre istromenti sono rilevabili dal cosiddetto “Manoscritto 133”, conservato presso la Biblioteca Comunale di Crema. Per alcuni anni, almeno fino al 1493-1494, le attività di edificazione restano sotto la direzione del Battagio. Poi, a causa di “malumori” tra l’architetto e i deputati alla fabbrica, il Battagio rompe i rapporti con i fabbriceri e lascia l’incarico. Il compito è allora assegnato ad Antonio Montanaro (o Montanari), sotto la cui guida l’opera viene portata avanti, sia pure con varianti rispetto al progetto iniziale.
Nel giugno 1497, in virtù di un privilegio papale, l’onere complessivo dell’opera passa all’Ospedale di Crema. Alla comunità cittadina restano accollate determinate spese di costruzione, ornamento degli altari e mantenimento dell’edificio. Due copie della relativa bolla papale di Alessandro VI sono conservate all’Archivio Storico della Curia Vescovile di Crema. Le notizie sulla ripartizione delle spese si trovano nei Registri delle provvisioni e parti della comunità di Crema sotto il dominio veneto, XI, 29 giugno 1497, ff.1v-2r, presso l’Archivio Storico Comunale di Crema. Nel marzo 1499 i provveditori della città, unitamente ai deputati di Santa Maria della Croce, decidono di far innalzare all’interno due ancone con quattro colonne, destinate all’altare maggiore. Il mese successivo si deliberano specifici ornamenti interni e per gli altari. Nei Registri delle provvisioni esistenti presso il nostro Archivio Storico Comunale sono disseminate molte informazioni riferite agli anni in cui viene compiuta l’edificazione. Se ne ha comunque notizia anche in varie pubblicazioni a stampa, come in Lasagni 1990 e 2008, in Verga Bandirali 1982 e in altri autori.
Per non appesantire il presente testo, si tralasciano ulteriori specificazioni sulle successive fasi costruttive e implementazioni ornamentali, sia esterne che interne; sui conferimenti pubblici e privati (terreni, case, beni mobili, averi e diritti vari) effettuati a sostegno della fabbriceria; sulle scelte architettoniche e artistiche operate durante i lavori, che alimenteranno in seguito varie discussioni critiche di natura estetica. Basti dire che nei primi anni del Cinquecento la chiesa è compiuta nella sua struttura fondamentale e aperta pubblicamente al culto, anche se diverse opere di completamento e abbellimento continuano negli anni successivi. La data del 1500, indicata da alcuni autori come quella dell’inaugurazione dell’opera ormai terminata, ha quindi valore più simbolico che effettivo, anche se in quell’anno il nuovo tempio mariano è già agibile per le funzioni religiose. Non sono disponibili, per quanto è dato sapere, informazioni precise riguardanti la data specifica e le modalità della cerimonia di inaugurazione, per cui non resta che attenersi a questa datazione di massima dei primi inizi del Cinquecento. Nel 1508 la chiesa risulta sostanzialmente portata a termine. Cominciano infatti da quest’anno (e durano fin oltre la metà della decade successiva) le notizie fornite dalle fonti storiche sui danni causati all’edificio dalle guerre succedute alla Lega di Cambrai e provocati dall’invasione francese, fonti dalle quali si può desumere che il tempio era ormai realizzato e che quelle vicende belliche avevano arrecato alla chiesa inconvenienti notevoli, soprattutto in occasione della sua occupazione militare nel 1514, quando viene trasformata in una fortezza difensiva e viene spogliata e danneggiata dalle soldataglie.
La storia della basilica di Santa Maria della Croce, dal suo compimento fino ai giorni nostri, meriterebbe un articolo a parte. Ci si ferma dunque a questo punto della vicenda, rinviando per ulteriori notizie all’abbondante letteratura esistente in proposito, già indicata in precedenza e in grado di soddisfare tutti i palati storiografici, artistici, devozionali e turistici, vista la variegata messe di pubblicazioni prodotta in più di cinque secoli, soprattutto negli ultimi cent’anni. Ci si limita qui a due elementi aggiuntivi, che non possono essere omessi in questa sede. Il primo è quello del successivo (e isolato) asserito miracolo del 1869. Ampio risalto religioso viene dato localmente al fatto che quell’anno l’immagine della Madonna donata dal Cotta, che secoli addietro aveva ripetutamente chiuso e riaperto gli occhi, nuovamente li chiudesse e li riaprisse davanti a dei “colti sacerdoti che visitavano il tempio ammirandone i pregi artistici” (Taylor Terni 1946). “Il prodigio si ripeteva davanti a testimoni sempre più numerosi, persone note e serie, e delle loro deposizioni fu raccolto e stampato un volume”. Quel “prodigio non ebbe nel mondo quella risonanza, quella celebrità che meritava, ed il fervore popolare presto s’assopì davanti all’immagine taumaturga fattasi nuovamente rigida, fredda e lontana”. Tra i testimoni citati dall’autrice “si trovano due vescovi, molti sacerdoti, e persone d’ogni ceto sociale fra le quali alcuni parenti nostri ed amici che ricordo come persone serie ed intelligenti”. Il supposto miracolo avviene nel 1869, in Italia: il momento potrebbe essere casuale. Oppure no, come nel caso di altre puntuali mariofanie avvenute in determinate contingenze storiche. L’autorità civile, definita dall’autrice “infastidita ed ostile”, nomina una commissione di periti, che resta “scettica” e arriva a minacciare di “intentar processo per frode al parroco” e a taluni testimoni. La Madonna poi resterà a “ciglia abbassate”, come “simbolo gelido del divino disappunto, del divino allontanamento da una vita sociale sempre meno conforme ai precetti cristiani, sempre più rilassata, licenziosa, sempre più orientata verso il materialismo e lo scetticismo”. “Solo in qualche cuore devoto rimase accesa la fiamma, solo in qualche mente eletta brillò quale chiara luce il convincimento del significato di questo primo segno del perdono divino per la lunga trascuranza, le molte mancanze, prima tappa dell’ascesa verso una nuova luce di spiritualità”.
Il secondo elemento del quale è opportuno far menzione è quello della Fiera. Ci si riferisce, in proposito, al Ronna 1824 e a Francesco Piantelli, “Folclore Cremasco”, Crema 1951, Capitolo VI (“Gente allegra”), pp. 478-481. Il 3 dicembre 1664 i provveditori di Crema scrivono al Doge di Venezia chiedendo di allestire un periodico “mercato libero” vicino al santuario, visto che il luogo di culto può favorire l’afflusso dei visitatori e lo sviluppo dei traffici. La “penuria di danaro” può infatti risolversi organizzando questa fiera vicino alla “insigne e venerabile” immagine miracolosa della Madonna, “tenuta anticamente in somma venerazione, di gran concorso e particolare devozione”. Insomma, il business lì vicino può riuscire meglio. Se i cremaschi possono apparire in tale circostanza dei venali profittatori del culto mariano e della venerazione popolare, essendo oltretutto già da tempo conclamati brusacristi per pubblica nomea (anche se, da Ruzante fino a Pasqualigo e Montaldi, i brusacristi sarebbero i bergamaschi), va detto che il Doge Domenico Contarini non solo capisce al volo l’opportunità di questa concessione ma firma in meno di un anno, il 14 novembre 1665, il diploma con cui si concede “alla fidelissima città di Crema” l’allestimento del richiesto mercato annuale, “acciò con questo comodo possano ricevere quei fedelissimi sudditi per il concorso di genti forastiere, ed altre, qualche sollievo nello spaccio dei lini, cose commestibili e robbe lavorate con augmento delle pubbliche rendite”. I fatti danno ragione sia agli interessi locali che a quelli dogali, a quelli dei privati cittadini e a quelli delle pubbliche istituzioni. La Fiera, che allora aveva una durata di sette giorni e muoveva affari e capitali molto ingenti, garantisce da subito un “augmento” notevole delle entrate per tutti, grazie alla vicinanza al luogo di culto in cui si venera la Madonna miracolosa apparsa a Caterina degli Uberti. La prima Fiera di Santa Maria della Croce si tiene nel 1666. La tradizione successiva la fa svolgere all’inizio della primavera. Oggi si conserva una sua riedizione ridotta, dopo varie interruzioni storiche, di natura molto diversa da quella originaria, nel fine settimana più vicino alla data del 25 marzo, festa della Annunciazione.
Come si è anticipato nel precedente articolo, restano alcuni aspetti della vicenda di Caterina degli Uberti e del marito Bartolomeo Pederbelli che meriterebbero degli approfondimenti. Innanzitutto le circostanze in cui viene a maturarsi il reato di omicidio. Si è detto in quell’articolo dello strano percorso compiuto per arrivare sul luogo del delitto; dell’altrettanto strano orario di partenza per il viaggio notturno, in territori infestati da malfattori; delle poco usuali modalità di locomozione (in due su un cavallo) per percorrere un tragitto notevole, anche alla luce delle agiate condizioni di Caterina. Anche il Ronna ha rilevato qualche aspetto poco convincente e ha provato a spiegarlo. Ad esempio, questo autore ipotizza che Bartolomeo abbia detto alla sposa e ai suoi parenti che la coppia avrebbe dormito in città e sarebbe partita la mattina successiva, mettendo poi Caterina davanti alla sorpresa della partenza notturna. Inoltre, la chiesa di San Bartolomeo citata dal Terno non sarebbe l’attuale chiesa di San Bartolomeo dei Morti ma una chiesuola allora appena fuori dalla “porta di Rivolta”, per cui il lungo avanti-indietro senza senso non sarebbe avvenuto, trattandosi solo di una piccola deviazione laterale verso la porta Pianengo, non dal lato del castello ma sul lato di ponente. E via di questo passo, cercando di spiegare le stranezze del racconto del Terno. Francamente, i dubbi sulla congruenza di certi passaggi di quel resoconto permangono, anche se va dato atto al Ronna di aver fornito delle spiegazioni che potrebbero avere un qualche parziale fondamento. La vicenda lascia comunque interrogativi in buona misura ancora senza risposta, alla luce del testo del Terno e delle altre opere che hanno successivamente tentato di dare versioni convincenti in proposito.
Inoltre, si è già fatto cenno al problema della mancanza di movente per questo uxoricidio. In fondo, l’assassino uccide la moglie solo per i pochi anelli e per qualche prezioso che aveva indosso? La dote, che era molto cospicua, non l’aveva ancora ricevuta e, in poco tempo, avrebbe potuto senza problemi farla propria per legge. La motivazione dell’omicidio non è quella del raptus improvviso, dell’empito passionale incontrollato, visto che si tratta, da quanto precisato dalle fonti, di un delitto pienamente premeditato, di un’azione ben pianificata e freddamente condotta, di un’aggressione svolta in un tempo e in un luogo accuratamente programmati. Quindi non si comprende perché il femminicida rinunci, con piena coscienza e volontà, a dei benefici certi ed evidenti, a dei profitti duraturi e di sicuro interesse, derivanti da un matrimonio di grande vantaggio economico e sociale (la famiglia Uberti è nobile e facoltosa), oltre che a una ricca dote, per scegliere di vivere perennemente in fuga, in contumacia, braccato dalla legge, a fronte di un bottino consistente solo in pochi gioielli. Senza contare il fatto del pregiudizio non solo finanziario e di censo ma anche sociale e di ceto, trovandosi il Pederbelli d’un tratto mutato, da agiato cittadino in quanto maritato a una abbiente e altolocata consorte, in fuorilegge ramingo, reietto e destinato alla forca. Se veramente le cose sono andate come ci sono state raccontate (e abbiamo visto quanto il primo racconto compiuto di quei fatti, quello del Terno, presenti non poche incongruenze), allora una motivazione per questo omicidio, che sia valida e convincente, ci deve pur essere. Quale? Dobbiamo ammettere che, a tutt’oggi, questo interrogativo rimane sostanzialmente senza risposta. Forse in certi casi le risposte corrette mancano perché mancano, prima ancora, le domande giuste.
La cosa è molto strana e qui nemmeno il Ronna riesce a fare luce su questa mancanza di un movente credibile. Caterina non aveva compiuto azioni o manifestato mancanze che potessero spiegare eventuali comportamenti coniugali ritorsivi o punitivi. Era una fanciulla senza macchia, una giovinetta irreprensibile, una sposa esemplare. Possibile che sia stata uccisa dal marito, così violentemente e crudelmente, solo perché questi era un malvagio scellerato, un feroce sanguinario, una prava anima dannata? Qualcosa in questa fattispecie ricorda il racconto di Nastagio degli Onesti, il tema della Caccia infernale, la furia diabolica della Caccia selvaggia. I simboli ci sono tutti, dalla notte al bosco, dal cavallo alla spada, dalla demonialità di Bartolomeo al sangue della vittima amputata e dilaniata. È veramente un pezzo letterario di Wild Hunt, di Wutende Heer, in cui la presenza diabolica del Male irrompe sulla scena da protagonista. Forse Bartolomeo deve essere troppo cattivo e Caterina deve essere troppo buona. Visto però il contesto cristiano e non nordico, arriva poi l’intervento salvifico, rassicurante, femminile, consolatorio della Madonna. Si tratta di un’eco norrena temperata dal cattolicesimo, di una suggestione che prende piede in un vuoto logico interpretativo, in una mancanza di spiegazioni di quei fatti, che restano ancor oggi senza un perché.
Per quale ragione Caterina viene aggredita e uccisa, forse dal proprio marito, forse da altri? E se le sue dichiarazioni all’autorità inquirente, rese in fin di vita dal suo letto di dolori, non fossero state proprio così esatte, così inoppugnabili? Ci sarebbe da scriverci un libro, da girarci un film. Forse anche da aprire un nuovo processo. In fondo, tutti i soggetti coinvolti nella vicenda si sono poi concentrati principalmente sull’intervento della Madonna. Ma il nodo da sciogliere, con buona pace della devozione mariana e della religiosità popolare, è quello riguardante i fatti avvenuti in precedenza. È un nodo soprattutto di tipo giuridico, di natura penale. É una questione di indagine investigativa, di istruzione probatoria. Questo nodo attende ancora, ai nostri giorni, di essere sciolto. Noi abbiamo oggi solo il racconto letterario, educativo, motivazionale, il quale oltretutto, a suo modo, almeno in termini spirituali e ultraterreni, è pure a lieto fine. Il Male, rappresentato da Bartolomeo, è vinto dal Perdono, accordato da Caterina morente. È una vittoria testimoniata nei secoli dalla basilica, segno visibile e pedagogico del trionfo finale del Bene sul Male. Per non parlare poi di una versione successiva dell’esito di questa vicenda, secondo la quale Bartolomeo si sarebbe pentito del suo misfatto e si sarebbe ritirato in un deserto per espiare la propria colpa, pregando e mortificandosi, fino alla remissione divina del peccato commesso, morendo poi in pace col Signore, in stato di grazia.
Un ultimo aspetto a cui si è fatto cenno nel precedente articolo è quello della scomparsa dei resti mortali di Caterina degli Uberti. Si diceva in quella sede che, trattandosi delle spoglie di un personaggio così rilevante da essere all’origine dell’edificazione di una basilica di tale importanza per Crema, non si comprende come sia stato possibile perderne ogni traccia, senza farsi troppi problemi, da parte dei cittadini cremaschi. È ben vero che a Crema, come del resto anche altrove, a volte ciò che resta dei personaggi di rilievo si perde senza che resti memoria dei tempi e delle circostanze di tale perdita. Caterina non è certo la sola ad aver dovuto subire questa sorte. Resta tuttavia da chiedersi come sia possibile trovarsi oggi senza neppure il minimo indizio riguardo alla scomparsa delle sue spoglie mortali.
Resta forse l’ipotesi di una distruzione o di una dispersione dei suoi resti in uno dei momenti in cui tale situazione si può essere manifestata con maggiore probabilità. Ovviamente, questa perdita può essere comunque avvenuta in qualsiasi momento e frangente, visto che nulla si sa in proposito. In ogni caso, sappiamo che la chiesa di San Benedetto, nella quale Caterina era stata sepolta, a partire dal 1622 è stata in gran parte ristrutturata, con notevoli lavori di rifacimento durati per i quattro anni successivi, sia perché l’edificio necessitava da tempo di interventi strutturali, sia per ottemperare alle riforme del Concilio di Trento. Forse in questa occasione le spoglie di Caterina sono state rimosse, trasferite o addirittura distrutte. Non lo sappiamo e solo una specifica indagine mirata potrebbe forse fornire qualche riscontro. Magari i resti sono stati spostati in un luogo di cui poi si è persa la memoria, forse non molto lontano dalla chiesa, vista l’abitudine di inumare i defunti nei terreni circostanti le chiese cittadine, almeno fino all’editto di Saint Cloud.
Ed è proprio quando questo editto del 1804, esteso al Regno d’Italia nel 1806, costringe le varie municipalità a inumare o tumulare i defunti al di fuori delle mura cittadine, che può essersi verificata un’altra situazione in cui le spoglie mortali di Caterina sono state trasferite o disperse. Sappiamo che in quel periodo non solo si iniziano le sepolture nel nuovo cimitero a ponente della cinta muraria ma che si procede anche allo smantellamento di numerose aree cittadine fino ad allora destinate a questi scopi. Non sappiamo se ciò che restava di Caterina sia stato portato nel nuovo cimitero e, in questo caso, quale destino successivo abbia avuto. Così come non sappiamo se in quel momento i resti di Caterina fossero già andati perduti. Comunque, in quel periodo, un notevole movimento e traffico in proposito c’è stato e sappiamo che non sempre le operazioni svolte assicuravano la conservazione di tutto quanto prima esistente dentro le mura cittadine. Anche qui, siamo nel campo delle mere ipotesi.
Va pure detto che a Crema la foga giacobina degli ultimi anni del XVIII secolo non era stata dissacrante come in altre realtà italiane liberate dalle armate francesi. E ciò nonostante le successive geremiadi dei codini e parrucconi locali tornati al potere dopo la Restaurazione. Diventa quindi difficile immaginare svuotamenti di avelli e distruzioni di spoglie appartenute ad aristocratici, sacerdoti o figure di spicco per la devozione religiosa come Caterina degli Uberti. Certo, nulla si può escludere. Però, tra le varie possibilità di dispersione dei suoi resti, questa sembrerebbe, almeno in assenza di maggiori approfondimenti, meno probabile delle precedenti sopra esposte. In conclusione, forse da qualche parte le spoglie di Caterina riposano ancora nascoste e protette dall’anonimato. Chi lo sa. Di sicuro era stata messa nella bara con la sua mano mozzata. Perché la mano non fu più attaccata al braccio. Infatti la leggenda popolare secondo la quale la Madonna, tra i suoi vari miracoli, avrebbe anche riattaccato la mano al polso di Caterina, è destituita di ogni fondamento. In certe scuole religiose cremasche veniva invece raccontata come una cosa sicura. Ma era una licenza narrativa, una delle tante che si incontrano indagando e studiando questo femminicidio di cinque secoli fa.
Nelle foto, cinque immagini della vicenda di Caterina degli Uberti, tratte da una serie di stampe del 1839 (a corredo dell’articolo precedente sull’argomento, erano state pubblicate le prime cinque delle dieci complessive). Nell’ordine, come da intitolazioni sul retro: “Ricevuti gli ultimi sacramenti Caterina riposa nel bacio del Signore”; “Caterina Uberti elevata da Maria Santissima alla gloria del cielo”; “Allusione ai 40 miracoli avvenuti il 3 maggio 1490 al Novelletto”; “Portentoso cerchio appare agli architetti il 18 giugno 1490 ore 5 pomeridiane”; “Tempio di Santa Maria della Croce presso le mura di Crema”.
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