28 novembre 2023

La nostra storia. A Gussola "Bandiera Rossa" e la gerarchia dei chierichetti. I due sagrestani sul campanile

Gussola-La Costituzione, proprio allora  fresca di stampa, lasciava aperta una discussione appassionante. Per l'articolo 44 si doveva “conseguire il razionale sfruttamento del suolo” e si dovevano “stabilire equi rapporti sociali attraverso vincoli alla proprietà privata dei terreni”. Era in discussione la “Riforma agraria”. Negli ambienti politici pensavano alle terre improduttive dei latifondi “assenteisti”, ma in paese si discuteva delle terre demaniali lungo il Po, le quali fino allora erano rimaste in concessione, a costo irrisorio, ai “frontisti”, cioè a coloro che avevano la proprietà confinante, e la Cartiera aveva confini molto lunghi in prossimità di quelle terre. Fu in quella circostanza che la Federbraccianti  ne organizzò l'occupazione con lo scopo di ottenerne l'affidamento ad apposite associazioni, come le cooperative, e in paese provvidero subito a costituire la cooperativa “Dei Disoccupati”. 

L'inverno non era terminato che ancora una volta sorse una iniziativa per tentare l'impostazione di nuovi indirizzi nella ristrutturazione di quella società. Il pretesto era che la concessione alla Cartiera per le terre demaniali aveva una durata di venti anni, invece che i dodici stabiliti dalla legge, perché la coltivazione prevista, il pioppeto, richiedeva tempi lunghi. In realtà la Cartiera non utilizzava quelle terre specificatamente per i pioppi, ma la utilizzava soprattutto per culture annuali più redditizie, come il granoturco, e quindi appariva evidente che si trattava di un abuso e il privilegio risultava ingiustificato, specialmente perché si sapeva che era stato elargito dal gerarca fascista locale, particolarmente prepotente e detestabile. Gli uomini guidati dalla Federbraccianti cominciarono a recarsi su quelle terre per lavorare e per abbattere pioppi, accompagnati dalle loro donne, le quali vi si recavano soprattutto per fare numero, oltre che per fare fascine con le ramaglie. La polizia aveva il compito di intervenire e andava a chiedere i documenti: si recava sul posto in assetto antisommossa, cioè brandendo armi militari che incutevano una certa apprensione nelle donne. Costoro però erano sempre avvertite dei controlli imminenti, obbligati a passare per il paese e, per farsi coraggio, esse si facevano trovare che cantavano “Bandiera rossa” o altri canti simili, allora in voga, suscitando commenti ilari da parte dei poliziotti: “Ripetono che sono disperati e in miseria, ma cantano sempre!” “Cantare non costa niente” rispondevano “la voce è nostra!” Ad ogni buon conto arrivavano subito rinforzi dal paese; li vedevano: gli uomini apparivano a cominciare dalle teste, mentre salivano dalla parte opposta dell'argine comprensorio e presto una piccola schiera scendeva  verso di loro. La tensione durò qualche settimana e finalmente arrivò l'annuncio: “L'unità di tutte le forze piega la tracotanza degli agrari....Vittoria sulle terre demaniali.....” Era stato firmato un accordo per cui la Cartiera pagava 450 Lire per ogni quintale di legna tagliata dalla cooperativa “Dei Disoccupati”, alla quale  cedeva anche la concessione della terra in discussione. La riforma agraria, costata la morte di alcuni braccianti nel meridione, pochi mesi dopo portò una ridistribuzione della terra incolta ai lavoratori dei campi in Puglia, in Sicilia e nel Delta del Po. 

L'anzianità fa grado, cioè «Il più vecchio del mestiere può comandare.» dicevano i piccoli chierichetti nella sacrestia della chiesa, proprio come nelle ben collaudate, antiche ed efficienti organizzazioni militari. Allora Kramer, che era il più grandicello, sceglieva gli incarichi da distribuire prima delle cerimonie religiose solenni; il compito più ambito comportava il maneggio del turibolo che doveva tener vive le brace contenute, le quali poi emanavano la nuvola intensa di incenso profumato, subito dopo veniva la mansione o di suonare il campanello nei momenti cruciali delle funzioni sacre o di versare il vino nel calice del celebrante; qualcuno riusciva anche a dare un assaggino furtivo al vino dal bel colore ambrato,  facendosene cadere nella bocca, spalancata verso l'alto, un piccolo goccio attraverso il sottile beccuccio dell'ampolla di vetro. Nella sacrestia, che nelle feste di prima estate  odorava di cenere e di gigli, comunque c'era ben presente anche un'altra autorità: Giacumotu, anziano, rugoso, esile e di bassa statura, portava sempre, anche d'estate, la sua struscita giacchetta grigia; era il sagrestano, il campanaro e il cerimoniere della chiesa; aveva mani indurite dal gelo e dal lavoro, nodose come un tronco di una vecchia vite. Nei pomeriggi interminabili di Luglio Giacumotu, assieme con suo fratello Cichén, ambedue scapoli, prendeva il fresco all'ombra perenne sul retro dell'abside della chiesa, stando seduto sul gradino già consunto dall'uso e dal tempo, un po' di marmo e un po' di mattoni,  che era la soglia per l'ingresso nella torre campanaria. Immerso nei suoi pensieri, egli osservava in silenzio il trascorrere del tempo, mentre l'ombra si allungava sotto la muraglia che costeggiava il campo vicino. Masticava una cicca di tabacco toscano ed ogni tanto, con noncuranza naturale, sputava la poltiglia insalivata proprio lì davanti. Pur nella sua dignità, egli era tanto povero che non possedeva neanche la bicicletta, si spostava solo a piedi e le poche volte che parlava, raccontava che non era mai uscito dal paese. Usava parole di ammirazione per il precedente battagliero prevosto, don Lupi, «Lui sì che sapeva farsi  rispettare.» Aveva conosciuto anche don Stefano, proprio lo stesso che era ricordato con una lapide nera, da defunto, murata nell'intonaco di una colonna dentro la chiesa. Cichén annuiva.

Giacumotu teneva d'occhio il suo vecchio orologio da taschino e poco prima delle sette entrava nella cella al pian terreno della torre, dove non si aprivano finestre e la penombra dava una gradevole sensazione di fresco, introvabile altrove, perché i condizionatori d'aria domestici non erano stati ancora neanche immaginati. Il soffitto a botte in bei mattoni rossi, tramite appositi fori, lasciava passare i lunghissimi cordoni di canapa di diametro diverso secondo la campana collegata, quella del campanone era grossa come una gomena; all'ora richiesta, puntuale, Giacumotu si aggrappava alla corda più piccola e diffondeva per il paese gli ultimi cadenzati squilli che chiudevano la giornata. Poco dopo egli, per andare a casa, scompariva dietro la porticciola antica che dava su un angusto cortile, selciato in laterizio muschioso e dove non batteva mai il sole. 

Ai chierichetti più grandi, grazie a una iniziativa di don Everardo, il prete giovane e anche un po’ spericolato, era riconosciuto il privilegio per cui essi potevano salire sul campanile perfino per caricare i meccanismi dell'orologio che dall'alto, spandendo i suoi rintocchi, regolava buona parte della vita locale. Attraversando celle semibuie al termine di rampe strette di scale, camminando su soppalchi polverosi in legno tarlato e arrampicandosi su tratti sconnessi di scale a chiocciola, scarsamente illuminati attraverso sottili feritoie, veniva da ansimare e l'ambiente misterioso e diroccato procurava emozioni trepidanti, ma a metà altezza della torre si era accolti dai tonfi regolari e profondi del pendolo che oscillava pesantemente sotto il telaio dell'orologio: per caricarlo si spingeva una rustica manovella collegata ad un verricello di legno che a sua volta sollevava una grossa pietra sospesa ad una corda. Salendo ancora, alla fine di tutti i gradini sempre bui, passando attraverso una botola, si usciva alla gran luce della cella campanaria. Le campane apparivano ben più grandi di come si vedevano dalla piazza: chissà cosa sarebbe successo se si fossero messe a suonare. Al centro della cella era stato fissato da poco tempo il banchetto sul quale, nelle feste, Giacumotu produceva i suoi concerti campanari, che egli eseguiva pigiando coi pugni stretti le assicelle allineate, ciascuna collegata al batacchio di una campana tramite il suo tirante. Da là, affacciandosi dai parapetti e sporgendo la testa proprio sotto quelle masse incombenti di bronzo ben decorato, si ammirava il mondo dall'alto, mai visto prima. Si riconoscevano le chiese dei paesi vicini, ognuna vegliata dal proprio campanile; con lo sguardo si poteva seguire un lungo tratto verde di argine oltre il quale luccicava qualche specchio d'acqua della Lanca: « In quella casa abita Mastrili!» «Dietro quel filare è la chiesa di Torricella del Pizzo!» «Si vede perfino la cupola del duomo di Casalmaggiore!», «Ma perché non si vedono le montagne!». (6- continua)

 

Giorgio Peri


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commenti


Fausto Grossi

28 novembre 2023 20:44

Io Fausto Grossi. Puro. Gussolese, ora residente a Gran Canaria, ora anni 75. Tutto quello che ho letto in questo articoli su Gussola lo vissuto di persona con Giacumotu dicevano che era mio zio Bo? Ho partecipato. anche con lui , alla distribuzione del le candele col carrettino per il periodo della madonna candelora. Cari ricordi antichi commoventi.

MIchele de Crecchio

1 dicembre 2023 21:10

A proposito di campane...
Giorgio Peri si chiede cosa sarebbe successo a chi si fosse trovato nella cella campanaria quando le stesse campane si fossero messe a suonare. Beh, io lo posso ben testimoniare. Il primo lavoro che feci, appena laureato architetto, fu infatti il rilievo della basilica di San Sigismondo alla periferia di Cremona. Nel corso di tale lavoro mi capitò di trovarmi proprio nella relativa cella nel momento certo meno opportuno e cioè quando le relative campane cominciarono a segnalare, con dodici implacabili botti, il mezzogiorno! Ricordo che barcollai e che riuscii a restare in piedi solo appoggiandomi ad una parete. L'amico Massimo, che mi aiutava nel lavoro, era rimasto ad un livello della torre molto più in basso e, terminato lo scampanio, mi raggiunse tutto preoccupato perché, per qualche secondo, non ero stato in grado, stralunato come ero, di rispondere al suo richiamo. Per quel giorno, se ben ricordo, le nostre operazioni di rilievo si dovettero arrestare!